Prove d’ascolto #4 – Elisa Davoglio

Tormenta

 

Le prime, efficienti e strutturate macchine da guerra si chiamano Tormenta.

Quelle più pesanti funzionano per lanciare oggetti a caduta libera, pesanti, capaci di forare spesse mura e creare fuochi.

In forma più leggera, ma sempre efficace, denominate scorpioni, possono essere trasportate su navi, affondare insieme ai marinai, fare luci con le esplosioni per avvertire dei pericoli in arrivo dal mare, ripetutamente segnalare perdite e l’avanzamento di danni.

 

 

Tormenta agiscono per offesa, anche come fuoco di copertura, e protezione.

Tormenta si costruiscono sul posto. Possono lanciare pali acuminati, sassi o sfere di piombo anche oltre la distanza di 350 metri.

Sono agili, scattanti, affabili, persecutorie.

 

 

Tormenta sono mobili, e assecondano il movimento degli uomini con precisione, anche negli spazi stretti.

Manovrabili da un numero eletto di uomini, quelli con la vista migliore, capaci di empatia e amore, e di assegnare nomi alle macchine come ai cavalli o ai figli.

 

 

Tormenta si dividono in battaglioni, compagnie, plotoni. Piccolo e grande calibro, strumentazione più o meno sofisticata.

 

 

 

Producono un rumore che è un fischio, poi una contemplazione, un lampo, e una sorpresa.

 

 

Sempre più piccole unità di uomini possono manovrare tormenta, tormenta possono stare a digiuno più a lungo di un uomo, sono per tanti fattori più precise, più resistenti, meno inclini allo stupore e all’inceppamento.

 

 

Quanto è necessario a nutrire tormenta è calcolabile come il fabbisogno di più giorni, per più individui che si chiamano, indifferentemente, gruppi, ceppi, manipoli, formazioni, numeri, unità, reparti, suddivisioni, legioni, coorti, centurie.

 

 

Tormenta sono adatte per porre un assedio, come tra una collina e una piana, costruendo un fosso ed un terrapieno, sistemando palizzate fatte di tronchi con la punta aguzza rivolta contro, catapulte fissate sulle torri, con deviazione di un fiume per riempire il terrapieno, per annegare i fuggitivi, dare da bere agli alimentatori di tormenta, per più giorni, durante la razionalizzazione delle scorte, interrompendo dal terrapieno pieno di acqua la provvista di cibo agli assediati, che proporanno il suicidio, l’abbandono di donne e bambini e vecchi, la salvezza di donne, bambini e vecchi, la resa, il suicidio, l’attraversamento di quindici file di fosse con all’interno, conficcati nel terreno, tronchi con rami intrecciati e pungenti, e otto file di pali aguzzi camuffati con cespugli, e una fascia di pioli muniti di uncini di ferro, sotto la vista di tormenta, che pure utilizzano come gli uomini la luce per vedere, per camminare, colpire, ritirarsi.

 

 

Alla destinazione mancano i passi calcolati sulla marcia di Tormenta

senza rallentamenti o esitazioni sulla mira ferite che si infettano nella progressione pacata delle file.

 

 

Servono cucce ad ogni lampo dove la luce brucia. In più di uno, le donne i bambini e i vecchi muoiono per primi. Si proteggono per primi le donne i vecchi e i bambini conservandoli alle ginocchia di Tormenta nella richiesta di spegnere il fuoco, smorzare la luce, permettere il passaggio di cibo. Dormire.

 

 

Chi è coraggioso lanciarsi da un punto alto. Tormenta sono fatte della materia delle monete della folla che si decima dei bambini che nascono sempre in maggiore numero.

 

 

Tormenta appaiono in parcellizzazioni di onda/corpuscolo infinitesimi di frazioni di secondo (dopo) dentro e fuori l’assedio. Non è possibile, in questo tempo, invertire il verso, costruire fortificazioni lunghe millenni, fuggire alla gravità, modificare la consistenza del metallo e della carne, trovare un riparo anche tra le proprie mani.

 

 

È usuale perire nella luce, tutto ciò che si muove quando si afferra, statico. La sintesi, la genesi, la nascita e l’allevamento di Tormenta, sono pari all’efficienza e alla natura dei fiori che spargono semi e dei bambini.

 

 

I bambini continuano a nascere, a tentare di cavarsi gli occhi con le dita quando giocano.

 

 

istruzioni per la raccolta, immagazzinamento, in modalità ampia, colorata, affettiva di Tormenta

 

procuratevi della carta particolarmente bella su cui stamperete le impronte

 

stilate un elenco delle foto che volete scattare, in modo da non dimenticarne nessuna sul momento

 

tagliate una piccola ciocca di capelli dalla nuca (portate con voi una bustina di plastica)

 

tagliate le unghie (portate con voi una bustina di plastica)

 

stampate impronte delle mani e dei piedi con un cuscinetto d’inchiostro

 

tracciate il contorno delle mani e dei piedi su della bella carta

 

tracciate la silhouette del viso (proiettate il suo profilo su un foglio illuminando lateralmente il volto e ricalcatene l’ombra)

 

disegnate il contorno di tutto su un grande foglio

applicate un velo di rossetto e stampate l’impronta delle labbra

 

 

confezionate o acquistate un orsacchiotto di tessuto chiaro (o di peluche cortissimo). con l’inchiostro stampate le impronte delle mani sulle mani dell’orsacchiotto, le impronte dei piedi sulle zampe dell’orsacchiotto.

 

Esistono ciondoli a forma di cuore diviso in due. L’altra conservata da voi.

 

Destinate una bella scatola o una cassetta in legno a luogo in cui riporre tutti questi ricordi.

 

 

 

 

Processo

 

I

 

:vorrei fare solo precisazioni

:non ricordo, successivamente, credo di ricordare

:quanto c’era da decidere

 

:non è vero! Escludo

:ho la certezza di quanto dico

:i miei ricordi sono precisi

 

:sinceramente non presi alcuna iniziativa

:e allora come avvenne?

:c’era stata

:c’era stata?

 

:in uno dei tanti incontri      parlammo genericamente di queste cose

:confermo quanto ho dichiarato

:certo è ben sicuro di tutto questo?

:e desidero ribadire

:informò preventivamente?

 

:questo non lo ricordo. Però

:esclude decisamente

:gli ho mostrato e poi ho parlato

:sicuramente gliene ho parlato.

 

:andò da solo?

:poi gli ho chiesto la sua opinione

:e come ha risposto?

:mi ha detto di essere d’accordo. Allora

 

:sulla necessità di salvaguardare

:gli ho fatto rilevare l’opportunità

:era importante come fatto psicologico

 

:chi era?

:era, ritengo

:lei conferma

:ma certo

:anche se la telefonata

 

:dato che io ero rimasto d’accordo

 

:non è vero niente!

:non mi sono mai occupato di fatti particolari

:non si riferisce solo ad un episodio, ma a diversi

 

:io non la capisco proprio

:mi dispiace

:escludo, lo ripeto

 

:io non so nulla!

 

:io non capisco questa sua paura

:senta: è ora di finirla

:voglio chiedere, se almeno leggeva i giornali

:io non ne sapevo nulla

 

:ricordo bene del tempo in cui se ne era parlato ripetutamente

:ripeto che non ne so niente!

 

:il  caso non è un caso che possa mettere paura

:lasciatelo parlare

:non si può tollerare

:voglio chiedere

:di certo sì

 

:io non ne sapevo nulla

:ricordo bene del tempo in cui se ne era parlato ripetutamente

 

:mi stupisce che venga a dire che non ne sapeva nulla

 

II

 

Gli aghi. Storia degli aghi. Inizialmente gli aghi. Poi, durante e dopo. La crescita degli aghi. Il delitto con un ago. La prova dell’ago. Molti aghi, se ne producono più di quanti riescono a perdersi. Il fatto dell’ago. La corretta descrizione è: di forma allungata, appuntito ad una estremità. Istruzioni: se mancano gli aghi di metallo, si possono creare da spine di agave.

 

Arrivano per giocare. Una volta trovano una palla e iniziano a discutere della sua provenienza. Sono incerti sul da farsi, se proseguire, se portare la palla verso un centro.

 

 

Porta un collare da cane. Con su scritto una identità.

Il riconoscimento è immediato, anche se non parla.

Per suscitare parole, viene appesa a testa in giù, solleticata sotto le punte dei piedi.

 

Sezionano cosa contribuisce al suo peso, per pesarla.

Non riescono a trattenerla per i piedi, dritta, sicuramente il peso, ma non c’è possibilità di misura se non confrontando gli oggetti, le cose. Hanno preso provvedimenti, creano scale, dimensioni nuove e vuote come bolle.

 

Non si regge da sola, è impossibile reggerla per i piedi, senza che il valore venga alterato calcolato male.

 

III

 

:confermo parola per parola tutto quello che ho detto

:da queste dichiarazioni si evince che si vuole coinvolgere in queste vicende

 

:ha sempre e soltanto fatto solo quello che gli chiedevano

:non è vero niente! Io non mi sono mai occupato di problemi particolari

 

:chi sia lo accerteremo

 

:sicuramente. E vorrei aggiungere

:ho l’abitudine di conservare degli appunti

:e che cosa fece?

:rilasciai una breve dichiarazione

 

:no. Non l’ho letta

:ecco, ora ricordo, non si tratta di

:eppure è andata così

:escludo

 

:la realtà è ben diversa da quella che può apparire, ed è ben diversa da quella che, forse

:in buona fede, crede di ricordare

:giudicatemi pure

:vorrei essere giudicato serenamente

 

:in quel momento, ne sono certo, non c’ero

:cosa ha da dire?

:senz’altro

:estrasse da un cassetto un annuario con la copertina blu

 

:in quel momento non attribuivo al fatto grande importanza

 

 

 

da Viaggio al centro della terra

La terra sotto il suolo è piena di spelonche ventose, di laghi, stagni e  fiumi che tracinano massi.
A volte le caverne crollano e fanno crollare le montagne. Nelle cavità c’è anche il vento che preme e fa piegare la terra
Lucrezio – De Rerum Natura

 

La fretta è stata quella di raggiungere al più presto il nucleo terrestre. Al centro della terra sta un nucleo, fatto di ferro e nichel.

Il nucleo è separato dal mantello da una discontinuità, detta di Gutenberg,

Il nucleo è fatto di ferro e nichel. Gira più velocemente del resto del pianeta, la velocità aumenta ogni anno di circa due gradi

è parso chiaro subito che raggiungere il centro della terra sarebbe stato impossibile, se non in sogno

non tramite trivellazioni della superficie. In ogni caso il buco creato non sarebbe abbastanza profondo, non raggiungerebbe mai la misura necessaria per tale follia

non è possibile raggiungere il centro della terra con comportamenti adeguati, una sana alimentazione  che ripari i danni provocati da questa ostinazione

si chiama cielo, volta celeste, uranio. Al centro della terra stanno gli inferi, si brucia e non si vola la maledizione

alcuni elementi, parti di roccia, arrivano in superficie e stupiscono. Ne viene studiata la composizione, la densità. Perché mutano e cambiano forma come se la terra stessa digerisse il suo centro

 

una animazione ha studiato il viaggio verso il centro della terra

un manipolo di uomini decompressi, a due dimensioni, bianchi come un foglio di carta

a 1300 metri si incontra un verme, chiamato il verme del diavolo, Mefistole

durante il viaggio non c’è più spazio tra le creature mano a mano che si allontanano dalla superficie

l’unico progetto reale prevede una sonda     un piccolo bombardamento atomico che fletta la terra come un terremoto impedendo ogni spiraglio d’aria per le mosche

una paura comune è quella di impazzire se sotterrati ognuno cercherebbe l’aria

nessuno per salvarsi il centro della terra

non è ben chiara la ragione di questo comportamento

da vulcani spenti, forse, si potrebbe calare e accedere al centro della terra

l’odore terribile è stato avvertito per la prima volta nel mese di gennaio, l’anno scorso

 

 

 

Cocktail Party

 

tra i coniugi la rottura pare inevitabile: entrambi hanno stretto una nuova relazione

è condannato a morte ma si avvelena

 

le liti si susseguono

la resa è totale, incondizionata

 

riprende il suo cammino e scompare

resasi libera, può sposarlo

 

benché riluttante e inorridito da se stesso, la uccide

rimasta ben presto vedova, dedica il suo denaro alle opere di beneficenza

 

muore giovanissimo, schiacciato dal peso di quella memoria

finisce per uccidere anche il suo creatore

 

torna al suo vecchio impiego dove potrà ricordare la sua singolare vicenda

incapace di comunicare persino con la madre che si disinteressa di lui, si uccide

 

decide di salvargli la vita e lo sottomette a una cerimonia espiatoria

viene liberato per ordine della regina, che gli conferisce anche un titolo nobiliare

 

trova infine pace

muore riconciliato con il padre

 

continua ad essere perseguitato da incubi in cui rivede le spiagge dell’isola dei pirati

misteriosamente salvato da qualcuno che non riesce ad individuare

 

confessa pubblicamente la propria colpa e muore, stroncato dall’emozione

in prigione, passa il suo tempo a scrivere, in attesa che venga eseguita la sentenza capitale

 

si offre alla loro vendetta e viene graziata

muore infine assassinata da Jack lo squartatore

 

passerà il resto della vita nella casa di famiglia

si getta sotto i proiettili dei suoi ex compagni

 

riesce a gestire il successo con moglie e figli

si avvia nobilmente al patibolo

 

*

Su Tormenta e Viaggio al centro della terra di Elisa Davoglio

di Giorgia Romagnoli

Tormenta

“Le prime, efficienti e strutturate machine da guerra si chiamano Tormenta.”

Questo testo ne definisce le capacità, le azioni; macchine che assecondano l’uomo, che è capace di controllarle, che si affeziona ad esse. Mezzi e armi di un nuovo conflitto, terribili e umane allo stesso tempo; fatte della stessa materia di cui è fatto l’uomo e create per sostituirlo, hanno bisogno di nutrimento anche se in misura minore.

Ne descrive la forma (parcellizzazioni di onda corpuscolo infinitesimi di frazioni di secondo…”), che rimanda alla doppia natura – corpuscolare e ondulatoria – della materia e della radiazione elettromagnetica. Forma mutevole e irriconoscibile in quanto i due stati non sono osservabili contemporaneamente per il principio di complementarietà.

Agiscono ponendo assedio, portando il “nemico” alla resa, al suicidio, interrompendo le scorte di cibo e di acqua, privandolo del sonno.

Un accento particolare è posto sull’affezione nei confronti di queste macchine: si tenta di ricordarle, di ricreare la loro immagine, di raccogliere oggetti e pezzi come se dovessero essere posti in una capsula del tempo – rigorosamente imbustati e sigillati – (impronte stampate, capelli, unghie) e “riesumanti” in un secondo momento.

 

Viaggio al centro della terra

Alle elementari ci spiegano che il pianeta terra è formato di diversi strati: crosta, mantello e nucleo terrestre fatto di ferro e nichel. Con l’aumentare della profondità aumenta la temperatura. Ci dicono inoltre che il nucleo è impossibile da raggiungere nonostante i numerosi tentativi: non ne abbiamo i mezzi. Questa impossibilità è percepita da un bambino come una proibizione, una questione non adatta alla sua età: quel posto non si può raggiungere “perché ci sono i mostri”, e quindi si accetta –quasi in tutti i casi – la spiegazione fornita.

L’ipotesi degli strati è frutto del calcolo della densità media della terra, che si ottiene applicando la legge di gravitazione universale e dividendo la massa per il volume. Con tale risultato si comprende che la densità interna è necessariamente molto maggiore di quella della crosta.

Questa teoria va a sovrapporsi ad un’altra sviluppatasi a partire dal XVII secolo secondo la quale la terra sarebbe cava al suo interno, il nucleo non sarebbe altro che un secondo sole che avrebbe permesso lo sviluppo di un’altra popolazione (teoria che sarebbe plausibile se non esistesse la forza di gravità). L’ingresso a questo mondo sotterraneo si troverebbe nei pressi dei due poli e si evolverebbe in centinaia di cunicoli.

L’idea di un mondo sotterraneo è collegabile sia alla convinzione antica dell’esistenza degli inferi, sia alla moderna teoria dei molti mondi. Quest’ultima – basandosi sul principio di indeterminazione secondo il quale non è possibile definire nello stesso istante la traiettoria e la quantità di moto di una particella – ipotizza l’esistenza di tanti mondi paralleli quante sono le possibilità che qualcosa accada o meno e dunque di diverse realtà probabili definite dimensioni. L’ultima dimensione possibile si traduce nella somma di tutti gli eventi passati, presenti e futuri accaduti o non accaduti.

“Esiste un mondo dove un uomo segue la strada che, nell’altro mondo, il suo sosia non ha preso” scrive Walter Benjamin nei Passages parisiens.

Questo testo passa dall’una all’altra teoria ipotizzando l’esistenza della vita sotterranea attraverso un viaggio immaginario, folle e onirico verso un mondo impossibile da raggiungere. Un mondo che si identifica con gli inferi, ma che allo stesso tempo dispone di una volta celeste. Una missione che potrebbe iniziare attraversando uno specchio (come nell’Orfeo di Cocteau) o osservando un’animazione su un monitor.

Verso un luogo percepito come un’altra dimensione in cui sono presenti “un manipolo di uomini decompressi, a due dimensioni, bianchi come un foglio di carta…” e che ricorda “Flatlandia” l’universo bidimensionale descritto da Edwin A. Abbott nell’omonimo romanzo.

Un viaggio attraverso le cavità della terra, in cui si incontrano creature (… un verme, chiamato il verme del diavolo, Mefistofele che è l’unica forma di vita pluricellulare presente ad una profondità considerevole nonostante le condizioni sfavorevoli) e si sperimenta la paura di impazzire dovuta al calore, alla mancanza di aria, di luce e di spazio sufficiente al movimento, alla respirazione e alla vita stessa.

 

*

 

Sui testi di Elisa Davoglio

di Fiammetta Cirilli

La sequenza di testi di Elisa Davoglio si apre evocando una macchina da guerra, Tormenta; e si chiude con la menzione di uno strumento di morte, lo strumento per eccellenza della morte imposta come forma estrema di “giustizia”, il patibolo. Tra un estremo e l’altro, altre macchine, altre situazioni di morte: e stralci di inquisizioni, di cronache minime, di minimi affioramenti di soggettività diffratte e anonime, soggettività a perdere, elencate rapidamente e surclassate da altre, in successione. Così, la descrizione pseudomanualistica delle macchine da assedio nelle prime lasse testuali di Tormenta. Il comporsi di quei marchingegni, su un piano visivo, a partire da definizioni che – più che delinearne la forma, la struttura, l’imponenza – ne colgono (paradossali “meraviglie” che adombrano le guerre tecnologiche del XX secolo) gli effetti: «Le prime, efficienti e strutturate macchine da guerra si chiamano Tormenta. | Quelle più pesanti funzionano per lanciare oggetti a caduta libera, pesanti, capaci di forare spesse mura e creare fuochi». Il loro implicare – per trascinamento, si direbbe – l’elemento umano: «In forma più leggera, ma sempre efficace, denominate scorpioni, possono essere trasportate su navi, affondare insieme ai marinai, fare luci con le esplosioni per avvertire dei pericoli in arrivo dal mare, ripetutamente segnalare perdite e l’avanzamento di danni» (il corsivo è mio). Il loro assumere, a tratti, connotazioni organiche, antropizzanti – anche nella loro accezione più sinistra: Tormenta «sono agili, scattanti, affabili, persecutorie». Sicché è assecondata una sorta di confusione tra le macchine e chi ne detiene il controllo: «Manovrabili da un numero eletto di uomini, quelli con la vista migliore, capaci di empatia e amore, e di assegnare nomi alle macchine come ai cavalli o ai figli». Tra le macchine e i combattenti in genere: «Tormenta possono stare a digiuno più a lungo di un uomo, sono per tanti fattori più precise, più resistenti, meno inclini allo stupore e all’inceppamento». Tra le macchine e chi ne subisce il potenziale distruttivo: i fuggitivi, gli assediati «che proporanno il suicidio, l’abbandono di donne e bambini e vecchi, la salvezza di donne, bambini e vecchi, la resa, il suicidio». In una progressione che ha il ritmo di una registrazione fulminea, indebita, implacabile, si va allora dalla/dalle macchina/macchine («Tormenta sono adatte per porre un assedio, come tra una collina e una piana, costruendo un fosso ed un terrapieno, sistemando palizzate fatte di tronchi con la punta aguzza rivolta contro») alla/alle macchina/macchine («otto file di pali aguzzi camuffati con cespugli, e una fascia di pioli muniti di uncini di ferro, sotto la vista di tormenta, che pure utilizzano come gli uomini la luce per vedere, per camminare, colpire, ritirarsi»). Includendo, quasi per inerzia, la guerra. O, ancora, includendo categorie e generi (non le esistenze, non le vite) sconnessi e messi fuori gioco per la guerra, nell’atto di scappare/resistere alla guerra (fuggitivi, assediati, «donne e bambini e vecchi», appunto). Del resto, è alle macchine – non certo agli esseri viventi – che tocca l’iniziale maiuscola: Tormenta (rispettando il plurale neutro latino: non le tormenta, né, tanto meno, i tormenti). Ed è sempre alle macchine che tocca una corporeità/riproduttività zoomorfa: «La sintesi, la genesi, la nascita e l’allevamento di Tormenta, sono pari all’efficienza e alla natura dei fiori che spargono semi e dei bambini». Dalla seconda metà in avanti, per altro, le lasse di Tormenta subiscono un viraggio: lasciando che affiorino – in contrasto all’apparenza stridente: frammenti di senso, di passaggi strappati a una narrazione ipoteticamente collettiva del farsi storia, dell’esercizio individuale per calcare la storia – una lista di «istruzioni per la raccolta, immagazzinamento, in modalità ampia, colorata, affettiva di Tormenta». Norme che evocano, nei loro assunti elementari, la composizione di un album, di un archivio privato della memoria: «procuratevi della carta particolarmente bella su cui stamperete le impronte || stilate un elenco delle foto che volete scattare, in modo da non dimenticarne nessuna sul momento || tagliate una piccola ciocca di capelli dalla nuca (portate con voi una bustina di plastica)», ecc. Fino, appunto, all’esortazione conclusiva: «Destinate una bella scatola o una cassetta in legno a luogo in cui riporre tutti questi ricordi».

Sull’esercizio della memoria (si pensi alle righe finali: al cenno quasi conclusivo all’«annuario con la copertina blu») insiste del resto anche il secondo testo di Davoglio, Processo: montaggio di voci – domande, risposte, parti di risposte: senza relazione, senza nessi, senza logica apparente nella progressione. Un interrogatorio (o lacerti di vari interrogatori) da voce a voce – voce (o voci) che inquisisce/inquisiscono, e (come ovvio) voce/voci che articola/articolano parole di difesa. Un esercizio del dire sul dire: perché – assenti azioni e situazioni, assenti eventuali attori –, sulla carta si imprime il girare a vuoto di un contraddittorio in cui sono per lo più l’atto del parlare e quello del ricordare – nella loro opinabilità e ambiguità, nel loro regime di immaterialità continuamente riplasmata e riplasmabile, inverificata, inverificabile – a essere invocati: come nelle prime lasse, per esempio: «:vorrei fare solo precisazioni | :non ricordo, successivamente, credo di ricordare | :quanto c’era da decidere || :non è vero! Escludo | :ho la certezza di quanto dico | :i miei ricordi sono precisi». O di seguito, nella terza sezione del testo: «:sicuramente. E vorrei aggiungere | :ho l’abitudine di conservare degli appunti | :e che cosa fece? | :rilasciai una breve dichiarazione || :no. Non l’ho letta | :ecco, ora ricordo, non si tratta di | :eppure è andata così | :escludo». La sezione centrale di Processo esula tuttavia da questo modus scribendi: il discorso si fa indiretto, e si concentra in poche, dense righe. Si fa, in qualche modo, storia: «Storia degli aghi» – aghi come individui, come figure/oggetti di cui si traccia la «crescita»/produzione («Molti aghi, se ne producono più di quanti riescono a perdersi»). Ma aghi, ancora, come potenziale strumento di morte («Il delitto con un ago») o di accidentale accesso a una non meglio precisata cronaca o racconto condiviso («Il fatto dell’ago»: al pari di talune narrazioni popolari di giovani donne uccise dall’ago che, conficcatosi sottopelle mentre ricamavano, penetrava nelle loro vene fino a risalire al cuore). Si accede così – previo “spezzamento”: l’accenno a qualcuno (bambini, presumibilmente) che «arrivano per giocare» e trovano una palla – alla sequenza nodale di Processo: con l’immagine dell’«appesa a testa in giù, solleticata sotto le punte dei piedi»: scrutata e “soppesata” («sezionano cosa contribuisce al suo peso, per pesarla»), in un tentativo tanto ottuso quanto cinico di misurazione («Non riescono a trattenerla per i piedi, dritta, sicuramente il peso, ma non c’è possibilità di misura se non confrontando gli oggetti, le cose. Hanno preso provvedimenti, creano scale, dimensioni nuove e vuote come bolle. || Non si regge da sola, è impossibile reggerla per i piedi, senza che il valore venga alterato calcolato male»).

Qualcosa di impossibile è del resto anche quel che si descrive nell’estratto da Viaggio al centro della terra, penultima sezione della scelta di Davoglio: dove la pretesa di oggettività scientifica («Al centro della | terra sta un nucleo, fatto di ferro e nichel. | Il nucleo è separato dal mantello da una discontinuità, detta di Gutenberg, | Il nucleo è fatto di ferro e nichel. Gira più velocemente del resto del pianeta, la | velocità aumenta ogni anno di circa due gradi») digrada “infernalmente” e dà adito a scenari da immaginario medievale («Al centro della terra stanno gli inferi, si brucia e | non si vola la maledizione»), non senza sussulti che riportano allo spunto iniziale («alcuni elementi, parti di roccia, arrivano in superficie e stupiscono. Ne viene studiata | la composizione, la densità. Perché mutano e cambiano forma come se la terra | stessa digerisse il suo centro»). Fino all’abbozzo di «animazione» che dovrebbe riprodurre virtualmente una eventuale missione scientifica («un manipolo di uomini decompressi, a due dimensioni, bianchi come un foglio di |carta») e al progetto di «bombardamento atomico | che fletta la terra come un terremoto». Ipotesi allucinatoriamente raffinate, e inadeguate, tanto da motivare in extremis il recupero di credenze antiche e vulgatissime (a proposito di quelle che, per eccellenza, erano viste come le bocche dell’inferno): «da vulcani spenti, forse, si potrebbe calare e accedere al centro della terra | l’odore terribile è stato avvertito per la prima volta nel mese di gennaio, l’anno scorso».

Cocktail Party, infine: testo di chiusura e, in qualche modo, di sintesi. Testo che (re)immette in un ordinario contemporaneo da cronaca (il più delle volte) nera: e che della cronaca mima appunto la sintassi e il lessico; il riferirsi a soggetti deprivati di identità; la prassi che ne inquadra in un rigo o due la biografia, o meglio, gli avvenimenti destinati a mettere in crisi una data biografia. «Tra i coniugi la rottura pare inevitabile: entrambi hanno stretto una nuova relazione | è condannato a morte ma si avvelena || le liti si susseguono | la resa è totale, incondizionata»: la carrellata si dipana segmento per segmento – titolo di cronaca dopo titolo di cronaca, si potrebbe immaginare: «benché riluttante e inorridito da se stesso, la uccide | rimasta ben presto vedova, dedica il suo denaro alle opere di beneficenza || muore giovanissimo, schiacciato dal peso di quella memoria | finisce per uccidere anche il suo creatore». Con l’irruzione di un umano iterato e svuotato di individualità, facile e necessario involucro a una ritualità collettiva ridotta all’osso, “economizzata”, per così dire: negli esiti della quale si percepisce una perdita (di senso, soprattutto) non inferiore alla perdita (quantificabile in termini materiali) prodotta dalle devastazioni di guerra: «passerà il resto della vita nella casa di famiglia | si getta sotto i proiettili dei suoi ex compagni || riesce a gestire il successo con moglie e figli | si avvia nobilmente al patibolo».

 

*

Prove d’ascolto è un progetto di Simona Menicocci e Fabio Teti

 

 

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renata morresi
renata morresi
Renata Morresi scrive poesia e saggistica, e traduce. In poesia ha pubblicato le raccolte Terzo paesaggio (Aragno, 2019), Bagnanti (Perrone 2013), La signora W. (Camera verde 2013), Cuore comune (peQuod 2010); altri testi sono apparsi su antologie e riviste, anche in traduzione inglese, francese e spagnola. Nel 2014 ha vinto il premio Marazza per la prima traduzione italiana di Rachel Blau DuPlessis (Dieci bozze, Vydia 2012) e nel 2015 il premio del Ministero dei Beni Culturali per la traduzione di poeti americani moderni e post-moderni. Cura la collana di poesia “Lacustrine” per Arcipelago Itaca Edizioni. E' ricercatrice di letteratura anglo-americana all'università di Padova.
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