Chi come cosa Queer?

 

Da dove viene il Queer e come nasce la Teoria Queer? Che cosa s’intende con i termini omonormatività e transnormatività? Cos’è l’omonazionalismo? Che rapporto intrattengono queste parole (o concetti  o etichette) con i movimenti LGBTQI+ contemporanei? Che ne è della sessualità queer? Cosa c’entra la teoria del gender? E perché di queer non ce n’è uno solo?

E’ uscito da poco per la casa editrice Mimesis un libro (assolutamente tascabile) intitolato Le teorie queerUn’introduzione che offre alcune risposte a queste domande e solleva molti altri interrogativi sulle tante anime del pensiero e del mondo queer. Ne pubblichiamo qui di seguito un estratto (§ 3.1, pp. 118-127). L’autore, Lorenzo Bernini, insegna Filosofia politica presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Verona ed è direttore del centro Politesse – Politiche e Teorie della Sessualità. Ha scritto, tra le altre cose, Apocalissi queer: Elementi di teoria antisociale, Pisa: ETS 2014.

 

di Lorenzo Bernini

A partire dall’Ottocento, nella lingua inglese, il termine ‘queer’ viene utilizzato come epiteto dispregiativo contro le minoranze sessuali; dagli anni novanta del Novecento, prima negli Stati Uniti e poi nel resto del mondo, se ne sono riappropriati provocatoriamente sia alcuni attivisti e attiviste, sia alcuni pensatori e pensatrici, per farne l’indicatore di un’identità politica. Ma già prima di questa risignificazione, esso aveva attraversato una storia di variazioni semantiche. L’inglese ‘queer’ deriva infatti dall’aggettivo germanico ‘quer’, che significa ‘trasversale’, ‘diagonale’, ‘obliquo’, e che a sua volta proviene dal verbo latino ‘torqueo’ (torcere, piegare, ma anche tormentare). ‘Queer’ può essere quindi considerato il contrario di ‘straight’, che vuol dire ‘dritto’, ‘retto’ e – dal momento che, in un regime di eterosessualità obbligatoria, l’eterosessualità è tradizionalmente associata alla rettitudine morale – anche ‘eterosessuale’. In italiano esso può essere tradotto con ‘storto’, ‘strano’, ‘strambo’, ‘bizzarro’, ‘bislacco’, ma equivale a insulti come ‘frocio’, ‘finocchio’, ‘culattone’, che in inglese possono però essere rivolti anche a una donna.

Indeterminatezza e versatilità tanto nella denotazione quanto nella connotazione permangono anche nel suo attuale uso teorico. Il fatto che ‘queer’ resti un significante fluttuante, non vuol dire però che esso sia un significante completamente vuoto, o aperto a qualsiasi significazione. Tanto nella teoria, quanto nei movimenti, esso fluttua infatti attorno a una serie di punti di ancoraggio politico che consistono non soltanto nel contrasto a sessismo, maschilismo, omofobia, transfobia, bifobia, ma anche nella critica del binarismo sessuale, dell’eteronormatività (l’«ideologia» dell’eterosessualità obbligatoria) e di quei dispositivi normativi che dagli anni duemila le teorie queer hanno iniziato ad analizzare con i concetti di ‘omonormatività’, ‘transnormatività’ e ‘omonazionalismo’. L’attivismo queer e il pensiero queer si differenziano dall’attivismo e dal pensiero lesbico, gay e transgender mainstream perché da un lato denunciano che anche i movimenti e le comunità delle minoranze sessuali producono al loro interno modelli normativi, meccanismi di esclusione, ordini gerarchici, e da un altro lato che l’integrazione delle minoranze sessuali nelle società neoliberali rischia di compiersi a spese di altre soggettività minoritarie.

La diffusione della sigla GLBT (gay, lesbiche, bisessuali, transgender, poi sostituita da LGBT) negli anni novanta, ad esempio, è avvenuta in concomitanza con l’emergere di campagne per la richiesta di diritti civili per le coppie omosessuali in cui, negli Stati Uniti e in Europa, hanno assunto particolare visibilità le coppie di gay, bianchi, benestanti, non soltanto normodotati e cisgender ma caratterizzati da un’espressione del genere maschile sufficientemente ‘virile’ – e in subordine le coppie di lesbiche bianche, benestanti, non soltanto normodotate e cisgender ma caratterizzate da un’espressione del genere femminile sufficientemente ‘femminile’.

Il concetto di omonormatività indica appunto, per cominciare, il processo attraverso cui le comunità e i movimenti LGBT, che avrebbero dovuto esprimere le istanze di tutte le minoranze sessuali indicate dall’acronimo, sono state per lo più rappresentate da un’immagine rispettabile e rassicurante dell’omosessualità, in primis maschile, che ha reso politicamente scorrette e quindi non più pubblicamente esprimibili altre espressioni dell’omosessualità, come l’effeminatezza gay e la mascolinità lesbica, o come la sperimentazione di stili di vita differenti dalla costruzione di un’unione affettiva stabile tra due partner, o ancora come la disabilità e la povertà delle persone LGBT, l’appartenenza di alcune di loro a classi subalterne, comunità razzializzate, movimenti antagonisti dell’ordine neoliberista. Il riconoscimento sociale dei gay e delle lesbiche è stato quindi ottenuto al prezzo di una parziale invisibilizzazione delle lesbiche, della rinuncia, da parte dei movimenti gay e lesbici, a rappresentare una parte dei gay e delle lesbiche, e soprattutto al prezzo di una presa di distanza dei movimenti gay e lesbici non soltanto dalla sinistra radicale, ma anche dai movimenti transgender e intersex – che paradossalmente è avvenuta aggiungendo una inefficace T (e più di recente, in alcuni casi, la I e persino la Q di queer) in coda alle altre lettere della sigla. Neppure i movimenti transgender e intersex/DSD sono del resto alieni da forme interne di normatività discriminatoria: in entrambi i casi, sono soprattutto persone bianche, normodotate, benestanti e colte a ottenere visibilità e a occupare ruoli di leadership. Nei movimenti transgender, inoltre, c’è chi parteggia per un’immagine rispettabile del/la buon/a cittadino/a produttivo/a transgender contro l’associazione tra trasgenderismo, immigrazione e lavoro sessuale, e chi rivendica lo statuto di ‘vero uomo’ o ‘vera donna’ perché esteticamente più somigliante agli standard cisgender ed eterosessuali del maschile e del femminile e/o perché si è sottoposto a intervento ai genitali. Anche nei movimenti intersex/DSD, infine, c’è chi preferisce presentarsi pubblicamente come soggetto di sesso maschile o femminile, cisgender ed eterosessuale, portatore di una delle diverse ‘sindromi’ che la medicina classifica come DSD (Disorders of Sexual Development), piuttosto che allearsi in quanto intersex con i movimenti LGBTQI. Tanto l’omonormatività, quanto la transnormatività, quanto ancora questi atteggiamenti espressi non solo da singoli, ma anche da gruppi intersex/DSD confliggono evidentemente con la critica del binarismo sessuale e dell’eterosessualità obbligatoria, e danno anzi sostegno, come afferma Lisa Duggan, alle «istituzioni eteronormative dominanti» (come il matrimonio). Slegando le rivendicazioni delle minoranze sessuale dalla critica delle ingiustizie causate dai processi di razzializzazione e dalle differenze di classe, essi alimentano inoltre un’interpretazione depoliticizzata e privatistica della sessualità, «ancorata alla domesticità e al consumo».

A questo occorre aggiungere che, dall’11 settembre 2001, i diritti delle minoranze sessuali (e in particolare i diritti dei gay bianchi, benestanti, cisgender di cui sopra) vengono sempre più spesso utilizzati da retoriche nazionaliste che contrappongono la cultura neoliberale nordamericana ed europea al resto del mondo, al fine di giustificare l’introduzione di politiche anti-islamiche e anti-immigrazione. Anche questo fenomeno, che Jasbir Puar ha chiamato ‘omonazionalismo’, è dunque rivelativo di come dell’integrazione delle minoranze sessuali nelle società eterosessuali e neoliberali facciano le spese non soltanto altre minoranze (gli islamici, i migranti, i soggetti meno abbienti, razzializzati, disabili e/o anticapitalisti), ma le minoranze sessuali stesse (le persone LGBTQI islamiche, migranti, meno abbienti, razzializzate, disabili e/o anticapitaliste).

I concetti di omonormatività, transnormatività e omonazionalismo sono dunque strumenti messi a punto dalle teorie queer contemporanee per esercitare una critica politica del desiderio di assimilazione delle minoranze sessuali. La storia di questa critica inizia però ben prima dell’elaborazione di questi concetti siano coniati, e anche prima della risignificazione del termine ‘queer’ in senso teorico-politico. Il motivo per cui, in questo libro, includerò impropriamente il costruttivismo di Foucault e il freudomarxismo di Mieli in una trattazione delle teorie queer, per quanto siano antecedenti all’introduzione dell’espressione ‘teorie queer’, è che, seppur con grandi differenze, i due autori non si limitano a chiedere l’integrazione delle minoranze sessuali nella società eterosessuale e neoliberale, ma contestano il funzionamento della società eterosessuale e neoliberale e mettono in discussione i criteri che separano le minoranze sessuali dalla maggioranza eterosessuale. Non soltanto il costruttivismo, ma anche il freudomarxismo problematizza il funzionamento della sessualità contemporanea, denaturalizza le categorie del sistema sesso-genere-orientamento sessuale e denuncia come, attraverso di esse, desideri e comportamenti sessuali siano controllati, disciplinati, subordinati a esigenze produttive e riproduttive. Entrambi possono essere quindi considerati a ragione ‘teorie queer’, per quanto siano precedenti all’avvento delle teorie queer propriamente intese. Quella che tra poco ricostruirò è però soltanto una delle genealogie possibili, accanto alla quale ne esistono altre…

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3 Commenti

  1. Ok. Almeno uno spauracchio ideologico è evitato. Compagni, rilassatevi. Si puo’ parlare di “teoria”, anzi di “teorie” queer, senza essere tacciati di fallologocrazia. Per il resto, grazie a Jamila e all’autore per questo testo chiaro, che invoglia a leggere il libro.

  2. Ecco, ma il dubbio che le domande sollevate, e prima ancora l’idea di Foucault sui desideri e comportamenti sessuali controllati e disciplinati a fini produttivi e riprodutti dai cattivoni capitalisti e neoliberisti, siano un cumulo di sciocchezze vi è mai venuta? Almeno una volta, dico…

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Jamila M.H. Mascat vive a Parigi e insegna presso il dipartimento di Cultural Studies dell'Università di Utrecht, in Olanda. Si occupa di filosofia politica e teoretica, marxismo contemporaneo, critica postcoloniale e teorie femministe. Nel 2011 ha pubblicato Hegel a Jena. La critica dell'astrazione. Ha co-curato Femministe a parole (2012); G.W.F. Hegel, Il bisogno di filosofia. 1801-1804 (2014); M. Tronti, Il demone della politica (2017); Hegel & Sons. Filosofie del riconoscimento (2019); The Object of Comedy. Philosophies and Performances (2020); A. Kuliscioff, The Monopoly of Man (2021).
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