Terza promessa

di Raffaele Mozzillo

Il Rosario sarà un’arma potentissima contro l’inferno,
eliminerà i vizi, libererà dal peccato, distruggerà le eresie

La polvere pizzica gli occhi quando scendono nel fosso a farsi di Marlboro di contrabbando e gassosa, però non li ferma, sono comunque lì a riempirsi i polmoni di merda e a gonfiarsi lo stomaco. Stanno imparando a ruttare, Mariarosaria è la meglio. Glieli fa in un orecchio all’improvviso, i rutti, e le lacrime gli vengono agli occhi per l’emozione. Quelli di Lello sfiatano un poco, ma nel complesso l’esecuzione è apprezzabile, almeno a guardare Mariarosaria e a come scoppia in un applauso a ogni sua esecuzione. Hanno provato a cambiare marca, ma non c’è stato niente da fare: gassosa Arnone è un’altra cosa.

Si mette a piovere di nuovo, quel giorno è un giorno che non si capisce, e la polvere non s’alza più. Lello e Mariarosaria si riparano sotto una specie di pergolato sospeso sul fosso. Col vento che c’è potrebbe cadere e schiacciarli l’uno sull’altro – noi due, sarebbe bello. Mariarosaria gli si stringe contro, e ora sarebbe bello e anche perfetto se si alzasse una raffica forte che staccasse quella lamiera dal pezzo di legno a cui è rimasta aggrappata e venisse a cadergli proprio sopra, un tonfo e la sua pancia appiccicata a quella di lei, i loro respiri fermi, e sentirebbero ognuno dell’altro la spigolosità delle costole. Così ci pensa Mariarosaria a stringersi ancora più forte, forse ha freddo, e allora gli gira le braccia intorno ai fianchi e appoggia la testa sulla sua spalla. È un’anticchia più alta di lui e non ha difficoltà a ficcare il mento dentro la curvatura del collo e fargli sentire l’umido dei capelli e il tremolio della sua spina dorsale. Forse, si dice Lello, così è meglio, allora spera che rimanga a ’sto modo e che il pergolato mantiene, è stato lì tutti questi anni, vuoi vedere che proprio oggi.

Nel fosso, su quelli che si potrebbero definire gli argini bassi di questa fogna, corre una specie di sentiero dove si può andare in fila per uno e spostarsi senza per forza risalire col rischio di farsi beccare. Da qui si vede tutto il percorso di terra e fango che si snoda a zigzag e fa il giro di quel tratto recintato con la rete e curva dentro il paese e poi prosegue tutto dritto quasi fino alla parrocchia. Dalla curva, proprio da quella, spunta uno che subito dopo casca in una pozza melmosa. Zuppo d’acqua, la camicia stracciata da un lato, la faccia rossa e spiritata. Dietro di lui due tipi massicci, il fiato grosso, arrivano anche loro di corsa e lo raggiungono puntandogli subito contro le loro pistole. Mariarosaria pare essersi addormentata, il suo respiro è impercettibile. Il tipo è un fascio di paura urlante, è un tronco d’uomo inchiodato per terra, una tartaruga ribaltata sul guscio: si sbatte con le braccia e le gambe, come a volersi riparare dai proiettili che esplodono uno dietro l’altro, pam pam pam pam pam pam. L’uomo ora mantiene la posizione, ma privo di vita: le gambe molli al petto, le braccia davanti alla faccia, il corpo disteso su un fianco. Uno dei due in piedi si avvicina di più, scosta le braccia e esplode un ultimo colpo a bruciapelo in mezzo alla faccia. Una chiazza di schizzi di sangue si disegna immediatamente sul volto del tipo come una stella, lo storpia rendendolo irriconoscibile. La violenza ferisce, deforma, ma quell’atto preciso, il colpo a bruciapelo proprio in mezzo alla faccia, è qualcosa che va oltre l’annientamento del corpo, lo ha trasfigurato, arrivando a cancellarlo dall’esistenza.

Lello si accorge solo ora di avere le mani premute alle orecchie di Mariarosaria, e infatti lei dorme ancora. Il suo respiro lo spinge sul fianco, regolare. La tiene tra le mani come un pallone, il pallone di un rigore parato. Non sa come, ma è fiero di quello che fa, e gonfio di quel compiacimento e stordito si avvicina a lei e incolla piano la bocca sulla sua semiaperta. La saliva ha il sapore delle fragole fresche. Quando la lingua bussa trova già tutto aperto. La morte diventa un elemento del paesaggio, una parte di questo posto che lui riconosce essere il mondo: è lì, in bella mostra, rivolta verso di loro e, ancora partecipe della vita, sembra li guardi, proprio mentre per la prima volta lui la bacia sul serio, Mariarosaria. Pensa che ora non potrà fargli alcun male, si sente protetto da una pellicola trasparente e impermeabile, la parola ‘acqua’ non bagna, e lui la guarda in faccia, la morte, e ai suoi occhi è ancora una parola. La guarda attraverso una montagna di capelli di zucchero filato, e intanto respira il respiro di fragole fresche. Lui non ha visto niente, non ricorda niente e non vuole sapere niente. Tutto quello che ha è questo sapore dolce dentro la bocca.

Il freddo rapidamente li avvolge, si infila nel loro abbraccio e poi si allarga, con invadenza, come un virus. Lello apre appena gli occhi per vedere una goccia d’acqua schiantarsi sulla guancia di Mariarosaria, di fianco sul suo fianco. Si allarma subito. Gli si corruga la fronte provando a tenere gli occhi più aperti che può, poi alza lo sguardo verso la curva del sentiero dietro di loro. Un ammasso di sangue e pioggia, di carne morta e fredda, di trasverso alla stradina, pretende almeno uno sguardo da chi si trova a passare di lì. Ma non passa nessuno. Un gemito, un suono di vocali mangiucchiate e ingoiate lo richiama all’abbraccio e richiede attenzione. Mariarosaria si è svegliata. Le prende la testa e la aiuta a tirarsi su, mettendola di spalle al corpo morto. Le gira le braccia intorno alla vita, la sua pancia dietro la schiena, la tiene su come uno scheletro di legno tiene su uno spaventapasseri. Lei si divincola con una certa violenza, gli dà una botta col culo, ma è come intontita, il torpore ancora la morde, e infatti si rimette seduta. Poi tira su la testa, per quello che riesce. Fa per alzarsi, lui scatta e di nuovo si offre in aiuto, la prende e fa in modo che la sua fronte non guardi dove lui non vuole che guardi. Lei si stizza ancora di più allora, dice toglimi le mani di dosso, in quel dormiveglia spara un vaffanculo e prova a urlarlo ma le parole le vengono fuori ammappate. A Lello gli viene un sorriso ma lo abortisce quasi di colpo. In verità è terrorizzato, il sorriso voleva essere solo una copertura. Lei ha sulla guancia i segni del loro contatto, delle linee rossastre che ricalcano i lineamenti della sua mascella, forse, o la cartilagine di un orecchio premuto sulla pelle per tutto il tempo che hanno dormito, che ha dormito. Strizza tra pollice e indice il suo lobo destro, e lo trova caldissimo al tatto. Sarà rosso, sicuro. Appena prova a girarsi Lello le va addosso, le braccia larghe, poi le stringe, si appiattisce al suo corpo, le ficca il mento sotto l’orecchio sinistro. Gli scappa un bacio, viene così, naturale. Per un attimo lei prova a staccarsi, ma la resistenza è poca, gli prende le mani e se le stringe alla pancia, come a volersi lasciare scaldare un poco. Lui tiene la posizione, aspettando qualcos’altro da fare. Sente che la morte ancora li guarda, li segue in quello che potrebbe sembrare una lotta tra due innamorati. Allora decide di rimanere così, il fiato sul collo di lei, la condensa che le sfiora i capelli. Ha come l’impressione di essere lì solo per questo. Gli parte ancora una volta un bacio, sul lobo dell’orecchio destro che gli resta attaccato alle labbra. In quel momento, poco più su, una manciata di terriccio si stacca dal ciglio della strada che sovrasta il fosso e ricade sopra di loro. Poi una veste lunga e nera si materializza. L’uomo che la indossa vede loro prima, poi il corpo. Ha due mani, Don Carmine, che se ti prende mentre ti dà uno schiaffo ti fa rosso tutto, dal collo alle guance, e dalle guance alla cute. Tutti, a scuola, più di una volta le hanno provate e di sicuro nessuno le ha dimenticate. Basta proprio poco – una parola scambiata con il compagno di banco, un singhiozzo scappato durante una preghiera, un respiro pesante guardando fuori dalla finestra – e Don Carmine elargisce senza sforzo alcuno cinquine carnose che tolgono il fiato da quanto bruciano. Ma tutti a patire e a non rispondere, tutti al proprio posto senza reagire, perché una seconda cinquina è subito pronta. Lello pensa a questa cosa e si distrae e Mariarosaria gli rifila una gomitata a tradimento allo stomaco, lo stacca da lei, poi comincia a correre, la vede salire affannata − saltella come un gatto appena investito per strada − il monticello di terra, e non si gira mai indietro perché non vuole farsi scoprire, non vuole che Lello smascheri il suo sguardo, l’apprensione che ci si riflette dentro, né che conosca l’angoscia che prova. Ma è proprio quello che lui vuole, che non si volti, non ha visto nulla, e non farle sapere ciò che è accaduto a due passi da loro è la prova d’amore che supera con la brillantezza dell’innocenza. Don Carmine, invece, che non gli riconosce alcun merito, lo guarda male, alza una mano e la scuote, minacciosa, Lello ne percepisce lo spostamento d’aria che provoca, mentre Mariarosaria si sarà già ficcata sul sedile davanti di una Fiat Ritmo blu notte, ché si è sentito lo sportello sbattere forte. Don Carmine guarda lontano, dietro la figura del ragazzino, poi ancora verso di lui come se avesse Lello la colpa di quell’inferno nel fosso. Alla fine sparisce dietro al monticello di terra e lo lascia lì, in compagnia di un morto ammazzato.

È come se il fosso a un certo punto lo avesse sputato fuori. Ne è uscito di corsa, terrorizzato. In compagnia di Mariarosaria si è fatto bello, sentiva di essere forte, ma dal confronto con la morte, alla fine, è uscito perdente. Ha provato ad avvicinarsi al corpo del morto ammazzato, è riuscito a fare solo pochi passi, ma abbastanza per scoprire che lo fissava, con due occhi grandi rigati di sangue e il resto irriconoscibile, un volto tumefatto, l’identità sparita, rientrata attraverso quel buco largo e profondo proprio in mezzo alla faccia. Era poco lontano da lui, e tutto questo non poteva non vederlo: lo sguardo – quello di Lello − si fissava sui particolari, e ha cominciato a vedere il sangue raggrumato intorno al foro di proiettile, e da lì a sentire puzza di carne bruciata, attraversata dal piombo, l’esplosione del cranio era visibile sul terriccio, come un’aureola, una corona piatta, fatta di terra e di sangue, come la calce. E allora è successo che l’ha vista farsi vicino, la morte, ne ha percepito la presenza, il peso, il fetore venirgli incontro, l’ha sentita chiamare lui e farsi presente, cioè presentarsi con nome e cognome, a dire eccomi qui. È lì, in quel momento preciso, che Lello è filato via come sputato dal fosso, e mentre andava provava a convincersi che era stata tutta una finta, una cosa che non doveva essergli successa veramente, che era tutta una scena di fantasia, non poteva aver visto quella cosa e essere ancora se stesso, normale, si diceva, e pensava già alla paura di tornare in quel posto e ogni volta risentire il fetore, o camminare per il paese e vederla dietro ogni angolo di strada, e dormire la notte e sentirla chiamare, presentarsi a lui, che non la vuole conoscere. Lui la morte non l’ha mai vista. Anzi, lui non ha visto proprio niente, ed è l’unica cosa che sa. Ha fatto la strada dritto a casa, ma questa volta andava pianissimo, non si sentiva le gambe, inciampando ogni tanto ha superato i due incroci che dividono casa dal fosso, inciampava perché non guardava dove metteva i piedi ma scrutava le strade, la gente che incontrava, ogni macchina che gli passava a fianco, e ogni volta, a ogni incontro, pensava ecco, questi sono loro che mi hanno visto che ho visto, e avanti così per tutto il tragitto. Un tragitto lento che voleva portare a termine il prima possibile, ma era come se avesse dei sassi dentro le scarpe. Si è dovuto spogliare, un pezzo alla volta, gli era forse salita la febbre tutto d’un colpo, uno schianto di caldo lo ha invaso, il sangue in ebollizione evaporava attraverso i pori, e allora si sentiva venire meno un passo dopo l’altro, sempre peggio, sempre più debole, si svuotava perché la paura gli stava succhiando la vita, lo divorava dentro. Ma è bastato girare l’angolo, il terzo cancello a destra, e ha pensato che era fatta. Nessuno gli ha domandato niente, poi. Nessuno lo ha visto venire fuori da lì, forse. Ancora una volta, dentro casa, dentro la tana, ha avuto l’impressione di essere salvo, però stavolta non ne era così sicuro.

Estratto del romanzo di Raffaele Mozzillo, Tutte le promesse una storia apocrifa, Effequ, 2017, 176.pag. hj.

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Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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