Articolo precedente
Articolo successivo

Letteratura oltre i confini. Clouds over the Equator: A Forgotten History e Wings di Shirin Ramzanali Fazel

 

di Simone Brioni

Dopo 23 anni dall’uscita del suo primo romanzo, Lontano da Mogadiscio (ne parlo qui: http://www.laurana.it/pdf/postfazione%20LdM_Brioni.pdf) – una pietra miliare per quanti si sono occupati della scrittura della migrazione e dell’eredità coloniale in Italia – escono due libri di Shirin Ramzanali Fazel in lingua inglese: Clouds over the Equator, la traduzione del secondo romanzo di Shirin, Nuvole sull’equatore (2010) e Wings, una raccolta di poesie. Questa intervista vuole presentare questi due lavori al pubblico italiano e parlare della sfida che la traduzione e l’autotraduzione pongono agli scrittori transnazionali ‘italiani’.

SB: Di che cosa parla Clouds over the Equator?

SRF. Clouds over the Equator è un romanzo che narra la storia di tre donne. Donne che appartengono alla stessa famiglia. Amina la madre, Giulia la figlia e Dada che è la governante ma di fatto diventa la nonna. Ambientato a Mogadiscio in un periodo storico che va dai primi anni cinquanta agli anni settanta con la salita al potere del generale Siad Barre. Un’epoca storica dove avvengono grandi cambiamenti sociali. Simbolicamente queste tre protagoniste rappresentano il passato, il presente ed il futuro. Il romanzo ci porta ad immergerci in una Mogadiscio che non esiste più e che mai ritornerà ad essere quella descritta. Amina, nata in boscaglia da una famiglia nomade, viene portata in città e la sua vita cambia. Da ragazzina ingenua e analfabeta diventa una donna attivista nella Lega dei Giovani Somali. Giulia, la figlia di Amina vive l’esperienza del collegio, o meglio delle Missioni Apostoliche, i brefotrofi dove venivano internati la maggioranza dei figli nati da unioni di italiani e donne somale. I meticci venivano chiamati ciyaal-missioni – ragazzi della missione, uno stigma terribile che li identificava nella società somala.

L’immagine di copertina rappresenta simbolicamente Giulia. È una fotografia della fine degli anni cinquanta, si vedono le braccia della madre che cercano di abbracciare una bambina, ma sembra che quest’ultima non voglia essere abbracciata.

Queste tre donne, sono così diverse tra loro: Dada rappresenta la tradizione, il mondo rurale che apparentemente non cambia; la sicurezza, le radici – la continuità, ma anche il doloroso ricordo di ciò che ha subìto in prima persona durante la dominazione coloniale. Amina, la fiera leonessa che crede fortemente nell’emancipazione delle donne in una Somalia libera è pronta a proteggere con tutte le sue forze la figlia avuta da un bianco. Giulia, la figlia bianca, l’immagine speculare della madre; il trait d’union tra le tre donne, ma che – attraverso lei – il lettore scoprirà una dimensione nuova sugli effetti del colonialismo italiano.

E’ una storia universale di amore, di lotta per il raggiungimento di un riscatto sociale, di sofferenza interiore, ma anche di una grande voglia di vivere.

SB. Perché hai deciso di tradurre questo romanzo?

SRF. Mi sono resa conto che avevo bisogno di dare ai miei scritti un più ampio respiro linguistico. Dopo aver tradotto, riscritto e ampliato in inglese Lontano da Mogadiscio – Far from Mogadishu ho proseguito con il mio secondo romanzo Nuvole sull’Equatore – Clouds over the Equator. Non essendo una traduttrice professionale, ho incontrato notevoli ostacoli, che sono stati però compensati dal vantaggio di vivere nell’ambiente anglosassone e dalla conoscenza ‘personale’ dei personaggi del romanzo. E’ stato come scrivere due nuovi libri. All’inizio ho dovuto pensare in un idioma differente, e mi sono resa conto che il romanzo ha preso un altro ritmo, una dimensione diversa. Poi mi sono accorta che proseguire a scrivere in quella lingua era diventato naturale. In questa versione ho voluto conservare anche alcune parole in italiano oltre a quelle in somalo perché esse mi rappresentano; essendo io stessa il frutto di un multiculturalismo e multilinguismo, che deriva dal periodo a cui fa riferimento il romanzo.

SB.Le autotraduzioni sono solitamente poco fedeli al testo originale, e si presentano molto più spesso come vere e proprie riscritture rispetto a quel testo. Ci sono delle parti che hai modificato rispetto alla prima edizione di Nuvole?

SRF. Nella versione inglese ho ritenuto utile approfondire la figura di Guido Giardina, il padre di Giulia. Ho pensato che per i lettori non italiani fosse difficile immaginare il mondo dal quale egli proveniva. Guido è una persona che è cresciuta in un periodo storico dove regna il fascismo e come molti ragazzi del suo tempo ne viene plagiato. E’ attirato dai discorsi e dalle promesse del regime di esplorare e conquistare territori selvaggi. Si sente in dovere di partire per l’onore della patria, e per il gusto dell’avventura. In alcune parti ho aggiunto il testo delle canzoni italiane che si ascoltavano allora alla radio in modo che il lettore possa, andandole a cercarle su YouTube, farsi un’idea più precisa dell’atmosfera descritta nel libro.

La tua opera è caratterizzata da una forte vena poetica. Per esempio, Lontano da Mogadiscio si apre e si chiude con due poesie, “Arcobaleno” e “Il sorgere di una nuova alba”. Wings è però la tua prima raccolta di poesie. Perché hai scelto questa forma di espressione e da quali esperienze è nato questo nuovo libro?

SRF. Da qualche anno collaboro con l’Università di Warwick, conduco laboratori di scrittura con persone che provengono da varie parti del mondo. Birmingham è una città dinamica che offre molto dal punto di vista letterario. Faccio parte di un gruppo di poeti Writers Without Borders e siamo spesso invitati a vari eventi culturali dove abbiamo l’opportunità di esibirci in pubblico. Attraverso questi eventi ho la possibilità di comunicare direttamente con le persone. Ho voluto esperimentare nuove forme di scrittura. I miei testi nascono in inglese. La poesia è fatta di sentimenti è molto intensa. In pochi minuti ti apri agli altri e attraverso la poesia dai voce a situazioni di persone che non hanno la possibilità di esprimersi. Quando guardi negli occhi chi ti ascolta hai un feedback immediato. E’ un feeling diverso: diretto e sincero.

Viviamo in un mondo dove ci sono guerre, attentati terroristici, una crisi economica che intacca le nostre certezze per il futuro, la crescita inarrestabile di populismi e una disinformazione crescente che crea violenza e incanala l’odio verso l’altro. Ogni giorno la nostra serenità mentale viene erosa da questi fattori e senza accorgercene costruiamo muri e barriere mentali sempre più alte. Wings, la mia raccolta di poesie, vuole essere un piccolo contributo alla riconquista di quegli spazi di intima riflessione.

Wings è una raccolta di poesie che ho articolato in tre sezioni: Diaspora, Caught in the Middle, e Migrants. La poesia a cui sono più legata è forse ‘Hero’ (la si trova qui http://www.el-ghibli.org/eroe nella versione originale e nella traduzione di Andrea Sirotti) perché racconta di persone che purtroppo non vengono rappresentate dai media, vale a dire le vittime senza nome che vengono enumerate in television

SB. Vivi a Birmingham dal 2010. Pensi che scriverai ancora in italiano?

SRF. Mia figlia è venuta a Birmingham per motivi di studio e abbiamo deciso di fermarci in questa città, ma ho sempre voluto mantenere la mia casa in Italia, dove mi reco spesso. Birmingham è una città multietnica dove mi sento veramente a mio ago. Nessuno guarda come sei vestita, se porti un nikab, una minigonna, o un turbante. Chiese e moschee, pubs e templi si trovano negli stessi quartieri. Ci si immerge con facilità in ambienti culturali molto diversi.

Vorrei usare una metafora per spiegare il mio rapporto con le tre lingue che uso quotidianamente. L’inglese è per me come un abito che indosso quando esco fuori casa per comunicare con il mondo in una maniera creativa. L’italiano è quella sensazione del ritorno a casa, della ritrovata intimità domestica dove mi metto in pantofole, mi rilasso e sto bene. Il somalo è la mia coperta di Linus, me la porto sempre appresso. Mi scalda il cuore. Quindi scriverò senz’altro ancora in italiano: è una lingua che mi appartiene e nella quale mi sento a mio agio.

SB. Immagino che i nostri lettori siano curiosi di leggere Clouds over the Equator. Potresti presentare un breve brano tratto dal romanzo e spiegare perché lo hai scelto?

SRF. Ho scelto un pezzo tratto dal quinto capitolo (pp. 55-56). Questo pezzo descrive la condizione terribile del collegio. Giulia viene portata in un ambiente dove deve eseguire degli ordini ed è terrorizzata. Viene spogliata dei suoi vestiti e come un carcerato deve indossare un’uniforme. Il taglio dei capelli è il colpo di grazia, così il processo di spersonalizzazione viene completato. Giulia diventa un numero, non possiede più nulla. Non ha giocattoli, un libro di fiabe, uno spazio privato. Non ha la possibilità di mangiare quando ha fame. Per anni vive quella costante sensazione di fame e di guardarsi alle spalle anche dai propri compagni, perché è circondata da un un’atmosfera di violenza e di omertà. I bambini e le bambine dei collegi non comunicavano con il mondo esterno, le madri non potevano far loro visita. Non avevano nessuno su cui contare, ma basarsi esclusivamente sulle loro forze per sopravvivere a quell’ambiente ostile. Mi sono sempre domandata: “Quanti indelebili ricordi di violenza e soprusi sono rimasti negli animi di questi italiani dimenticati?”

CLOUDS OVER THE EQUATOR (estratto)

It was her first Sunday in boarding school. Some girls were gossiping and giving her strange looks, bursting into knowing laughter. Giulia tried to ignore them. Sister Agnese, with the baritone voice and bulky figure, was standing under a tree: ‘Girls, get into line.’ Lazily, they all moved towards the nun, mocking smiles on their faces.

‘Giulia,’ said Sister Agnese, ‘you have the honour to be the first one today.’ A nasty laugh made her fat body tremble. She pointed at the wooden stool in front of her. Giulia sat, her heart pounding, her legs like lifeless logs.

The bulky figure was so close to her, she caught sight of two flat nipples pressed under the white tunic: ‘Oh my God, the nuns have tits!’ All this time she had been puzzled about which gender they belonged to.

Wickedness sparkled in the eyes of the nun as she gazed at the victim. Sausage fingers pulled scissors out of her apron. Zak, zak -two long plaits fell to the ground like young soldiers killed in a battle by an enemy they had never met.

Giulia’s past is gone. The nun continued: Snip, snip, snip, snip. Short locks of soft auburn hair kept falling, like leaves shaken from a tree by an angry wind. Giulia hung her head. Humiliated, she felt a rain of hot sweat run down her back.

‘Hair is useless! It breeds lice.’

‘Get up, I am done with you.’

‘Who is next?’

She walked off, her bare feet brushing the rough ground. Nobody giggled; it was a funeral procession.

Sister Agnese had a particular enthusiasm for digging her nails into the girls’ scalps to check for head lice. If there was only a suspicion that that there could be a tiny egg hanging on a hair follicle, she would pull out her lethal weapon: a bottle of kerosene! She would rub the oily liquid on the unlucky person’s scalp. To prevent the spread of head lice, all the others would have the same treatment. The smell killed the parasites stone dead.

On Sundays they had to shower. A piece of blue soap was distributed to everyone. When it became too small to be used, they had to take it to the laundry or they did not get a new one. All the remaining pieces were boiled to be used in washing the linen. Giulia was looking at her legs; like a dead fish her skin was covered in scales. The flakes of skin were falling off because of the salty water and the soda in the soap.

The insects at the collegio were always hungry for the girls. Mosquitoes and wasps preyed on bony flesh. Giulia scratched her limbs obsessively until they bled. The children were covered in scabs: the marks showing where they had been caned on their legs, back, and buttocks.

The nuns used serbi, flexible long branch from a tree. It made a sound in the air and stripped the young flesh. When it was time for Giulia to be punished, she jumped like a wild filly. It was useless, for the whip did not spare her.

A very important lesson she learned was not to spy. In any circumstances. There was a saying: ‘A spy is not a child of Mary.’ The girls would chant this in chorus at the traitor. She was treated worse than a leper.

Giulia, without realizing, became part of that institution. She had been assigned a number which was stamped on all the things she was using: underwear, blanket, uniform, towel, aluminium cup and bowl. With her hair cut, she lost her individuality. She was one of them, a dull, grey number fifty-two.

Simone Brioni è assistant professor presso il dipartimento di Cultural Studies and Comparative Literature dell’Università Statale di New York – Stony Brook e autore del saggio The Somali Within: Language, Race and Belonging in ‘Minor’ Italian Literature (Cambridge: Legenda 2015).

La foto che accompagna l’intervista è stata scattata da Asha Siad, che ringraziamo.

Print Friendly, PDF & Email

articoli correlati

Il posto di Felìcita

di Melania Ceccarelli Camminava spedita, i muscoli delle gambe brune e forti in rilievo sotto i corti pantaloncini elasticizzati. Alta,...

E fu sera e fu mattina

di Maria Luisa Venuta Questa notte ho sognato. Sono ad un incrocio qui vicino a casa a parlare insieme con...

Il posto dei tigli

   di Claudia Bruno Le mattine di giugno hanno un profumo tutto speciale, che sa di pistilli e cielo, foglie...

Come un paesaggio. Pensieri e pratiche tra lavoro e non lavoro

di Sandra Burchi e Teresa Di Martino Il testo riportato qui di si seguito è l'introduzione al libro collettaneo Come...

La nuda vita

di Agostino Zanotti Avviare una campagna per l’apertura di un canale umanitario verso l’Europa implicitamente è mettere una pezza alla...

Raccontare l’Italia postcoloniale: note sparse su identità e cultura nei documentari Aulò e La quarta via

di Daniele Comberiati Nel documentario La quarta via. Mogadiscio Italia di Simone Brioni, Ermanno Guida e Graziano Chiscuzzu, contenuto nel...
Maria Luisa Venuta
Maria Luisa Venuta
Maria Luisa Venuta Sono dottore di ricerca in Politica Economica (cosiddetto SECS-P02) Dal 1997 svolgo in modo continuativo e sistematico attività di ricerca applicata, formazione e consulenza per enti pubblici e privati sui temi della sostenibilità sociale, ambientale e economica e come coordinatrice di progetti culturali. Collaboro con Fondazione Museo dell'Industria e del Lavoro di Brescia e Fondazione Archivio Luigi Micheletti. Sono autrice di paper, articoli e pubblicazioni sui temi della sostenibilità integrata in lingua italiana e inglese.
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: