Nelle spire del racconto, o al di fuori di loro – su Racconto di Nadia Agustoni

di Daniele Barbieri

Avendo lavorato e ragionato, nel corso della mia vita, sostanzialmente da semiologo, di racconto ho sentito parlare, e parlato a mia volta, parecchio. Non ho condiviso la tesi secondo cui qualsiasi testualità possiede, nascosta o palese, una struttura narrativa. Ritengo tuttavia che, anche se ogni tanto se ne può fare a meno, la struttura narrativa sia comunque abbondantemente presente intorno a noi. Di fatto, ogni volta che ci troviamo di fronte a qualcosa che possa essere descritto come un’azione (cioè un evento intenzionato da qualcuno) siamo anche di fronte a un racconto. Molte poesie sono quindi narrative, anche quando a prima vista non lo sembrerebbero, ma non tutte lo sono – o magari non lo sono nel loro insieme, pur contenendo elementi che, singolarmente, potrebbero essere considerati narrativi.

Il racconto è uno dei (principali) modi in cui diamo senso al mondo. Quando riteniamo di sapere perché e come qualcuno ha fatto qualcosa, e se alla fine ci è riuscito oppure no, il mondo ci appare più chiaro e affrontabile. Leggete Paul Ricoeur (Tempo e racconto) o Algirdas J. Greimas (Del senso e Del senso 2) e avrete un’idea dell’importanza che la forma-racconto ha per il nostro rapporto con il mondo.

È per questo che già Aristotele poteva parlare di catarsi, come esito per lo spettatore di una tragedia. Non importa che la storia abbia un lieto fine: è sufficiente che la fine ci sia, e che la vicenda (il racconto) si presenti come qualcosa che trasmette un senso complessivo, quello di una parabola (sia in senso matematico che biblico) che ci mostra il mondo (o almeno quel suo frammento) come se esso possedesse un disegno, e di quel disegno abbiamo colto le linee.
La differenza tra il mondo reale e il mondo raccontato (magari anche solo raccontato da noi a noi stessi, nel semplice dare senso a quello che vediamo) è dunque una differenza tra qualcosa di immediato ma non (ancora) compreso, e un mondo in qualche modo compreso ma che ha perso l’immediatezza.
Intitolare Racconto una raccolta di testi poetici, come fa Nadia Agustoni, prepara il suo lettore ad aspettarsi che quello che troverà sarà un qualche tipo di percorso, dove, qualsiasi cosa accada, alla fine ci sarà una risoluzione, se pur non necessariamente positiva (le tragedie infatti, Aristotele insegna, non sono meno confortanti delle commedie). E invece, sin dalle prime pagine e poi andando avanti sempre di più, la sensazione che si ricava è quella di una sorta di radiosa immobilità. Ci sono certo, se vogliamo, tanti microeventi, e quindi altrettanti microracconti, ma nemmeno all’interno di un singolo componimento essi si combinano per costruire quello che potremmo legittimamente definire, nell’insieme, un racconto. La logica con cui si trovano accostati appare diversa, e non facile da cogliere.
Questa immobilità, o radicale non-narratività, è fatta di elementi semplici: ricorrono api, cielo, vento, neve, il padre, gli alberi, l’erba, il cane, i canali, tetti, fiori, mare… Dovremmo dire elementi banali, o banalmente lirici. Eppure, per qualche strana alchimia, l’effetto complessivo non è né banale né banalmente lirico. Data l’accezione più tradizionale di lirico, l’effetto non è nemmeno lirico perché un io che dia unità a tutto questo è difficile da trovare.
Insomma, niente racconto, niente soggetto, perlomeno a livello globale, ma anche a livello di singolo componimento. Tracce di soggetti ce ne sono dappertutto, come ci sono tracce di racconti: però non un soggetto; però non un racconto. Questo non impedisce a Racconto di apparire come un testo fortemente unitario. Lo è, eccome! La radiosa immobilità che percepiamo attraverso tutte le pagine è basata su un fitto ripetersi di elementi, di figure, di relazioni. È come se fossero altrettante variazioni musicali su un tema; e il tema sì, ricorre, sempre uguale e sempre trasformato.
Ma il tema non sono le api, il cielo, il vento… Qua e là entrano in gioco i nomi, le parole; nomi e parole che hanno la stessa dignità degli oggetti, come fossero a loro volta oggetti del mondo, e, anzi, qui lo sono. Tra le parole e le cose ci sono relazioni, rimandi, come anche tra le une e le altre cose, tra le une e le altre parole. Qua e là, ricorrentemente, si parla anche di racconto.
Non sarà allora che questo titolo non vuole dire che quello che il libro contiene è un racconto, bensì che il racconto, o la possibilità di un racconto, è l’oggetto del suo discorso? In altre parole, il titolo forse non vuole comunicarci che stiamo per leggere un racconto, ma che quello che stiamo per leggere parla del racconto, del narrare. O meglio, dovremmo dire, della sua difficoltà, della sua impossibilità, o della sua genesi complicata.
Ho definito radiosa la loro immobilità perché queste poesie trasmettono un senso profondo di felicità. C’è qualcosa di meraviglioso in questa contemplazione di oggetti consueti, organizzata secondo alchimie misteriose. È come immergersi a occhi chiusi nell’acqua fresca del mare: non vedi nulla e le sensazioni sono pervasive e confuse. Ma è un’esperienza che vorremmo sempre poter ripetere.
Fa parte di quell’esperienza, e pure del suo piacere, anche un vago senso di inquietudine, che proviene proprio dal non capire sino in fondo, dal lasciarsi possedere, dal non poter risolvere in racconto quello che percepiamo. Ed è proprio quello che succede pure qui: che il racconto, complessivamente, non ci sia e non ci possa nemmeno essere è qualcosa che non può lasciarci tranquilli. Non ci sarà nessuna catarsi, né alla fine di ogni poesia né alla fine del libro; nessun percorso verso la risoluzione. Siamo condannati a galleggiare in questa luminosa inquietudine.
Certo, dopo un po’ (ma non immediatamente e non facilmente) appare con sufficiente evidenza che questi oggetti magici appartengono a un’infanzia perduta: perduta perché lontana, e perduta perché appartiene a luoghi che non ci sono più. Forse l’autrice sta galleggiando, per così dire, nella memoria. E la memoria è il luogo classico del racconto, è il luogo in cui gli eventi si depositano proprio come racconti, compresi, conchiusi. Rifiutare il racconto alle forme della memoria è allora certamente un atto inquietante, straniante, capace, proprio per questo di scindere quei legami che in tanta lirica esausta rendono banali i campi e gli alberi e il vento e il mare. È come se il racconto, qui, fosse ciò che dobbiamo costruire noi, perché gli elementi che Agustoni ci presenta sono tutti elementi adatti per il racconto, ma nonostante questo il racconto non c’è; eppure ci deve essere, non ne possiamo fare a meno, e questa assenza ci trasmette un filo, sottile e persistente, di angoscia.
E quando ci accorgiamo di questo, magari ci possiamo accorgere anche che ogni singolo componimento è un tentativo tarpato di raggiungere il racconto, o di trovarlo; e qua e là si parla persino di questo, e le parole sono cose tra le altre perché le parole sono gli elementi di questo racconto che manca, e che si desidera, e che si ricerca perché di racconti sono fatti i bambini e gli adulti, così come essi sono anche fatti delle cose del mondo che li circonda.
Se non si può raccontare la tensione verso il racconto (perché sarebbe, evidentemente, già un racconto) la si può forse mettere in scena, provocarla, produrla. La tensione verso il racconto è la tensione verso una versione pacificata, compresa, risolta, delle cose. In questo libro, pur radioso della felicità dell’infanzia, la tensione non può essere risolta: rimane lì, a impedire qualsiasi vera consolazione, qualsiasi vera morale della storia. Tra la meraviglia di un’infanzia ricordata o sognata e l’angoscia di non poterle o volerle dare un senso, rimaniamo sospesi, incantati, colpiti.

 

 

 

 

Nadia Agustoni, da Racconto (Nino Aragno 2016)

 

 

 

nelle parole del mondo i volti cadono
i giorni così tanto e ancora vivere
i mandarini un racconto, non più
dire l’azzurro ma guarda

 

quest’ora l’albero sono terra
la voce piena di voci gli uccelli
fradici di ossa

 

***

 

 

scrivo un frammento la voce ritorna
sulla neve, a un bianco senza destino:
il bambino parla nella nuca e nel cielo
:sta lì con le parole l’aria una soglia:

 

il vento non finisce:da qualche parte
potrebbe riempire le vele:

 

:quell’altrove delle parole o le immagini:

 

 

***

 

 

i tuoi occhi sul cane e dopo a risalire una crepa
a vivere quaggiù tra i canali dritti e l’infinito –
il campo nell’oro di una sera e un grido
sopra le voci e sulla terra l’autunno
un tempo via dagli anni:

 

cercavo lo spazio di parole uscite senza pietra:
(mentre ruotava al sole la morte mancavano
i volti, fermavo parte della luce ed eri di nuovo
luminosa, un fischio cadeva sopra l’erba
o così ti pensavo).

 

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Renata Morresi scrive poesia e saggistica, e traduce. In poesia ha pubblicato le raccolte Terzo paesaggio (Aragno, 2019), Bagnanti (Perrone 2013), La signora W. (Camera verde 2013), Cuore comune (peQuod 2010); altri testi sono apparsi su antologie e riviste, anche in traduzione inglese, francese e spagnola. Nel 2014 ha vinto il premio Marazza per la prima traduzione italiana di Rachel Blau DuPlessis (Dieci bozze, Vydia 2012) e nel 2015 il premio del Ministero dei Beni Culturali per la traduzione di poeti americani moderni e post-moderni. Cura la collana di poesia “Lacustrine” per Arcipelago Itaca Edizioni. E' ricercatrice di letteratura anglo-americana all'università di Padova.
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