L’ultima estate autunnale

di Francesca Fiorletta

Come diceva Charlot, la vita vista in primo piano è una tragedia, in campo lungo una commedia. 

Appena pubblicato da Fazi Editore, con prefazione di Pier Vincenzo Mengaldo, “L’ultima estate e altri scritti” di Cesarina Vighy è un libro sorprendente, e non solo perché è composto da un romanzo, un epistolario, una raccolta poetica e un abbozzo di pittoresca narrazione incompiuta, ma anche e soprattutto per la forte e vividissima capacità d’introspezione, per l’ironia e il coinvolgimento sentimentale che si porta dietro.
Non si può non empatizzare, infatti, con la suprema protagonista, una donna ormai molto vecchia, col corpo tristemente brutalizzato da un’atroce malattia degenerativa, ma la mente lucidissima, affilata e tagliente da far invidia alle nostre intere generazioni di nativi digitali. 
Ha un sapore autunnale, questo libro, frammisto di ricordi e di nostalgie, che tanto somigliano alle foglie ingiallite, bagnate dalla pioggia e forse anche dalle lacrime, che si è soliti ammucchiare ai lati, lungo i vialoni alberati della memoria umana.
La signora Z. (“anche se il suo nome è Amelia, detta Pucci”, come ci ricorda la voce in corsivo, che gioca il doppio col cosiddetto io narrante nel presentare al lettore questo stream of conscoiusness di fine vita) ha avuto quel che si suole definire un’esistenza piena, intensa, costellata – come quella di quasi tutti, del resto – di grandi gioie e dolori; e sempre ha conservato intatta una capacità critica testarda e volitiva, che la fa sembrare talora anche inacidita, rancida persino, che potrebbe farla apparire come una vecchia “trombona” annoiata e incattivita col mondo e con se stessa, ma che – a ben vedere – si svela essere la quintessenza di quello spirito luminoso, eternamente giovane, eternamente ribelle, insofferente ai dogmi, riluttante alle regole, oltraggiosa coi canoni prestabiliti, insomma il più vero e autentico “spirito libero” che è il valore proprio della natura umana, e che anche i più pusillanimi, infondo, in cuor loro, vorrebbero essere in grado di tirar fuori, almeno per un breve anelito di vitalità.

E perché due nature così diverse, una semplice, in rilievo, ribaldamente in vista, l’altra segreta, buia, la parte concava di un calco, cercano l’una dall’altra il piacere a caso, complementari ma opposte? 

Molto importante in tutto il testo, insieme a un linguaggio forbito, sperimentale e controllassimo, lo stolido filo conduttore di stile e materia risulta essere il tema del doppio, del rovescio: l’amore e l’odio, la giovinezza e la vecchiaia, la salute e la malattia, e ancora la rassegnazione e la voglia di lottare, la libertà e la schiavitù, la fede e l’ateismo…
E chi volesse leggere il romanzo tutto d’un fiato, sperando invano di trovare la risposta giusta, beh, temo potrebbe restare deluso. Cesarina Vighy, col suo limpido acume e la sua sincera sapienza, ci racconta proprio l’impossibilità di rintracciare il bandolo della matassa esistenziale, l’impraticabilità dello scioglimento di ogni costrutto fisiologico e intellettuale, nel bene o nel male, ammesso che qualcosa di simile esista.

Terremo solo un pezzetto di dubbio, magari nascosto in fondo in fondo a un cassetto, per ricordarci sempre che niente è certo. 

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