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La gelosia delle lingue

 

[È uscito ad aprile La gelosia delle lingue di Adrián N. Bravi (eum edizioni università di macerata), un piccolo libro sul rapporto che tutti gli esseri umani – e moltissimi scrittori – hanno con la lingua materna e, alle volte, con altre lingue d’adozione. Ogni lingua è una fata gelosa, sembra dire Bravi, che spesso mal sopporta di dividere un parlante con un’altra lingua; questa occasionale coesistenza provoca dei cortocircuiti che non si finisce mai di esplorare.
Ne pubblico qualche estratto, ringraziando l’autore e l’editore.
La composizione in apertura è Suns from Sunsets from Flickr di Penelope Umbrico. ot]

di Adrián N. Bravi

La maternità della lingua I

È possibile, mi chiedo, abbandonare la propria lingua, dal momento che questa non è solo un modo di parlare, o meglio, non ha a che fare solo con un corpo grammaticale, ma anche con un punto di vista? Possiamo, per diverse vicissitudini, voltarle le spalle, abbandonarla o sostituirla, però forse non potremmo mai fare a meno della maternità di quella lingua, intesa come origine irrevocabile, anche quando vediamo il mondo alla luce di una nuova lingua. La maternità di una lingua non ci insegna solo a parlare, ma ci dà uno sguardo, un sentire, un punto di vista sulle cose. La sua sintassi è una prospettiva. Possiamo investire le nostre storie di altre lingue, ma la maternità che la nostra lingua d’origine rivendica su di noi, rimane; perché è un modo di essere, di vivere e di pensare, a prescindere da come la si esprime. È un’ermeneutica del mondo. Parliamo la nostra lingua madre in tante altre lingue.
Silvia Baron Supervielle, autrice argentina che scriveva anche in francese, ha sempre riflettuto sul mutare lingua. Nel 1998 pubblica a Buenos Aires un libro dal titolo El cambio de lengua para un escritor e nel 2007 esce in francese, tradotto in italiano, L’alfabeto di fuoco: piccoli studi sulla lingua. In quest’ultimo libro, l’autrice argentina, fa il suo punto della situazione: «Più ci rifletto più ho la sensazione che la prima lingua non muoia mai: essa permane silenziosa, ma viva, in fondo all’anima» [1]. Questo significa che mentre cresciamo e cambiamo lingua resta in noi un fanciullino pascoliano che confonde la sua voce con la nostra e che continua a guardare le cose attraverso quella maternità nascosta «in fondo all’anima». Ed è quella voce silenziosa, quel timbro velato dalla nuova lingua, che a volte continua a parlarci dentro. Se metto insieme queste riflessioni, capisco quel che scrive Bachelard nel già citato, La poetica della rêverie: «passando da una lingua all’altra si ha l’esperienza di una femminilità perduta o di una femminilità mascherata da suoni mascolini» [2]. Ed è lo smascheramento di questa femminilità, attraverso i nuovi suoni mascolini, che la maternità della lingua svela. Ogni volta che parliamo scopre il suo occultarsi nella lingua acquisita.
Nel primo trattato del Convivio (paragrafo XIII) Dante parla dell’amore per la lingua materna, che considera elemento di unione tra i genitori: «Questo mio volgare fu congiungitore delli miei generanti, che con esso parlavano, sì come ‘l fuoco è disponitore del ferro al fabro che fa lo coltello: per che manifesto è lui essere concorso alla mia generazione, e così essere alcuna cagione del mio essere» [3]. Una lingua che non rappresenta solo l’unione tra i suoi genitori, ma partecipa alla nascita ed è, allo stesso tempo, causa della sua esistenza. Una maternità, questa della lingua, che determina la vita e il rapporto con il mondo del figlio. La lingua dentro cui si nasce ci dà gli occhi con i quali continuiamo a guardare il mondo, anche quando non la parliamo più. Dice a tale proposito Italo Calvino in una nota biografica che si trova all’inizio di Eremita a Parigi: «Tutto può cambiare, ma non la lingua che ci portiamo dentro, anzi che ci contiene dentro di sé come un mondo più esclusivo e definitivo del ventre materno» [4].
A me, personalmente, è capitato di dover fare i conti con l’italiano che parlo da più di venticinque anni, ancora con parecchi errori, e nel quale scrivo solo da tredici o quattordici anni circa. Durante i miei primi dieci anni di permanenza in Italia ho continuato a scrivere in spagnolo. Mi sentivo troppo legato a quel modo di parlare, anche se la mia idea, quando ero salito sull’aereo che mi avrebbe portato in Europa, era di lasciarmi il passato alle spalle. Per dieci anni ho vissuto un rapporto ambiguo e doloroso con entrambe le lingue che avevo a disposizione, quella di partenza e quella d’arrivo, quella materna e quella del paese in cui avevo scelto di stare, almeno per un po’. Da una parte mi attaccavo ai ricordi, alle parole, alle metafore, al modo di parlare della mia lingua materna; allo stesso tempo, però, volevo liberarmene, non dimenticare, ma far parlare i ricordi con una voce diversa. Si vive dentro una lingua più che in uno spazio geografico. Questo mi sembra di averlo capito quando l’italiano ha iniziato ad avere il sopravvento.
Durante una conferenza del 1987, tenuta a Vienna, Brodskij dichiara che l’esilio è, prima di tutto, un evento linguistico. Chi si trova nella condizione di vivere espatriato, si ritira o si rifugia nella sua lingua; a quel punto «quella che era la sua spada, diventa il suo scudo, la sua capsula» [5], il luogo dove trovare un rifugio. La lingua madre come spada che nella lontananza diventa scudo, riparo, lo spazio dove potersi nascondere con i propri ricordi o con il proprio passato per trovare, in quel rifugio, l’intimità nascosta della nostra lingua. Un’intimità però che non riuscirà mai a rimanere nascosta come uno spazio chiuso, perché alla fine ci accorgiamo che quella capsula della lingua madre era un abitacolo pieno di finestre, aperte a tante contaminazioni.

[note]

1 Silvia Baron Supervielle, L’alfabeto di fuoco, traduzione di Anna Bertaccini, Capriasca, Pagina d’arte, 2010, p. 59.
2 Bachelard, La poetica della rêverie, cit., p. 40.
3 Dante Alighieri, Convivio, a cura di Franca Brambilla Ageno, Firenze, Le Lettere, 1995, vol. 2, 1, 13, pp. 56-57.
4 Italo Calvino, Eremita a Parigi, Milano, Mondadori, 1996, p. vii.
5 Iosif Brodskij, Profilo di Clio, a cura di Arturo Cattaneo, tradu- zione di Giovanni Buttafava, Gilberto Forti e Arturo Buttafava, Mila- no, Adelphi, 2003, p. 53.

*

L’ospitalità della lingua

Scrivo e parlo in italiano da molti anni, forse sogno anche in italiano, non lo so. Mi piace sentirmi ospite in questa lingua che ancora non riesco a padroneggiare come vorrei, anche se, fin dall’inizio, mi sono sentito accolto, come un invitato gradito. La lingua è sempre ospitale, aperta a ogni approdo. Non tollera muri divisori, non è proprietà di questo o quel gruppo. Appartiene a chi la parla, la legge, la scrive, senza distinzione di provenienza. Non tiene conto delle nostre origini. È la prima dimora che trova lo straniero, una specie di arco da attraversare. Un arco senza porte e sbarramenti, oltre al quale c’è una storia, una cultura, un’identità, che non sottraggono nulla alla diversità o alterità di chi lo attraversa. Ospitare significa accogliere l’altro nella sua singolarità.
Nell’ultimo libro scritto da Edmond Jabès, Il libro dell’ospitalità, lo scrittore ebreo egiziano, che aveva scelto il francese come lingua, prima ancora del suo esilio parigino, dedica un breve capitolo al tema dell’ospitalità che s’intitola, appunto, L’ospitalità della lingua. È un dialogo tra uno straniero e un ospite, nel quale si parla dell’importanza dell’accoglienza, dell’altro come un noi, che è anche un modo di essere e di stare al mondo. A un certo punto l’ospite ospitante (mi piace specificarlo visto che in italiano la stessa parola designa sia colui che ospita sia colui che è ospitato) chiede la nazionalità allo straniero e questo, ponendo l’accento sul fatto che la lingua che lo accoglie diventa ogni volta il suo paese, risponde che ora, il suo posto, è la lingua che si trovano a parlare in quel momento. Entriamo, da bambini o da adulti, in questa casa che ci ospita e durante il soggiorno creiamo al suo interno i nostri percorsi immaginari, i nostri progetti, i nostri smarrimenti. Impariamo a scoprirla, ad amarla o a odiarla. Seguiamo i suoi spostamenti interni, le sue variazioni. Alla fine però ci accorgiamo che quella casa ci ha trasformato, così come noi, in un certo modo, abbiamo trasformato anche lei, perché l’italiano, nel quale mi trovo a misurare ogni parola, è una lingua flessibile che acconsente le variazioni e le contaminazioni che ogni volta le vengono suggerite.
Dunque, l’ospitalità passa attraverso le parole. M’interessa segnalare il fatto dell’essere accolto, del sentirsi ospite in una lingua straniera, dell’essere uno straniero che piega la lingua che lo accoglie per dare un nuovo respiro allo sradicamento. L’accoglienza produce uno sdoppiamento nell’ospite che parla: da una parte, gli dà la possibilità di trovare una distanza rispetto alla lingua che lo ospita, riesce a vederla da fuori, capisce quante parole non trovano una diretta traduzione e quante altre gli aprono altri orizzonti linguistici; dall’altra, è questa stessa distanza a dargli la possibilità di entrare nella lingua, magari con pudore e in punta di piedi, ma entrarci, capirla, smarrircisi dentro. Crearsi una lingua straniera dentro la propria lingua: «I bei libri sono scritti in una specie di lingua straniera», scrive Proust. Deleuze usa questa frase come epigrafe a Critica e clinica e nelle sue Conversazioni con Claire Parnet precisa:

Dobbiamo essere bilingui anche in una lingua sola, dobbiamo avere una lingua minore all’interno della nostra lingua, dobbiamo fare della nostra propria lingua un uso minore. Il plurilinguismo non significa soltanto il possesso di più sistemi ciascuno dei quali sarebbe omogeneo in se stesso; significa innanzitutto la linea di fuga o di variazione che intacca ogni sistema impedendogli di essere omogeneo. Non parlare come un irlandese o un rumeno in una lingua diversa dalla propria, ma al contrario parlare nella propria lingua come uno straniero [1].

Sullo stare dentro la propria lingua come uno straniero Deleuze tornerà altre volte, insistendo sul movimento attraverso il quale ci si può aprire una linea di fuga nella propria lingua, come fa Bartleby con il suo enigmatico e agrammaticale «I would prefer not to», o lo scavo nei balbettii di Billy Budd.
Un mio amico, Alberto Coppari, a proposito di linea di fuga, mi aveva scritto in una lettera: «credo che uno comincia a fare qualcosa di buono con le parole non quando diventa abile con esse, quando gli viene naturale scrivere bene, ma, al contrario, quando comincia ad avvertire come estranea la propria lingua. Una lingua, insomma, diventa nostra quando la si perde». Un’affermazione simile la trovo in Hugo von Hofmannstahl, che mi ha suggerito il mio amico, quando afferma che il «vero amore per la lingua non è possibile senza ripudio della lingua».

[note]

1 Gilles Deleuze, Claire Parnet, Conversazioni, traduzione di Giampiero Comolli, Milano, Feltrinelli, 1980, p. 9.

*

Dal capitolo Casi di autotraduzione

Nel 1939 una compagnia di navigazione propone a Gombrowicz di partecipare al viaggio inaugurale della rotta Gdynia/Danzica-Buenos Aires. Durante il breve soggiorno a Buenos Aires scoppia la guerra e il suo soggiorno si prolungherà fino al 1963:

Solo, perduto, tagliato fuori, estraneo, sconosciuto, affogato. Allora avevo ancora i timpani straziati dal febbrile schiamazzo degli altoparlanti europei, mi tormentava ancora il ruggito bellico dei giornali, e già mi immergevo in un idioma a me incomprensibile e in una vita così distante dall’altra. Quel che si dice un momento incredibile [1].

Scrive in uno dei suoi diari, considerati da molti un’opera fondamentale. Durante questi ventiquattro anni Gombrowicz, nonostante continuasse a scrivere in polacco, diventa uno dei maggiori scrittori argentini. Ricardo Piglia dirà, per esempio, che Transatlantico è uno dei migliori romanzi scritti in Argentina; il primo romanzo che l’autore polacco scrive dall’esilio, nella sua lingua madre, che oramai usa esclusivamente nella scrittura, come una sorta d’idioletto. Cosa sarebbe successo, si chiede Piglia, se Gombrowicz avesse scritto Transatlantico in spagnolo? Sarebbe diventato il Conrad argentino? Del rapporto che Gombrowicz ha stabilito con entrambe le lingue, il polacco e lo spagnolo, rimane una traccia importante nella traduzione di Ferdydurke, uscita nel 1947 a Buenos Aires. La prima edizione era uscita a Varsavia nel 1938 ed era stata ben accolta nell’ambiente letterario polacco per la sua originalità stilistica. Nella prima bozza del Ferdydurke argentino, invece, si sperimenta una nuova lingua, uno spagnolo slavizzato e portato ai limiti della lingua, con l’intento di forzare le parole e la sintassi fino a costringerle ad accettare altri significati e slittamenti. Dunque, per Gombrowicz non si trattava di una ricerca d’ipotetici equivalenti del testo originale, considerato definitivo, ma piuttosto di un’elaborazione ulteriore, di una rivisitazione alla luce di una nuova lingua, un Ferdydurke parallelo a quello polacco: un libro diverso, una nuova versione, scritta sulla base dell’edizione originale. Gombrowicz voleva dare un altro respiro al suo testo, a partire dalla nuova esperienza dell’esilio («Questa traduzione è stata fatta da me e solo lontanamente assomiglia al testo originale», scrive nella prefazione del 1947), senza considerare l’originale come un punto d’arrivo, anzi, l’originale diventa la base per la conquista dello spagnolo. Questa particolarità specifica lo differenzia dalla tecnica e dall’orizzonte di pensiero fatti propri da Wilcock, che, come abbiamo visto, scrive nella sua lingua madre e si autotraduce in italiano mantenendosi fedele al testo originale.
Dentro questa traduzione c’è anche un’altra storia: nella sala degli scacchi del Café Rex di Buenos Aires, sull’Avenida Corrientes, si riuniva ogni giorno un «comitato di traduzione», di cui faceva parte anche il cubano Virgilio Piñera, che discuteva sulle varie versioni del testo, racconta Gombrowicz nella prefazione. Nessuno degli amici di Gombrowicz conosceva il polacco, però quando lo spagnolo non ammetteva più torsioni si passava al francese. L’eco di questa storia è raccolto e rilanciato da Piglia in Crítica y ficción: «Il romanzo argentino sarebbe un romanzo polacco: voglio dire un romanzo polacco tradotto a uno spagnolo futuro, in un caffè di Buenos Aires, da una banda di cospiratori capeggiata da un conte apocrifo» [2].

[note]

1 Witold Gombrowicz, Diario. Volume I (1953-1958), a cura di Francesco M. Cataluccio, traduzione di Vera Verdiani, Milano, Feltrinelli, 2004, p. xxiv.
2 Ricardo Piglia, Crítica y ficción, Buenos Aires, Siglo veinte, 1993, p. 51.

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Ornella Tajani insegna Lingua e traduzione francese all'Università per Stranieri di Siena. Si occupa prevalentemente di studi di traduzione e di letteratura francese del XX secolo. È autrice dei libri Tradurre il pastiche (Mucchi, 2018) e Après Berman. Des études de cas pour une critique des traductions littéraires (ETS, 2021). Ha tradotto, fra vari autori, le Opere di Rimbaud per Marsilio (2019), e curato i volumi: Il battello ebbro (Mucchi, 2019); L'aquila a due teste di Jean Cocteau (Marchese 2011 - premio di traduzione Monselice "Leone Traverso" 2012); Tiresia di Marcel Jouhandeau (Marchese 2013). Oltre alle pubblicazioni abituali, per Nazione Indiana cura la rubrica Mots-clés, aperta ai contributi di lettori e lettrici.
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