Della poesia fatta a macchina, e anche di Sergio Rotino

di Daniele Barbieri

A home transformed by the lightning
the balanced alcoves smother
this insatiable earth of a planet, Earth.
They attacked it with mechanical horns
because they love you, love, in fire and wind.
You say, what is the time waiting for in its spring?
I tell you it is waiting for your branch that flows,
because you are a sweet-smelling diamond architecture
that does not know why it grows.

 

È attraverso una segnalazione di Enzo Campi su Facebook che arrivo a questo articolo di Salvatore Luiso, “La poesia che (non) si doveva scrivere”. L’articolo inizia citando una (discreta, anche apprezzabile) poesia in lingua inglese (qui sopra), rivelando poi che non è stata scritta da nessuno, bensì composta da un algoritmo, un’Intelligenza Artificiale insomma, intorno al 2010. Ora cito io dal medesimo articolo (più veloce, onesto, e comodo che riassumere – per vedere il contesto vale il link sopra) che sviluppa il discorso a situazioni ancora più recenti:

 

Venendo a qualcosa più vicino a noi, Galileo.net ha pubblicato un articolo molto interessante sul lavoro di Jack Hopkins, fondatore della Spherical Defence Labs LLC di Londra ed ex ricercatore presso il laboratorio di Informatica di Cambridge. Hopkins sta sviluppando alcuni algoritmi per “insegnare” ad una rete neurale artificiale a comporre poesie paragonabili a quelle dei poeti umani. Il suo sistema è molto più “professionale”: sono stati caricati nel programma ben 7,56 milioni di parole ricavate da libri di poesie del ventesimo secolo. Questa IA, inoltre, avrebbe una speciale memoria sia a breve che a lungo termine, “esercitandola” alle emozioni. Il risultato è che il nuovo sistema riesce a scrivere poesie in diverse forme ritmiche, adoperando soluzioni formali e strutture retoriche, persino la rima.

L’IA di Hopkins è in grado di scrivere poesie su molte tematiche: proponendogli una poesia sull’estate, il sistema troverà tutti i termini che richiamano la stagione più calda e ci comporrà una lirica. Nel 70% dei casi in cui l’IA ha composto una poesia “sensata”, gli esseri umani non sono stati in grado di distinguere fra queste poesie e quelle composte da autori umani, trovando spesso le prime addirittura più belle, dunque emozionanti.

 

Ci sono alcune precisazioni da fare. Quando si dice “in cui l’IA ha composto una poesia sensata” si implica che c’è stato qualcuno, presumibilmente umano, che l’ha giudicata sensata. Quindi è stata compiuta una scelta sui risultati della produzione automatica. Di questa scelta ignoriamo i criteri, ma potrebbe anche trattarsi di criteri minimali di coerenza semantica – non di qualità estetica. Il problema sollevato da questa storia non cambia però di molto: comunque, un algoritmo ha generato poesie (non tutte, non sempre – ma quale umano lo fa?) che alcuni lettori hanno apprezzato (e tra questi, in qualche misura, anch’io).

Ora, il problema non è – come sembra credere Luiso, o anche Hopkins – se i computer davvero comprendano o sentano emozioni (o possano essere “esercitati” alle emozioni). Il computer non ha fatto che seguire regole che derivano dalla combinazione frequente di parole frequenti. Se invece di sottoporgli un corpus di poesie, gli avessimo sottoposto un corpus di ricette culinarie, il computer avrebbe prodotto ricette culinarie. Non lo avrebbe fatto, presumibilmente, con altrettanto successo: una ricetta culinaria deve certamente parte del suo successo al modo in cui viene scritta, ma se poi la ricetta, al momento di metterla in pratica, non funziona, la correttezza linguistica si rivela insufficiente, e il criterio dominante rimane un altro.

Una poesia non è però una comunicazione pratica con diretto effetto sul mondo, e la sua valutazione dipende unicamente da come è scritta. In più, proprio per questo, il lavoro che su di lei compie chi la sta leggendo è assai più importante che in qualsiasi altro tipo di comunicazione verbale. Potremmo dire che una poesia è un oggetto di proiezione, una specie di macchia di Rorschach su cui ogni lettore proietta ciò che può proiettare (senza che questo, evidentemente, si traduca in un giudizio sulla sua psiche); e la qualità di un componimento poetico è la qualità delle proiezioni che permette o suscita. Questo meccanismo può funzionare così bene da produrre un attaccamento anche molto forte da parte del lettore (e io stesso, come lettore di certe poesie, non faccio certo eccezione).

Ma questo meccanismo permette anche che, attraverso identificazioni potenzialmente molto diverse tra loro, lettori diversi si trovino accordati sul medesimo andamento, sul medesimo ritmo poetico (che è anche, ma non solo, quello prosodico-rimico: ci sono un sacco di altri ritmi in gioco in un testo poetico!). In questo modo, la situazione di fruizione collettiva prende la forma di una situazione rituale: benché lo facciamo in momenti diversi del tempo (e dello spazio) tutti noi lettori stiamo seguendo lo stesso andamento ritmico, stiamo vivendo un’esperienza accordata – come quella del ballo, o dell’ascolto musicale. Se la poesia prodotta dal computer, per ragioni qualsiasi, produce nei suoi lettori questa esperienza, allora è una poesia che in qualche modo funziona, ed è comunque una poesia di valore: anche se siamo ingannati, si tratta di un inganno positivo, fruttuoso; abbiamo davanti comunque un oggetto interessante.

La questione che questa storia pone non riguarda tanto, a mio parere, la supposta umanità del computer e la sua capacità di provare emozioni (semmai solleverebbe il problema di cosa sia l’umanesimo, ma sarebbe troppa carne al fuoco per questo post). Io la vedo diversamente: se la poesia composta a macchina può essere preferibile, più interessante, di poesie composte da umani veri, perché non domandarci come lavorano gli umani veri?

Cosa vuol dire essere un poeta? (Non faccio questa domanda da fuori: sono anch’io, comunque, un poeta.) Vuol dire cercare di rientrare, da autori, in un universo di testi di cui siamo stati in precedenza, e ancora siamo, lettori. Non c’è altro modo: se la poesia non ci ha affascinato come lettori, non potremo mai sentire il desiderio di riprodurre direttamente quella fascinazione – nemmeno se il nostro corpus di letture fosse quello banalmente scolastico. Se così fosse scriveremmo poesie altrettanto limitate, ma staremmo comunque riproducendo il meccanismo.

Per riconoscere come poesia quello che scriviamo (e se non lo riconosciamo noi certo non possiamo pretendere che lo riconoscano altri) quello che scriviamo dovrà assomigliare a quello che già abbiamo letto; quello con cui speriamo di affascinare qualcuno dovrà assomigliare a quello che già ha affascinato noi. Se vogliamo perpetuare il mito, dobbiamo riprodurlo: da quest’obbligo non si scappa.

È per questo davvero interessante che la poesia non rimanga nella Storia sempre uguale a se stessa, cioè che sia oggetto di un’evoluzione. È cioè davvero interessante che ci sia ogni tanto qualcuno (oppure più spesso, in minima misura, tanti) che nelle poesie mette dentro qualcosa che prima non c’era.

Ora, perché dovremmo stupirci che questo meccanismo di riproduzione inevitabile possa essere riprodotto artificialmente? Ormai le intelligenze artificiali sanno scrivere in linguaggio corretto. Addestrale con le ricorrenze delle parole e delle loro relazioni in poesia, aggiungi un po’ di regole metriche (non necessariamente canoniche – anche il verso libero ha le sue regole) e il risultato potrà essere non peggiore di quello della maggior parte di coloro che scrivono poesia. Il criterio di produzione, di fatto, non è molto diverso. Quel po’ di selezione che sta a monte della produzione automatica farà il resto.

Quello che viene messo in crisi, semmai, dalle capacità poetiche di un algoritmo è il mito della poesia come espressione dell’io. Certo, se siamo convinti che la poesia sia questo, dovremo pensare che la macchina possieda a sua volta un io (il che aprirebbe un fronte pesante su che cosa possa essere l’io), o arrampicarci sugli specchi in qualche modo che non riesco nemmeno a immaginare (e non ho voglia di farlo).

 

Una caratteristica che la poesia fatta a macchina certamente possederà è quella di assomigliare a tanta poesia che già esiste. Del resto tantissima poesia (per certi versi tutta) assomiglia a tanta poesia che già esiste; e ciò vale sia per la lirica che per la poesia cosiddetta “di ricerca”. A questo non c’è scampo, e non è necessariamente una caratteristica negativa; per essere considerato poesia, un testo poetico non può che ricordare altri testi poetici. Tante volte questa somiglianza è banale, così banale che se quello che cerchiamo è la novità non riusciamo a trovarlo; ma qualche volta le differenze sono davvero sottili, e passano a lungo inosservate: rimangono solo una vaga, inquietante sensazione sino a quando qualche lettore intelligente non è in grado di individuarle e descriverle (e questo è, per esempio, uno dei compiti cruciali della critica). Chi legge poesia e si trova a far da giudice nei concorsi letterari sa anche bene come esistano somiglianze disprezzabili e somiglianze apprezzabili, e che il giudizio da produrre in tempi brevi rimane comunque un’operazione complessa e discutibile, in cui l’originalità è sì un valore, ma non a tutti i costi. “C’è del bello e c’è del nuovo nella sua musica, ma il bello non è nuovo e il nuovo non è bello” si trovò a dire un caustico Rossini a un giovane che gli proponeva la propria musica.

Per coincidenza spazio-temporale, mi trovo a confrontare queste riflessioni con quelle fatte in questi giorni a proposito di un libro di Sergio Rotino, Cantu Maru, un libro scritto in un dialetto pugliese costruito – in realtà di nessun luogo preciso delle Puglie. Si tratta di un libro particolare, sia come libro di poesie sia come libro dialettale. Quando si pensa alla poesia dialettale, si sta il più delle volte facendo riferimento a una forma di lirica in cui l’uso di una lingua diversa dall’italiano, più vicina alle origini, permette una sorta di svincolo dal ritorno dei luoghi comuni incrostati nella lingua poetica. Il poeta dialettale, insomma, potrebbe permettersi di essere davvero poeta, nel senso tradizionale, quasi popolare del termine (almeno per gli ultimi due secoli), ovvero poeta lirico, senza dover troppo pagare lo scotto verso il già detto, il già udito, che rischia di pagare chi scrive in lingua italiana. Poiché la lingua si carica dei propri usi precedenti, il lettore di poesia in italiano è carico di tutte le espressioni, le frasi fatte che ritornano – e inevitabilmente le ritrova quando legge lirica in italiano (che essa sia scritta da un vero umano o da un algoritmo intelligentemente programmato). La poesia dialettale ha invece una storia molto più limitata, e i dialetti sono tanti quante le zone dell’Italia, e quindi è inevitabilmente poca la poesia scritta in ciascuno di loro: una competenza analoga da cui possa derivare un’analoga stanchezza non avrà mai il tempo di formarsi. Ecco dunque perché la poesia dialettale finisce per essere un possibile porto di approdo per chi – consapevole della stanchezza poetica dell’italiano – non possa rinunciare alla lirica.

E questo – di passaggio – stende un’ombra inquietante sulla nostra capacità di leggere poesia in lingue diverse dalla nostra. Questa poesia o la incontriamo tradotta (e allora si ricade nelle problematiche dell’italiano, se proprio non siamo capaci di liberarci dell’illusione che la traduzione ci dia accesso pressoché diretto all’originale) oppure la leggeremo secondo la competenza che abbiamo non solo della lingua, ma anche dei suoi usi poetici – quella competenza che nessun manuale, per ottimo che sia, potrà mai dettagliarci in maniera consapevole, ma che può entrare in noi solo per l’accumulo progressivo prodotto da una lunga e fedele frequentazione.

Cantu Maru non è questo. Come poesia dialettale è incongrua, forse sbagliata. La parola viene utilizzata all’interno di forme che non hanno rapporto con forme della tradizione: né versi canonici, né frasi tipicamente dialettali, né un argomentare che un parlante pugliese possa riconoscere come familiare. In realtà, dunque, non è poesia dialettale: Cantu Maru è poesia che usa il dialetto come forma verbale base per costruire il proprio discorso. Se confrontate (negli esempi riportati sotto) l’originale pugliese con la traduzione di servizio in italiano, vi accorgerete di come la secchezza, la brevità, la durezza delle parole e dei suoni dell’originale costruisca una sonorità che l’italiano non conosce, né potrebbe conoscere, per la sua stessa natura fonetica.

Questo ritmo prosodico e fonetico duro, quasi brutale, per certi versi primitivo, trasmette un effetto straordinario di impotenza del dolore, di difficoltà nel dirlo, nel comunicarlo. Lo trasmette attraverso i suoni ancora prima che attraverso il senso delle parole, proprio come un brano musicale. Ma a differenza che in un brano musicale, benché il senso arrivi dopo e in subordine al suono, in poesia esso non può comunque non arrivare – e quando arriva gioca a sua volta, e anche questa posticipazione di quello che normalmente, quando si legge nella propria lingua, è immediato e diretto contribuisce all’effetto di straniamento mitico. Rotino ci trasporta in una sorta di rito funebre che, pur avendo somiglianze solo remote con i riti della sua terra, viene percepito come non meno rituale e non meno arcaico. L’effetto che questa poesia produce è quello di una sorta di proto-rito, un rito precedente e più profondo di quelli di qualsiasi Terra del rimorso.

Qualche giorno fa mi è capitato anche di riascoltare la musica di un gruppo pugliese che conosco e grandemente apprezzo da lungo tempo, che si chiama Faraualla (su Youtube, per esempio qui e dintorni). Mentre ascoltavo queste bravissime quattro interpreti, che cantano (quasi sempre) a cappella, mi sono reso conto quasi di colpo di una somiglianza formale forte con l’operazione di Rotino: nell’uno come nell’altro caso c’è un lavoro sulla lingua e sulle sue particolari sonorità per produrre qualcosa che con la tradizione intrattiene comunque un rapporto controverso; e questo viene fatto per mezzo dell’inserimento di forme non tradizionali, magari moderne, che noi sentiamo come contemporanee, e quindi nate in contesti del tutto differenti. Questa introduzione forzata, questa violenza che si fa alla lingua della tradizione, introduce a sua volta uno scarto, ed è questo scarto che ci permette poi di vedere, di sentire, quello che altrimenti non vedremmo, non sentiremmo più, perché sommerso dalla tradizione stessa e dai percorsi fruitivi che essa stessa inevitabilmente ci suggerisce.

 

Ora, potrebbe una poesia come quella di Rotino essere stata scritta da un algoritmo? Certamente sì, date le opportune condizioni. O perlomeno, adesso certamente sì. In altre parole, adesso che qualcuno ha mostrato come si possa seguire questa via per produrre poesia, non dubito che un algoritmo sufficientemente ben costruito potrebbe produrre ottime poesie in questo stile, magari, talvolta, persino migliori di quelle di Cantu Maru.

Dato uno stile, è proprio la sua maniera quello che è imitabile tecnicamente. Ma l’imitazione della maniera è quello che si trova nella grande maggioranza dei testi poetici che vengono prodotti in qualsiasi tempo e luogo, tipicamente scritti da uomini, non da algoritmi. Fino a qualche secolo fa, questa imitazione non costituiva un problema: la qualità di un testo artistico veniva valutata per la sua aderenza al canone, non per la sua capacità di distaccarsene. Sino a quando l’idea di sublime non irrompe sulla scena della cultura europea, nel corso del XVIII secolo, il bello viene valutato in termini di aderenza, non di deviazione e conseguente novità. Siamo noi moderni a essere ammalati di novità, e lo siamo diventati proprio mentre ci ammalavamo di progresso ma anche di timore di essere ridotti a uomo-macchina: due grandi miti, contrapposti e paralleli, che crescono nel Settecento e finiscono per produrre il Romanticismo.

Ora, non sarebbe troppo difficile oggi, io credo, progettare algoritmi poetici che giochino sull’introduzione dello scarto, in modo da produrre autonomamente poesia interessante e nuova come quella di Rotino. Certo, il successo dei testi prodotti da questi algoritmi innovativi sarebbe probabilmente minore di quello dei testi prodotti per assomigliare al mainstream: questa è una regola generale valida indipendentemente da chi o cosa sia l’autore dei testi. Ciò che è innovativo è più difficilmente riconducibile al canone, e ci vuole capacità e decisione e amore del rischio da parte del lettore per deciderne il valore, separando quello che “è nuovo ma non è bello” da quello che resta bello pur essendo nuovo. Dal punto di vista commerciale, produrre testi non canonici (soprattutto quando lo spazio di manovra economico è così piccolo come nel caso della poesia) è certamente molto meno remunerativo che produrre testi canonici.

Ma il guadagno che i testi poetici possono portare all’autore di un algoritmo è davvero così minimo (anche quando ci sia) che non sarà per quello che si potrebbe costruire un programma che tenti di innovare in poesia. Magari lo si farà per il semplice gusto della sfida. In un caso di questo genere probabilmente dovremmo considerare poeta, autore, proprio chi scrive e mette in opera l’algoritmo, perché l’eventuale innovazione ce l’avrà comunque messa lui (o lei che sia). In fin dei conti l’operazione provocatoria che Nanni Balestrini compiva negli anni Sessanta (pubblicata alla fine di Come si agisce) andava proprio in questa direzione: il poeta è colui che costruisce la macchina che produce il testo, qualunque cosa ne sia poi il prodotto. E, andando ancora più in là, la prima di queste macchine veniva proposta da Tristan Tzara quando diceva (non ricordo più dove e quando) che per scrivere una poesia basta prendere un articolo di giornale, ritagliarne le singole parole ed estrarle a caso da un sacchetto.

Se la poesia fatta a macchina dovesse raggiungere davvero il livello di originalità e indistinguibilità che sto descrivendo, quali ne sarebbero le conseguenze? La poesia non è un genere da intrattenimento come altri. Credo che per molto cinema hollywoodiano, se lo spettatore scoprisse che viene interamente realizzato da un algoritmo, non cambierebbe nulla: nella misura in cui lo spettacolo c’è, e mi avvince, e ne godo, che importanza ha il modo in cui viene prodotto? Questo potrebbe valere anche per la musica e per molta letteratura.

Dovrebbe cambiare, probabilmente, il modo in cui ne parla la critica. Eppure, nella misura in cui la critica non si limita a dire se il suo oggetto è bello o brutto, e divertente o noioso, ma cerca anche di estrapolare il cosiddetto messaggio, questo cambiamento non farebbe che spostare l’istanza umana (ovvero chi ha detto queste cose) più a monte: dall’autore del film (musica, romanzo…) all’autore del programma che lo ha realizzato, o a chi ha comunque impostato i parametri per far funzionare l’algoritmo.

Il punto è che – e in poesia particolarmente – questa roba funziona perché noi la percepiamo come umana, cioè come discorso da uomo a uomo. La classica distinzione tra bello naturale e bello artistico sottolinea proprio questo; e se a monte della produzione di un oggetto artistico qualsivoglia non si potesse individuare un soggetto umano (e lo cercheremmo, in ogni caso, fino allo spasimo) avremmo sempre la chance di apprezzarlo come si apprezza un tramonto, un paesaggio, il viso di una persona che troviamo bella.

Ora, io credo proprio che il tema della poesia realizzata interamente a macchina sia sconvolgente proprio perché alle spalle di tutti i recuperi autoriali che possiamo legittimamente tentare, rimane la prospettiva di doverla valutare come bello naturale, ovvero come un prodotto affascinante ma non umano. E poiché esso sarà privo anche di ciò che, in quanto naturale, sentiamo comunque in continuità – in connivenza, direbbe François Jullien – con noi umani, dovremo estendere il senso di accordo, di sintonia, di compartecipazione istintiva, a una dimensione inevitabilmente, intimamente razionale: quella della macchina, ovvero proprio ciò che, da qualche secolo a questa parte, sentiamo esattamente come la negazione dell’umano. Insomma, avremmo un bello naturale proprio là dove la natura non è nemmeno più la continuazione esterna dell’umano, bensì proprio un’alterità radicale; in quanto espressione esattamente di quello che il Romanticismo ci ha insegnato a riconoscere come nemico: la ragione estrema, con tutto il suo imperscrutabile inconscio.

“El sueño de la razón produce monstruos” è il titolo di una famosa acquaforte di Goya, che viene correntemente (e magari pure correttamente) tradotto come “Il sonno della ragione genera mostri”. Ma la parola sueño in spagnolo è ambigua, e può essere tradotta frequentemente anche come sogno: ecco quindi che non il sonno, bensì il sogno della ragione produce mostri (e l’acquaforte di Goya non contraddirebbe questa lettura). L’inconscio della ragione non è meno inquietante e mostruoso della sua vacanza: questo è il motivo profondo per cui l’ipotesi della poesia scritta a macchina sommuove tanto i nostri timori.

 

 

 

 

Sergio Rotino

Da Cantu Maru

Edizioni Kurumuny, Palermo 2017

 

 

 

mai cu te
basta cu
te a
tie mai
cu basta a

sempre picca ete

quiddru ca
sempre alli
sempre a
cine alli
muerti se
tae

 

mai che ti / basti che / ti a / te mai / che basti a // è
sempre poco // quello che / sempre ai / sempre a / chi
ai / morti si / offre

 

 

 

*

tienime
tienime
sangu

sangu tienime
sangu

tienime nu
me
lassare nu
me

menare
intra lu
jancu ancora
ancora nu

picca spetta

tienime
spetta
tienime
ancora tienime

sangu

tienime
ancora nu
me lassare

 

tienimi / tienimi / sangue // sangue tienimi / sangue //
tienimi non / mi / lasciare non / mi // gettare / dentro
il / bianco ancora / ancora un // poco aspetta /
tienimi / aspetta / tienimi / ancora tienimi // sangue //
tienimi / ancora non / mi lasciare

 

 

 

*

e puru
sangu simu
e terra
russa terra
ca

ca ni
esse

russa

fore la
ucca none
chiui none

mai arberi

mai fronde mai
chiui qua
bbasciu mai
chiati stamu
sementi simu
stati

simu sementi
fiacchi a
nui fiacchi

spundati

 

e siamo / anche sangue / e terra / rossa terra / che //
che ci / esce // rossa // dalla / bocca non / più non //
mai alberi / mai foglie mai / più qua / giù mai /
trovati stiamo / semi siamo / stati // siamo semi /
inutili a / noi inutili // spariti

 

 

 

*

comu ni
atte lu

sule

comu ni c
comu
comu ni
chiange la

ucca lu
core comu
ni
chiange ca
nienzi t
tene ca
nienzi s’ave
tenutu intru

piezzi

te
cose ave
lassatu cu
se ne
fucenu se

ne su
sciute
a gnaciu
a

 

come ci / colpisce il // sole // come ci p / come / ci
piange la // bocca il / cuore come / ci / piange che /
niente p / possiede che / niente ha / posseduto dentro //
pezzi // di / cose ha / lasciato che / se ne / scappassero
se / ne sono / andate / in giro / in
 

 

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3 Commenti

  1. ci aggiungerei… RIMBAUD Il primo studio dell’uomo che voglia esser poeta è la sua propria

    conoscenza, intera; egli cerca la sua anima, l’indaga, la scruta, l’impara.

    \\\\\\\\cioè pensa … uso integro e libero delle inferenze, non è coatto

    nell’induzione.

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Renata Morresi scrive poesia e saggistica, e traduce. In poesia ha pubblicato le raccolte Terzo paesaggio (Aragno, 2019), Bagnanti (Perrone 2013), La signora W. (Camera verde 2013), Cuore comune (peQuod 2010); altri testi sono apparsi su antologie e riviste, anche in traduzione inglese, francese e spagnola. Nel 2014 ha vinto il premio Marazza per la prima traduzione italiana di Rachel Blau DuPlessis (Dieci bozze, Vydia 2012) e nel 2015 il premio del Ministero dei Beni Culturali per la traduzione di poeti americani moderni e post-moderni. Cura la collana di poesia “Lacustrine” per Arcipelago Itaca Edizioni. E' ricercatrice di letteratura anglo-americana all'università di Padova.
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