La pura superficie

di Mario De Santis

“Ho scritto un testo che non tende a nulla. Vuole solo esserci, come tutti”. Ci accoglie alla fine della prima poesia, questo verso che dice già nettamente qual è uno dei cardini del nuovo libro di Guido Mazzoni. Anche il titolo, La pura superficie, circoscrive un’idea del mondo che i testi, senza aspirare a conoscerlo, tuttavia inquadrano. Usare questo termine preso dalla fotografia o dal cinema serve per dire come lo sguardo del poeta si sposti assieme alle cose che accadono, facendosi cosa esso stesso, e diventi straniante fino ad osservare “la propria vita che esiste e scivola, ogni giorno, sulla pura superficie”.
A questa estraniazione – oltre al secolo che tra da Rimbaud e Freud in poi ci ha plasmato “Io è un altro” – per Mazzoni – che ne descrive pagina dopo pagina le molte declinazioni – contribuisce l’affollamento di immagini e schermi che in questa epoca ci seguono nel flusso quotidiano, non solo la tv, il cinema, il pc ma ora i “personal device” come un’estensione del nostro corpo, che tuttavia non siamo noi, sfarinati in una moltitudine di specchi multipli (“sono l’immagine di un intero che mi sovrasta, / vedo me stesso come qualcuno che coglie/ l’immagine di un intero”) In questi vediamo noi stessi fare le cose della vita, dalle minime – fare la doccia, masturbarsi, pulire il sedere di nostro figlio piccolo, partecipare ad una festa – ma anche le grandi – partecipare al G8 di Genova del 2001 e quello stesso anno osservare appunto da uno schermo l’evento storico che ha cambiato un’epoca, annichilendo ogni possibilità di considerala epoca (“Si siede sul divano e guarda la propria epoca venirgli incontro nel plasma”).
Evento, memoria, esperienza e gli anni vissuti come storia “si dissolveranno” come chi li ha vissuti rimasti “soli e incomprensibili” perché legati ad un accadere eroso nella impossibilità di tenerlo vivo come ricordo, perché ricordare e vedere su uno schermo ormai si confondono: “Un giorno ricorderà le scene dei film dove  ha già visto ciò che sta per vedere”). Ogni cosa che viviamo è sempre più sottoposta a questo continua sorta di  Alzheimer: accade, dimentica (“Esce di casa per una ragione, la dimentica” è l’incipit del libro, netto, oggettivo, con una prosodia geometrica e assertiva, che introduce un nichilismo che emerge da uno sguardo che potremmo definire attonito. L’io descrive, accerta, si concentra su dettagli, piccole cose senza valore. È il segno – come quando attraversiamo luoghi senza identità, di una non appartenenza, neppure sradicamento, perché significherebbe conservare una traccia fantasma dello strappo. Qui è un essere collocati qui o altrove nella vita, fa lo stesso. Eppure la viviamo.
Attraverso una distopia “live” che tutti abbiamo vissuto così (a parte i relativamente pochi che erano nei pressi delle Torri Gemelle) in un episodio storico che si colloca l’accaduto simbolo di tutta la condizione in cui siamo immersi, con la consapevolezza che fatichiamo a definire come vera un’esperienza, perché questa abitudine ad osservarsi – o di avere il mondo intero visibile in un touch screen,  genera un paradosso:  “a nessuno importa più nulla di ciò che non lo tocca personalmente” e forse neppure più di quello.

I brevi racconti della fruizione di un video porno o quelli di una penetrazione, lasciano al lettore il senso di una espropriazione radicale dell’esperienza dalla coscienza di chi la vive, anche se accade nei luoghi oscuri e intimi. Ci vediamo vivere, ma vedere non è più conoscere. Inoltre questa metafora è esausta come gli oli industriali e come quelli, si fa residuo inutile, come forse a volte sentiamo la letteratura.

Così Mazzoni forse sposta il vero nucleo del libro fuori da esso,  ci sembra: nel suo account Instagram, dove il poeta fa veramente “come tutti” e posta immagini di luoghi anonimi o dettagli di superfici, appunto. Rimbalzano in rete, mettiamo un “mi piace”, siamo connessi. Una post-realtà che affianca – e tende negli incubi apocalittici – a sostituirsi alla socialità e all’etica. (“È come se fossimo arrivati alla fine / dell’immaginazione, inanimati in un sapere inerte”).
O forse è un’illusione idealista che le relazioni tra le persone possano essere vere. Mazzoni in ogni caso è come tutti, ma poiché appartiene anche ad una ormai piccola sotto-comunità, quella di chi considera i libri uno strumento ancora umano,  benché privo di forza e di capacità di conoscere il mondo, decide di firmarne uno per Donzelli (perché se pure fossi arrivati alla fine dell’immaginazione, poco dopo aggiunge “Eppure l’assenza di immaginazione doveva / a sua volta essere immaginata”). Un’opera di scrittura che con grande consapevolezza e come dicevamo, qualcosa che potremmo apparentare al  nichilismo,  accetta di stare sul confine e nel paradosso che scrivere non serve a niente, ma proprio questo è quella cosa tra cose che accade, ci scivola addosso, non resta. Scrivendo un libro trasparente, concettuale, ma anche sottraendo più che sia possibile ogni letterarietà, anche se, viene in mente il Sereni di “Un posto di vacanza” che indica la “vergogna” di “uno osservante sé mentre si scrive” pur facendolo. Se Mazzoni tuttavia parla dello “scrivere” non è il compiacimento metaletterario:  è un’attività sociale, di lavoro, un accadere come un altro, non ha più uno statuto speciale. La scrittura tende così verso la prosa, usando brevi narrazioni, poematiche o mini-racconti, mescolati con testi poetici veri e propri, diamantati in un’assertività lucida, pacata, tagliente, fino ad usare anche traduzioni-riscritture da Wallace Stevens, riferimento esplicitato nel titolo sempre uguale (“Stevens”). Siamo qui, anche il poeta come tutti, in questo puro accadere, tuttavia ci teniamo assieme, ci osserviamo come da schermi, ma pure un debolissimo filo si tiene, in questa immensa chiacchiera inutile, anzi proprio dentro quella sta lo “small talk” che spesso ricorre nel libro (le “cazzate” che ci si scambia tra persone legate da affetti in cui “le parole non servono”) e che alla fine forse sono la cosa più vera che possiamo scambiarci. Siamo solitudini chiuse nei nostri monologhi interiori, che valgono zero come quello del poeta “e che non avrebbe senso esprimere o pensare”. Così i viventi stanno in una nuda vita, e lo stare nel mondo non può che essere questa sorta di beatitudine perplessa e muta di un vedersi vivere. Come la neve nell’aria “libera di tutto”: dei significati anche di quella nullità che percepiamo. È un soggetto che non crede alla realtà, ma riesce ancora a farsi questa domanda e paradossalmente il “toccare, toccare veramente” accade quando la risposta a quella domanda rimane sospesa come la neve stessa (“bianca neve scender senza venti” direbbe Cavalcanti, brand di una leggerezza post moderna travisata, che ha inaugurato la fine della soggettività che conosce e legge il mondo). Un soggetto che conosce il mondo è il nodo fondamentale per tutti, doppiamente per ogni scrittore, ma qui Mazzoni ci mette di fronte all’estrema impossibilità di farlo, noi tutti, e lui come scrittore più di tutti.  Firma così il suo testo più nichilista, sempre sull’orlo dell’abisso di una rinuncia radicale – dismissione di scrittura, conoscenza, etica, politica.
Ipotesi di una sconfitta (cito il nuovo romanzo di Giorgio Falco che mi sembra accostabile al libro di Mazzoni in alcune cose) consapevole, più che sublime scontro titanico romantico, perché la Storia è al massimo History (channel).  Più che non tendere a nulla è come se facesse una lucidissima esposizione di un’afasia. La molteplicità sia del punto di vista che dice (in prima persona, in terza o seconda scrive nella nota in apertura, che di fatto è già il primo di una serie di  testi anomali: “a volte la persona di cui si parla coincide con la persona che ha messo la firma sul libro, a volte no”) sia delle soluzioni stilistiche variegate testimonia una ricerca di via d’uscita dal paradosso, una ricerca che si affida ancora ad una scrittura che tuttavia va sottratta ad ogni retorica, tradizione, gergo stilistico. Anche facendo ciò tuttavia, bisogna sapere che la poesia è quell’attività che interessa un gruppo ristretto di persone. Socialmente irrilevante, anche se  questa sua residuale espropriazione di stato  l’autore  la affianca proprio a tutte le altre esperienze. Guido Mazzoni è uno anche un teorico della letteratura, i suoi saggi sulla lirica moderna sono tra le cose migliori scritte negli ultimi anni. È una mente consapevole del fatto che la poesia sia oggi un incendio spento. Circoscritta nei suoi ristretti giri e gerghi, siano essi lirici o sperimentali, si danna del fatto che “il mandato sociale del poeta” (per dirla con le parole di Mazzoni saggista) si è spostato altrove, innanzitutto nel mondo della canzone e del rap. A chi fa poesia, se veramente consapevole, non resterebbe che non farla, anche per non rischiare il manierismo.

A chi fa poesia, se veramente consapevole, non resterebbe che non farla. Oppure collocarla – o cercarla – nello spazio vuoto tra le parole (“che non servono” e “non contano”)  superficie tra superfici. In quel vuoto è il clinamen tra i viventi, anche nel momento del nulla, della morte dell’altro di fronte a noi. È lì la tensione che potrà essere ridetta, dopo la strage delle illusioni, alla fine di un testo  che forse tende a liberarsi da ogni peso retorico, per riappropriarsi della possibilità di dire: “siamo felici di esserci ancora”.

 

*

 

 

Articolo apparso su Robinson, La Repubblica, in forma ridotta.
Guido Mazzoni, La pura superficie, Donzelli editore

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