Anno nuovo, nuovi italiani

 

 

I nuovi ragazzi dell’Europa

di

Francesco Forlani

 

 

 

Quando Fabio Gambaro, direttore dell’Istituto di Cultura, e che conosco da oltre vent’anni mi ha chiesto se mi andava di accompagnarlo al concerto di Gianna Nannini all’Olympia di Parigi nell’aprile di quest’anno quasi non ci potevo credere, per almeno due ragioni. La prima è che ogni volta che entro in quella sala per me risuona la parola Europa e a cantarla, generalmente, vi sono grandi interpreti. Ma l’immagine che forse la rappresenta di più è Jacques Brel, d’origine belga, francese d’adozione, che piange i suoi marinai di Amsterdam, capitale olandese e di Spinoza. Se c’è una cosa che per noi « millenari » ha sempre raccontato l’Europa, oltre a naturalmente Giochi senza frontiere, è l’Eurovisione, capace di unire con note semplici come quelle di Non ho l’età le genti del sud, del nord, a est e ad ovest del vecchio continente. Ma la canzone Ragazzo dell’Europa per chi come noi è andato via da pane e famiglia negli anni novanta è sempre stato l’inno di una libertà desiderata e da realizzare nel tempo. Ecco perché non senza emozione, e con largo anticipo la sera del 22 aprile ero sul Grand Boulevard a fumare una sigaretta e a pensare a un po’ di cose come quella, che si era a un momento prima delle elezioni presidenziali in Francia, e che all’Olympia di Parigi Gianna Nannini avrebbe cantato il ragazzo\ragazza dell’Europa che è in noi e che qualsiasi cosa potesse succedere, avrebbe resistito. L’Europa siamo noi- ricordo di avere pensato.

Nei mesi successivi mi giungeva dal nostro paese l’eco di uno scandalo, il blocco critico ad una legge, detta dello Ius soli che ai muscoli di una vecchia Europa inacidita sostituiva un abbraccio di una mater decisamente mediterranea, ospitale e soprattutto giusta. Eppure la legge non si vota, si ha paura di presentarla in parlamento, di non avere i numeri per farla approvare. Come continuare ad essere “noi ragazzi dell’Europa” senza non dico la vergogna ma l’imbarazzo almeno una volta provato nella nostra vita quando a varcare la soglia della casa familiare fosse stato un amico poco gradito a un parente che di certo non la mandava a dire e a stento diceva buongiorno? L’impasse in cui il mio europeismo si trovava sembrava davvero insuperabile a questo punto se non fosse intervenuto un piccolo fatto, rivelatore di un mondo che di certo avevo intravisto ma mai toccato con mano, provato sulla mia pelle e successo tempo dopo, poche settimane fa, in effetti. E la prima persona a cui l’ho raccontato è stato proprio Fabio. Stessa scena della precedente primavera, stesso giardino, ma ora in un autunno che miracolosamente stava regalando magnifiche giornate assolate, sintomo meteorologico di quella magnifica cosa che qui chiamano Eté indien.

A Fabio racconto del mio nuovo incarico come professore d’italiano in due scuole medie (college) a Dreux e Anet, della fierezza di appartenere con questa missione all’Education Nationale, e insieme a qualche aneddoto picaro che riguarda essenzialmente le soluzioni logistiche da trovare a un problema, il problema che ho, di essere senza patente e dunque senza macchina, rivelo l’arcano. Quando avevo fatto il mio ingresso nel cortile indossavo un vestito chiaro, la cravatta e il cappello. Dal primo piano sento chiaro e forte uno dei ragazzi gridare : ehi, il y a un mariage!! La cosa mi aveva fatto scoppiare in una sonora risata e mio malgrado grazie alla spontaneità del gesto mi ero conquistato almeno l’ala sinistra della palazzina. Mentre le classi si disponevano negli spazi indicati con il nome delle aule, prima uno, poi un gruppo di ragazzi, a seguire tre ragazze m’erano venuti incontro dicendo tutti la stessa frase: io sono italiano! Ne riconoscevo in alcuni l’accento del Nord, l’operoso Nord di Crema o Monza, Bologna o Torino, e in altri della solarità, l’operosa solarità del Centro e del Sud, Brindisi, Palermo, Rieti. Le loro origini si declinavano in nomi di città o paesi che in parte conoscevo ma che per lo più mi erano ignoti per la lingua, per la cultura o per la religione professata. Si chiamavano Duah, Asmaa, Faadi, Dylan, Fatima. Nello strappo che tanti di loro avevano sentito andando via dall’Italia, paese in cui erano nati, per venire a vivere in Francia, la casa dell’origine dei genitori, dei propri avi, era solo un vago miraggio, una ignota silhouette che, fortunatamente aggiungerei, traeva la propria linfa dall’idioma parlato in casa con i propri genitori quando l’italiano, usato intra-muros e durante il corso d’italiano, faceva un passo indietro per lasciare spazio all’arabo, allo swaili, al pakistano.

Quando alla fine del primo corso in una quinta, prima media, una ragazza minuta e dolce dai tratti orientali mi ha sussurrato che era felice perché solo quando sentiva parlare italiano si sentiva a casa, vi confesserò che le avrei regalato tutto, il Colosseo, la Torre di Pisa, dieci cento mille gondole veneziane, tutta la neve delle Alpi e ogni colonna dei templi greci siciliani e campani, il Vesuvio e l’Etna, le isole grandi e piccole, i laghi, i fiumi, nome dopo nome, paesaggio dopo paesaggio, la pizza, sì tutti i tipi di pizza, pizza fritta, pizza pane, pizza al forno o al padellino, salvo poi realizzare, in un tempo fortunatamente rapido, che lei tutte queste cose le aveva già, lei, come gli altri incontrati prima, le sapeva perché lei era italiana. Così, dopo la chiacchierata con il direttore, mi sono limitato a farmi dare da Francesco Scaglione, il mio storico amico bibliotecario, l’affiche che Lorenzo Mattotti aveva realizzato per quelle magnifiche grotte in cui sono custoditi i migliori libri della nostra tradizione, la Italo Calvino.

Nel manifesto il pastello tenue, delicato del nostro più famoso fumettista qui oltralpe, tratteggia la penisola da un’angolatura particolare come in una vista dall’alto a bordo di un velivolo che planasse a pochi metri da terra, su un fianco, mostrando il paese nel suo allungarsi verso altri mondi. Non si scorgono frontiere e, dove il tratto sfuma, lì si sa, che l’Europa, l’orizzonte Europa continua, senza confini, né valichi, senza dogane né blocchi, nel naturale susseguirsi delle stagioni e delle generazioni. Questo numero di Sud celebra i settant’anni dall’ultimo numero della storica rivista diretta da Pasquale Prunas e lo fa pubblicando grazie a Renata Prunas e Giuseppe Catenacci materiali di quello che sarebbe stato il sèguito non seguito dell’avventura ma lo fa anche mettendo in risalto la parola forse tra le più care alla storica redazione di stanza alla Nunziatella: Europa. Come nella canzone di Brel dedicata alla birra, che unisce tutte le capitali europee, de Londres à Berlin, che scorre lungo le strade della vita dei ragazzi di oggi e di ieri, senza fermarsi mai, così la meglio gioventù d’Europa, oggi tenta di fare lo stesso. Allora corri, ragazzo dell’Europa, corri e non fermarti perché nessuno e niente ti fermerà, curre curre guagliò!

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francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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