La linea verticale

di Francesca Fiorletta

“Ho letto il libro e ho visto il film”, come si suole dire. Anzi, ho visto prima il film – che poi sarebbe in realtà una fiction – e poi ho letto il libro. E già questo cela due particolarità, che ne anticipano una terza.

La prima stranezza: io che guardo una fiction. Intera. Otto puntate una di fila all’altra. Su RaiPlay. Niente in contrario, ci mancherebbe, solo che non sono esattamente una fruitrice abituale del prodotto seriale, e anzi credo di essere rimasta una delle poche persone – in Italia e nel mondo – a non aver visto nemmeno quattro minuti in fila di Game Of Thrones, ad esempio. E so cos’è solo perché m’è capitato di sfogliare molti articoli in merito, dalle pagine culturali delle più svariate riviste. Non c’è assolutamente alcuna forma di snobismo in questa precisazione biografica, anzi, c’è semmai lo svelamento di una peculiarità, che potrebbe quasi essere una mancanza, molto personale: ho difficoltà col concetto di continuità. Mi stanco presto, si direbbe. Mi stanco velocemente. Non è tanto la noia che subentra, quanto il più completo e perfetto disinteresse. Io, dopo un po’, nella vita, mi disinteresso di tutto. E quel “po’” spesso dura molto meno di quanto duri una stagione di una fiction, il che costitutivamente, strutturalmente m’impedisce di guardarne, di fruirne con profitto.
Ma torniamo sul tema, e veniamo alla seconda stranezza: anche qui, il dato biografico c’aiuta, perché di solito m’imbatto molto prima nei libri e poi nelle loro eventuali rappresentazioni in altre forme; anzi, a dire il vero spesso rifuggo le altre forme rappresentative delle opere letterarie, temendo grandemente l’effetto delusione cogente. Che molto spesso si verifica.

Il terzo dato, sempre biografico ca va sans dire, è che da ormai sette anni non riesco a confrontarmi col tema del cancro. Il tumore. La malattia degenerativa in generale. O meglio, non ci riesco sulla pagina, non ci riesco su uno schermo, grande o piccolo che sia, non tollero e non desidero avere a che fare con qualsiasi forma di narrazione artistica di questo tema, dal momento che lo vivo quotidianamente nella realtà. In questo, ho diametralmente l’approccio opposto a quello di Mattia Torre.
Mattia Torre, che colpevolmente non conoscevo ancora, ha scritto un libro (La linea verticale, appunto, edito da Baldini&Castoldi) e diretto l’omonima fiction che vanta un ottimo cast e un ottimo attore protagonista, Valerio Mastandrea. La serie, dicevamo, consta di otto puntate per la durata di una mezz’oretta scarsa ciascuna, a inizio anno è andata in onda in anteprima sul portale di RaiPlay e prossimamente sarà trasmessa su RaiTre, ad uso e consumo anche degli spettatori meno tecnologicamente informati.
Ebbene, direte voi, a cosa serviva l’introduzione biografica, addirittura suddivisa in tre punti, per parlare de La linea verticale?
Serviva. E m’è pure costata fatica. Ma serviva, a parer mio, per cominciare a dire che Torre col suo lavoro ha vinto non una bensì tre ataviche resistenze in chi vi scrive, e tutte in un solo colpo, con un’inquadratura netta, con una mezza battuta. Ha vinto contro il disinteresse, la repulsione, il dolore personale. Ha vinto con la brillante semplicità del vero, con un’ironia mai sovraesposta ma sempre salvifica, con la sensibilità “leggera” (se ci capiamo sul senso) che scava gli abissi, senza la retorica del dolore e delle false speranze, puntando tutto su una disillusione che è prima di tutto concettuale, ragionativa, e poi empatica, epidermica.

Torre ci racconta la (sua) storia, l’ingresso in ospedale di un malato di tumore, anzi prima ancora la scoperta fulminea e fulminante che fa un uomo giovane, con una moglie bellissima, una figlia piccola e un bambino in arrivo; ci racconta con spietata naturalezza la dura permanenza in quell’ospedale, che è una tipica clinica italiana, con i medici che si rincorrono giocando a rimpiattino, gli infermieri che vessano gli inservienti, i chirurghi mitizzati che nessuno incontra mai, sono sempre altrove, impegnatissimi, le diagnosi che restano sempre e comunque misteriose, perché “bisogna fare un passo alla volta”. Questo ti ripetono continuamente, nella fiction, nel libro e nella vita. Un passo alla volta. Sempre la stessa storia, uguale per tutti.

La linea verticale è quella a cui mira il protagonista, restare verticale, restare in piedi, e quindi vivo. La passeggiata per arrivare al bar dell’ospedale, per poi comunque non poter ordinare nulla se non un bicchiere d’acqua per sé e “dei caffè” da offrire al personale di reparto: questo è un topos inalienabile, chiunque sia mai stato ricoverato anche solo una volta nella vita, anche solo per una banale tonsillectomia, sa cosa vuol dire, e di cosa stiamo parlando. Quella passeggiata ricurva, lenta, sudata, è la scalata al successo di ogni singolo paziente, l’ascesa al Monte Ventoso per ogni malato che si rispetti, la possibilità di capovolgere finalmente l’orizzonte degli eventi e quello dato dalla sempre scomoda posizione orizzontale del letto di corsia.

Se ve lo state chiedendo, il libro non ci lascia risposte. La fiction, fedelissima direi quasi in tutto e per tutto, men che meno. Il protagonista scopre il cancro, entra in ospedale, viene operato, patisce qualche giorno ministeriale di degenza, viene dimesso. Che ne sarà di lui? Non lo sappiamo. Come non sappiamo molto di più  sul conto degli altri pazienti, suoi compagni di disavventura, anche loro rappresentati magistralmente nelle reali e sempre variopinte tipologie che possiamo incontrare in clinica: il depresso e l’ottimista, l’ipocondriaco e il saputello, il rassegnato e lo speranzoso, tutti danzano un balletto cameratesco, in un clima avvincente da sospensione della realtà, da gita scolastica, da gruppo di auto-aiuto. Possono nascere grandi vicinanze affettive, nei pochi giorni di ricovero coatto; vicinanze che verosimilmente saranno cancellate con un colpo di spugna appena varcata la soglia asfissiante dell’ospedale-nave scuola-girone dell’inferno.

Che cosa resta, allora? In effetti, mi piacerebbe dire che resta la speranza, ma non farei forse un buon servizio alla causa. Resta il dubbio, resta la paura, resta la lotta senza quartiere, resta anche la voglia di arrendersi nei momenti di sconforto, restano le cure sempre discusse e discutibili, resta la smania del prossimo controllo venturo, della prossima operazione, del prossimo verdetto. Resta Mattia Torre in cerca della sua linea verticale. Resta, ancora, la vita.

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3 Commenti

  1. anchio sono insofferente delle fictions e tanto più di Games of throne e giù di lì, non riesco a sopportare neppure i primi minuti forse per le stesse ragioni che abbiamo in comune.
    Per il resto…solo un abbraccio amichevole per quello che ti fa soffrire. saluti cari lucetta Frisa

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