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Anni luce

di Francesca Fiorletta

Ecco, con buona approssimazione ho allora compreso cos’è il tiro completo della vita, l’accumulo, il grano messo via nel corso delle stagioni. “Venticinque anni e sembra ieri”, come dicono i malati di nostalgia, e come ovviamente non dirò io.

“Anni luce”, di Andrea Pomella, esce in questi giorni per Add editore, nella collana Incendi, curata da Fabio Geda. E t’incendia sul serio.

Quell’avverbio, ovviamente, è scritto in corsivo, sembrerebbe lasciato lì en passant, e invece così non è. Ovviamente questo non è un libro di memorie, non è un libro di autofiction, non è una storia completamente fantastica, non è un romanzo generazionale, non è un saggio sulla musica grunge, non è il diario ormai non più segreto perché dato alle stampe dell’autore. 

Andrea Pomella ha scritto centocinquanta pagine di bellezza pura, e il vero grande merito di questo testo, pure molto denso, sfaccettato e composito, è lampante: rendere universale un momento particolare. Non è forse questa, a ben guardare, la vera linfa della letteratura? Non è forse questa l’unica sfida per cui valga sul serio la pena di mettersi in gioco, fuori e dentro la pagina scritta? Ovviamente.

A pensarci bene si tratta di una grande rovina, una delle più grandi che possano toccare un uomo. Io ne ero contagiato e, come dicevo, penso di non esserne ancora del tutto immune.

Qui, dopo quasi una settantina di pagine, siamo ancora sul macro tema: nostalgia. Una nostalgia pungente, smaccata, che non passa, ma che non è un effetto collaterale dovuto a chissà quali esperienze gloriose, bensì un coefficiente endemico della prosa dell’autore, che – da buon autore – non ha paura di dire “io”; “io, io io”, lo ripete anzi continuamente, dall’inizio alla fine della storia, l’io di Pomella non cede il passo di un millimetro, e non lascia respirare il lettore nemmeno per un capoverso. Eppure, non si ha mai la sensazione di un soggetto debordante, mai il fastidio retrivo dovuto alla sovraesposizione della canonica voce guida, mai l’impressione che il nostro stia lì a leccarsi le ferite o a strizzare l’occhio al lettore meno cinico.

L’io di Pomella, come il suo racconto, e l’intera esperienza che si sviscera in queste pagine, è – per l’appunto – una messa in atto universale, una pratica di scavo nella memoria quale capacità innata di ogni singolo essere umano; la sinestesia sempre presente, la commistione dei suoni sgranati che strabordano dall’autoradio col sapore impastato dell’alcol sulla lingua, contribuiscono a rendere più vicini i proverbiali “anni luce”, che sono lontani per antonomasia nel gergo comune, ma qui appaiono invece assai vicini, splendenti e spietati come le migliori comete della giovienzza, chirurgici e focalizzati come i fari stroboscopici del palcoscenico.

Pensai che forse c’era un linguaggio segreto nella mi vita, un mormorio che spiegava il meccanismo degli avvenimenti, l’automatismo che legava i fatti gli uni agli altri attraverso connessioni apparentemente inspiegabili.

Il linguaggio segreto di Andrea Pomella si fa quindi luce chiara, scintillante, nel perfetto e speculare risvolto dei famosissimi versi che canta Eddie Vedder in Black:

All the pictures had
All been washed in black
Tattooed everything
All the love gone bad
Turned my world to black
Tattooed all I see
All that I am
All I’ll be
Yeah

Lunga luce agli Anni luce.

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