A Livingston nessuno fa il bagno

di Carmine De Falco

La guida avvisa “A Livingston nessuno fa il bagno”
Cerchi un’atmosfera da cartolina che non c’è
la sabbia senza colore della costa
è coperta tutta da alghe marroni. Uccelli neri
si nutrono e volano. Comandano appolaiati
persino sulla statua del giurista americano
che bianca di marmo emerge dal mare.

Anche qui qualcuno naviga la rete e comunica
al mondo che “la vita non è solo
una questione di pesche e di creme, e chi può dire
d’aver ricomposto tutti i pezzi del puzzle
nell’ordine esatto se ci resta tra le frasi non dette
quelle domande che cominciano con why”
questo post lanciato da questo angolo lontano
ha il sapore dei messaggi in bottiglia
con l’ingenua speranza che qualcuno li colga.

Lungo la strada dall’imbarcadero al villaggio
un vecchio di colore con una lunga
barba grigio chiara e baffi folti,
scuri ed ispidi dread irregolare
miscela di cenere e tabacco che scende
a grappoli da un cappello da pescatore.
È sorprendente la sua idea d’Italia che somiglia
pressappoco a un’immagine di Sardegna dipinta
da un artista mezzo Michelangelo e mezzo Caravaggio
che srotola pensieri tra Macchiavelli e Galileo.
Su quella salita non lo pensi quanto è strano
sentirsi chiamare italiani con accento garifuna
senza il solito pasta pizza mafia che s’ascolta
dalla bocca per bene e bianca di ogni dove.

Bisogna soprattutto rincorrerla l’atmosfera
tra i passi lenti in queste case baracche
alla fine del Paese centramericano, unico bianco
tra gente di colore, naufragata due secoli fa.
Bisognerà immaginarselo lo spirito
di Marcos Sanchez Diaz che attracca
per primo su questo lembo di terra, adesso
che rivive nelle mani e nei pensieri di quest’uomo
in una lingua in estinzione, che diversifica
a volte le parole in base al genere di chi le dice.

Ma se pensi di ritracciare linee e verticali centenarie
tutto traballa fumoso e impreciso
come questi passi tra viali di terriccio fangoso
e lamiere, i capricci del bimbo che vuole andare
a giocare e rifiutare pasta scotta diluita in brodaglia,
come la parete dei riti woodoo e qualcosa d’ancestrale
che suona sinistro alle orecchie, e lungo il percorso
contorto e disorientante. Ma lo so non dirmelo
che non mi sequestrerai me lo sento, ti ricordo
sorrido e doni di nuovo questo piccolo pezzo del mondo.

___________

* * *

Nota del redattore

Il nuovo poemation di Carmine De Falco conferma le linee della sua poetica, legata a una dimensione lato sensu “civile”, ma supera l’usuale maniera breve o la lassa di prosa in prosa, che spesso l’autore frequenta, e riscopre una forma di altro respiro, che richiama alla lontana il Cesare Pavese di Lavorare stanca, per la contiguità di ripresa di certa aura della poesia americana –pavesiani sono per lo meno la chiusa tematicamente “densa”, staccata e sottolineata dal corsivo (come in Fumatori di carta), e l’andamento sintattico, intonazionale e ritmico del verso lungo, talora senz’altro dattilico-anapestico, con occasionali endecasillabi, alla Mari del Sud (“Anche qui qualcuno naviga la réte e comúnica/al mondo che “la vita non è solo/ úna questióne di pésche e di créme, e chi può dire/ d’avér ricomposto tutti i pézzi del púzzle/ nell’órdine esátto se ci résta tra le frási non détte/ quelle domande che cominciano con why”/ questo post lanciato da questo angolo lontano/ ha il sapore dei messággi in bottíglia/con l’ingénua speránza che qualcúno li cólga…// Ma se pensi di ritracciare linee e verticali centenarie/ tutto traballa fumoso e impreciso/ come questi passi tra viali di terriccio fangoso/ e lamiere, i capricci del bimbo che vuole andare/ a giocare e rifiutare pasta scotta diluita in brodaglia,/ come la parete dei riti woodoo e qualcosa d’ancestrale/che suona sinistro alle orecchie, e lungo il percorso/ contorto e disorientante.// Ma lo so non dirmelo/ che non mi sequestrerai me lo sento, ti ricordo/ sorrido e doni di nuovo questo piccolo pezzo del mondo.”) per quanto un simile ritmo sia presente anche nel verso lungo à la Fortini e in molta poesia gemmata dalle neo-avanguardie, e possa essere riemerso per semplice intersezione fra rimando ipogrammatico e tendenze spontanee della lingua –un cliname però lucidamente assecondato dall’autore. Ritornando a tempi più vicini, e forse meno impopolari nella ristretta audience poetica attuale, lo sfondo meso-americano evoca gli influssi della poesia di un Walcott; per converso, di ritorno dal Guatemala alle nostre plaghe, il titolo e il primo verso, con la prescrizione da guida turistica “A Livingston nessuno fa il bagno”, rimandano con ironia al mare che per annamariaortesiana memoria non bagna Napoli. Sembra forse un lavoro ingeneroso di deminutio dell’originalità del poeta, questa ricerca di fonti improvvisa (lasciando stare che dopo svariati millenni di letteratura sarebbe il caso di deporre la superstizione dell’originalità); ingeneroso parrà anche il rimando a coordinate che non si riallacciano al piccolo gotha semi-occulto della poesia americana o francese odierna a cui molta poesia italiana riguarda. In realtà la scelta di ravvisare qui presenze di memorie letterarie quasi scontate, da infanzia del lettore, nasce dalla nostra volontà di sottolineare una precisa cifra del testo, l’intenzione comunicativa di condurre per mano l’eventuale fruitore, tramite chiavi di lettura evidenti e di percezione banale, alla straniamento di un esotismo à rebours, in cui oggetto di vagheggiamento, per il suo effetto alone sullo straniero, è la cultura di provenienza dell’autore. L’io narrante di questo blocco narrativo di versi è portatore in sé di una tendenza che nella sua dimensione nazional-popolare associa la remota esoticità centroamericana a determinati paesaggi e memorie. Il poemation comincia invece a evocare un’“atmosfera da cartolina che non c’è”, di cui si tingono i luoghi esotici, quando fisicamente ci si immerge in essi. La cartolina (postale) è poi simbolo derridiano della presunta catena di assenze e messaggi non pervenuti che si incontrano nella fruizione della scrittura, talché l’incipit si delinea all’istante come momento di rottura del sonno e del sogno esotico, come un brusco risveglio in presa diretta e in presa di coscienza. Nella sequenza di Realien che si presentano alla telecamera del linguaggio un forte peso ha inoltre il cromatismo. L’immaginario di massa associa all’America latina il sentore sinestetico di un tripudio di colori accecanti; il quadro incipitario di questi versi vira al seppia e al bianco e nero: sabbia senza colore, alghe marroni, statua di marmo bianca, nella divina indifferenza, o meglio, insussistenza del diritto, ma soprattutto uccelli neri (come in fuga da inopinate e intempestive gabbie d’Ottocento) a dominare ogni cosa (soprattutto la statua e il simbolo dell’insussistente diritto), con ominosi raffi di corvi necrofagi. In questa sordina cromatica ed esistenziale le lasse del poemetto seguono un movimento alterno: è da notarsi l’opposizione fra il secondo blocco di otto versi, centrato sul post lanciato in internet quasi messaggio in bottiglia come da un’isola persa senza tesori, perché lo scrigno si è scoperto vuoto, dopo un vano navigare virtuale, stante l’appena evocata obliterazione del mare e del navigare concreto, e la chiusa, con il suo ipermoderno sfumare delle “verticali centenarie”, fra lamiere da favela, e sciamanismo woodoo (anch’esso oblato al linguaggio ordinario dell’immaginario ordinario). Le due lasse in opposizione identificano due dimensioni opposte, da verticale urbana terzomondista alla Dos Santos: la rete telematica e la sua seconda navigazione tecnologica contro la baraccopoli animata da ritualismi residuali e residuati. Le due lasse incorniciano il centro tematico della poesia: la figura del vecchio di colore, con il suo immaginario dell’Italia, non più pizza/pasta/mafia, secondo il pregiudizio della “lingua per bene e bianca”, bensì Sardegna dipinta da un artista mezzo Michelangelo mezzo Caravaggio, che srotola pensieri fra Machiavelli e Galileo, il tutto espresso in lingua garifuna, in quel dialetto arawak, patrimonio mondiale di tradizioni orali e linguistico melting pot, che l’immaginario per bene e bianco non conosce e non riconosce. Al centro del testo campeggia un incrocio di immaginazioni riorientate, che l’ironia ha depurato dell’ovvietà dell’immaginario di consumo. “Questo piccolo pezzo di mondo” (l’Italia come il Guatemala), le singole identità depurate dalle scorie dell’orizzonte d’attesa gregario, viene ridonato all’essere evocando, in uno stile dominato da nitido monolinguismo, le risonanze di una parlata borderline ed estrema, intraducibile e irreplicabile e tanto più attigua alla verità della cosa. Si rivela così l’intento pragmatico dei versi che abbiamo sotto gli occhi: la polarità delle forme di esistenza evocate è tramata dall’antitesi fra globalizzazione del rifiuto di ciò che non si omologa e non è omologabile a nessun patto (lingue e culture creolizzate, linguaggi laterali –come la stessa poesia), e ricostituzione del sé nell’incontro come forma aperta che ha bisogno dell’altro da sé per riconoscersi in positivo, pena la conferma del pregiudizio e l’irrigidimento. Siamo perciò di fronte a un testo raro e prezioso, che pone in modo immediato e destabilizzante il problema dell’identità (degli individui, delle culture, dei luoghi, dei mondi) nel contesto di una rete di comando planetaria disgregata, che ha ben provveduto dal canto suo a mescolare nell’assurdo il piattume notturno del pensiero unico, in cui tutti i colori identitari restano grigi, e l’aberrazione delle identità impazzite ma omologate nella loro pazzia, in cui tutte le visioni politiche tornano nere.

D. V.

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Daniele Ventre (Napoli, 19 maggio 1974) insegna lingue classiche nei licei ed è autore di una traduzione isometra dell'Iliade, pubblicata nel 2010 per i tipi della casa editrice Mesogea (Messina).
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