I vocabolari

di Orso Tosco

C’è un segreto. Io l’ho capito non uscendo mai di casa e guardando le persone dalla finestra. È un segreto importante e forse non lo meritate, ma ho deciso di dirvelo lo stesso. Magari migliorate, magari. Il segreto è che muore soltanto chi si sforza. Muoiono i muli, come muoiono i ponti e come muoiono le idee, perché provano a reggere il peso del mondo, e dopo un po’ di tempo si spezzano e allora crollano in terra e non si alzano più. Muoiono le persone come muore la memoria, come muoiono i contenitori, a furia di voler tenere tutto assieme, a portata di mano, tutto classificato, finisce che si ritrovano senza più energia e allora si lasciano interrare in silenzio, per la vergogna e la stanchezza.

Io e la mamma non ci sforziamo mai, siamo saggi come le nuvole, siamo saggi come le macchie: dove ci troviamo, stiamo, dove ci spostano, andiamo: per questo non moriremo mai. L’ha detto un tedesco, una volta. La vita è un ripiego. Così ha detto. A me e alla mamma basta guardare la vita degli altri, per vivere. La vivano loro, la vita, la vivano loro, la morte. Io e la mamma non usciamo mai di casa.

E li guardiamo. Il vecchio dai capelli gialli stringe il bocchino della sigaretta con i denti. Ha le mani aggrappate ai fianchi, i gomiti larghi, la pancia protesa in fuori. Osserva il cortile che si estende sotto di lui sporgendosi dalla ringhiera dell’ultimo piano, il suo sguardo scorre come un nastro trasportatore, e lui gli permette di spostarsi con fermezza e precisione da un dettaglio all’altro, senza intoppi e senza mutazioni di ritmo: ci sono appartamenti talmente illuminati che è possibile studiare ciò che gli abitanti fanno al loro interno – secondo il vecchio dai capelli gialli fanno tutti le stesse cose, cose necessari e banali che lui ha già fatto e che ha già fatto meglio – riesce persino a valutare il peso delle bici legate alle ringhiere, individuando la lega di metalli di cui sono composti i telai, poi sposta lo sguardo verso il basso, verso i vasi, e immagina l’odore delle piante appassite e di quelle rigogliose, avverte in bocca l’acidità dei terricci e l’eccessiva stagnazione delle acque. “Si crede padrone del mondo”. Questo dice di lui la mamma, ma soltanto quando lui è lontano o invisibile. La mamma ha sempre ragione, la ragione non si dà agli scemi, la ragione si dà alla mamma.

Il vecchio dai capelli gialli è felice di credersi il re del mondo, specialmente la notte, quando il cortile interno è deserto e ci sono giusto i sorci che lavorano, ma piano piano, in punta di zampa, coi baffi, nell’ombra. È più facile credersi re del mondo se nessuno fa rumore o si agita, ed è più facile essere felici. L’uomo dai capelli gialli ogni notte riafferma il proprio dominio sul mondo e per questo è felice. Lo si capisce dal modo in cui sputa il fumo della sigaretta, pronunciando lente bestemmie e ingiurie, che nella sua bocca sono dolci come cioccolata. Ma se lui è felice perché convinto di essere solitario e regale mentre contempla il proprio regno, io, che lo osservo e lo studio e lo capisco, io allora sono ancora più felice: io allora sono ancora più re di lui.

La vita trascorsa sempre chiusi in casa è uno zoo. Bisogna rispettare la flora e la fauna. Nessuno ti spiega chi è il cacciatore e chi la preda, sono cose che bisogna sapere, ci vuole intuito per non uscire mai di casa. Nell’appartamento quasi buio mi sposto con grande armonia. Il frigo gracchia, allora striscio il piede contro la moquette lasciando che il calzino mollo mi segua in ritardo, come la bava di una lumaca. Il lavabo della cucina perde, riempie la cucina lercia di un rumore da cascata in miniatura, e io succhio le guance all’indentro, come un pesce. Se sbatto contro i mobili o i sacchi della spazzatura, li faccio miagolare, li faccio cinguettare, trasformo il compensato e le lattine in gatti e uccellini. Riconosco gli oggetti sfiorandoli o calpestandoli coi piedi.

Sento il profumo del disordine sedimentato, del disordine quando viene lasciato in pace, a macerare. Sopra il mandarino iniziato e mai finito cresce una peluria scura, corta e morbida: se avessi un cugino avvocato o un amico bravo a giocare a scacchi, quella sarebbe la sua barba. Nel barattolo di yogurt vive una piccola foresta dominata da funghi e muschio neri. Chi ha paura del buio è complice della luce accecante, della luce degli ospedali, io invece sono pronto per i fondali del mare, per i posti profondi, nascosti sotto le isole remote. Dormo durante il giorno. È il mio modo di perdonare il mondo per il vizio che ha di sprecarsi nella confusione, in piena luce.

Le sirene blu della polizia, filtrate e deformate dai vetri dell’ingresso principale, sbocciano improvvise sui muri interni del cortile, sono piante rampicanti, coralli di ghiaccio. Gli uomini in divisa arrivano, come sempre, come quasi ogni notte, quando le urla sono finite. Indossano guanti adatti a indagare il silenzio che segue il rumore degli oggetti fratturati e del sangue colato. Non si fanno scrupoli a giudicare ciò che resta della violenza realizzata o di quella promessa e poi fallita, o soltanto rimandata. Poco dopo, immancabilmente, arriva l’ambulanza ad appiccicare altre luci sui muri, a disegnare righe in terra con le ruote delle barelle: gli infermieri sono uomini e donne di passaggio, si vestono di bianco. I nostri vicini si scopano come conigli e si scannano come cani, questa è la spiegazione della mamma, e io, più di una volta, avrei voluto domandarle se le due cose le fanno assieme, se è roba che si può fare tutta assieme, ma ho sempre mancato il momento giusto. Non ho mira col tempismo delle frasi, per questo parlo poco, per questo non parlo mai. E proprio adesso che vorrei domandarlo, adesso che mi sento pronto, la mamma continua a dormire, ha molta fame di riposo.

Quando scaldo il brodo affiorano graziosi dischi di grasso che somigliano a ufo in miniatura, sono puliti, eleganti, al tempo stesso bianchi e gialli, come il burro. Io il brodo lo bevo direttamente dalla pentola. Mi brucio di proposito la bocca perché voglio gli occhi bagnati, perché voglio dedicare questo pianto breve al tempo, al tempo vuoto e indifferente, crudele, che non smette di passare. Io ci tengo a vendicarmi con affetto, come i felini, che dopo lunghi e faticosi inseguimenti invece di sfogarsi contro la preda acciuffata con pugni e sputi, la infilano in bocca, trovano spazio tra i propri denti, e poi in gola, e poi ancora più dentro, in un abbraccio nascosto e lungo che dura fino alle budella, e magari ancora di più. Il brodo cura, l’acqua del brodo è come un olio di mucca, come una spremuta di bestie che invece di vivere lassù, nel verde dei prati, hanno fatto un sacrificio per noi. Per me e la mamma. E noi ricambiamo la loro generosità andando ghiotti di brodo. E poi il brodo dura, va avanti giorni e giorni, basta levare la membrana che si forma durante il giorno, basta sbucciarlo, il brodo, oppure basta farci dei buchi dentro, quando va a male, come fanno gli eschimesi per pescare nel ghiaccio. Io lo do alla mamma, lei ha bisogno di essere curata perché ha la malattia degli anni, l’accumulo, l’indigestione degli anni, e io invece ho bisogno di lei, ho bisogno che lei duri. Quando è troppo stanca per mangiare e preferisce continuare a dormire, io allora lo bevo anche per lei, il brodo. Mi sforzo di berne più di quanto me ne serva, e le sto vicino, bruciandomi la bocca e la gola, sudando, affinché il mio sforzo, come di rimbalzo, di carambola, si traduca in cibo per lei, in uno spuntino almeno, per farla durare ancora, ancora un po’ di più.

Bambino intrappolato dentro il corpo di un adulto ritardato. Ti puzza l’alito anche quando tieni la testa sott’acqua. Cuore di blatta. Bestia senza la coda. Sei un ergastolo con i piedi.

Questi sono alcuni dei complimenti che mi fa mamma quando non è impegnata a dormire con la faccia premuta nello stomaco del divano sfondato. E quando si complimenta con me la mamma prova a darmi degli schiaffi, però senza mai riuscire a colpirmi come si deve, perché è vecchia, è stanca, e i suoi pugni dati nel vuoto sono carezze: sono le carezze di chi non avendone mai ricevute non ne conosce l’alfabeto.

Io invece, studiando la notte del cortile, osservando attentamente le persone gli animali e gli oggetti che la popolano, io conosco l’alfabeto delle carezze, io pratico la giurisprudenza del cortile interno, io so i vocabolari del mondo. Mi basta leggere o ascoltare una parola per sapere tutto di lei, per avere notizie dei suoi genitori, dei suoi piatti preferiti, tutto sulle lettere che per esistere è stata costretta a tradire. Tutto.

Una parola molto bella tra quelle dei vocabolari del mondo, secondo me, è miseria. Perché la miseria è profonda come una vasca, spaziosa come la gola di una balena, come un pozzo. Io e la mamma la nostra miseria la spendiamo senza sosta e senza remore, con la generosità di un fiume, che si chiama Volga o si chiama Danubio: la diamo a chiunque la desideri, la nostra miseria, la regaliamo per aria come un profumo forte.

Un’altra parola molto bella che ho trovato nei vocabolari del mondo è rapina.

La parola gonorrea per chi non esce mai di casa è come andare a raccogliere le more nel bosco, la dici in bocca e senti la bacca staccarsi, e sai che dopo arriva un bel gusto dietro la lingua.

Come parola, è bella anche alambicco, perché è una parola che sa di scogliera e di animali coperti dal guscio, una parola che di sicuro alleva al proprio interno ostriche e perle grosse come acini d’uva.

Io mi faccio la barba in corridoio, ripetendomi nella testa le parole che vivono dentro i vocabolari del mondo. E ci sono volte che le ripeto talmente bene che dagli altri appartamenti arrivano dei rumori forti, come a dirmi di continuare, di non smettere. Fanno i grugniti i vicini, ruttano i sospiri e bestemmiano le minacce: per incitarmi. Però io dopo un certo periodo di tempo non ho più barba da tagliare, è tutta per terra la barba, e allora devo smettere anche con le parole nella testa. Perché è una questione di correttezza. I vocaboli del mondo vanno esercitati poco alla volta, bisogna accettarli e fraintenderli a piccole dosi, pelo dopo pelo. Una volta che anche i baffi sono andati allora bisogna fermarsi e strizzare gli occhi con gratitudine, come fanno i ratti, come fanno i castori.

Ma anche palude e ghigliottina sono belle parole, anche budella e clistere, anche rigagnolo e uranio, anche vescica e balcone.

C’è grande soddisfazione, lo ammetto. C’è grande soddisfazione nell’aspettare che mamma si svegli. Perché è grazie alla mia paziente attesa che intere valli ospitano vigne e piantagioni, perché è grazie alle mie giornate trascorse rannicchiato sul pavimento che i minerali, superati i loro momenti di razzismo, si uniscono a formare catene montuose sulle quali le capre dalle lunghe corna possono vivere le proprie faccende private.

E se un giorno la mamma non dovesse più svegliarsi, senza dire nulla io aprirò la porta di casa e mi lancerò dal balcone: cadrò nell’aria e mi trasformerò in una divinità azteca, in un gas solido o in un grumo di piume. Qualsiasi parola andrà bene.

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davide orecchio
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Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012). Provo a leggere i testi inviati, e se mi piacciono li pubblico, ma non sono in grado di rispondere a tutti. Perciò, mi raccomando, non offendetevi. Del resto il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e assolutamente non professionale. d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com Questo è il mio sito.
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