What’s in a name? Romeo, Giulietta, Proust e l’insurrezione dei nomi

di Jamila Mascat

Nella famosa “scena del balcone”, quella in cui Giulietta supplica Romeo di rinnegare per amore i propri natali, l’appassionata protagonista della tragedia di Shakespeare, interroga il valore dei nomi: “Oh Romeo Romeo, perché sei tu Romeo!? Rinnega tuo padre, rifiuta il tuo nome, o se non vuoi, giura che mi ami e non sarò più una Capuleti. Solo il tuo nome è mio nemico: tu sei tu”. Del resto, prosegue fiduciosa Giulietta, “Che vuol dire ‘Montecchi’? – “Non è una mano, né un piede, né un braccio, né un viso, nulla di ciò che forma un corpo”. E “Che cos’è un nome?” se in fondo “quella che chiamiamo ‘rosa’ anche con un altro nome avrebbe il suo profumo”? Da cui l’implorazione reiterata all’amato: “Rinuncia al tuo nome, Romeo, e per quel nome che non è parte di te, prendi me stessa”.

Artificio, convenzione, costrutto fonetico evanescente, “designatore rigido” privo di senso secondo il logico Saul Kripke – e contrariamente a quel che sostengono Frege, Russell e i paladini delle teorie descrittiviste – il nome per la romantica eroina di Shakespeare non intacca né significa ciò che nomina. Nomen non est omen, direbbe dunque Giulietta, d’accordo con John Stuart Mill – il cui System of Logic (1843) fu per Kripke fonte d’ispirazione – nell’affermare che i nomi propri non sono connotativi, cioè non dipendono dagli attributi dei soggetti/oggetti a cui si riferiscono. Infatti, quand’anche fosse necessario ammettere, con Mill, che “dobbiamo aver avuto qualche ragione per dare […] questi nomi invece di altri”, sarebbe altrettanto necessario riconoscere che “il nome, una volta dato, è indipendente dalla ragione” e che “un uomo può essere chiamato ‘John’ perché quello era il nome di suo padre; una città può essere chiamata ‘Dartmouth’ perché è situata alla foce del fiume Dart”, ma al tempo stesso “non è parte del significato della parola ‘John’ che il padre della persona così chiamata aveva lo stesso nome; né che la parola ‘Dartmouth’ sia situata alla foce del Dart”.

Tuttavia, se accettiamo l’ipotesi di Giulietta, secondo cui il nome denomina ma non determina, che cosa resta della valenza biblica della nominazione o, per dirla con Hélène Cixous, di quella “sovradeterminazione significante” implicita nell’atto di nominare che fa del nome “una forma di lavoro segreto” e accomuna battesimo e rivoluzione?

Non è un caso che le rivoluzioni di tutti i tempi, dalla Rivoluzione francese a quella d’Ottobre passando per Haiti, abbiano ribattezzato con nomi propri lo spazio e il tempo, reinventando mappe e calendari. A conferma della pregnanza creatrice e insurrezionale del nome, di cui si tratta di smentire la valenza puramente metafisico-derivativa, con buona pace di Dante per cui (Vita Nova, XIII, 4) “li nomi seguitino le cose nominate, sì come è scritto ‘Nomina sunt consequentia rerum’”, per coglierne invece l’esuberanza visionaria.

Proust, inventore nella Recherche di memorabili toponimi, uno per tutti quello dell’inesistente cittadina di Balbec, la cui altrettanto finta etimologia viene illustrata lungamente nelle pagine di Sodoma e Gomorra, ci aiuta in questa impresa. Nell’ultimo capitolo del primo dei sette volumi che compongono la sua opera – Du côté de chez Swann – il giovane Marcel discetta del potere evocativo dei nomi propri di città, città sognate, agognate e mai viste. Per risvegliare quei sogni, spiega Proust, “bastava pronunciare quei nomi: Balbec, Venezia, Firenze, dentro i quali aveva finito per accumularsi il destino ch’essi designavano”. Balbec, ancora una volta, non richiama soltanto la visione di spiagge normanne battute dall’acqua e dal vento, ma ridesta il desiderio vivo di architetture gotiche e tempeste sul mare. Il suo nome – per Marcel un composto di “sillabe eteroclite” – è desiderio.

Ma cosa direbbe Proust della toponomastica coloniale che popola la sua Parigi, di quei toponimi che non desiderano né sognano e piuttosto perpetuano il passato che fu, celebrando i carnefici – ministri e avventurieri, intellettuali e imprenditori, banchieri e militari – dell’impero francese? Sono oltre duecento le rues, places, e avenues della capitale e dintorni battezzate in memoria della grandeur coloniale che vengono rintracciate e raccontate nel volume curato da Didier Epsztajn et Patrick Silberstein, Guide du Paris colonial et des banlieuespubblicato recentemente in Francia da Syllepse. Gli autori hanno deciso di “far parlare i muri”, e in particolare le inconfondibili plaques de rue in bianco e in blu ovunque inchiodate al muro, perché confessassero i crimini celati nei nomi dei criminali a cui rendono omaggio. Come già Roma negata (Ediesse, 2014), il libro scritto da Igiaba Scego e illustrato dalle fotografie di Rino Bianchi, la guida parigina nomina, e dunque evoca, i tormenti malsopiti della memoria coloniale. Ribattezzare quei luoghi segnati, proprio nel nome, da trascorsi secolari di torture, eccidi e massacri, di certo non servirebbe a riparare né riscattare la storia: Roma non potrebbe cavarsela come Romeo onorando gli auspici di Giulietta. Ma se invece, ribaltando Dante, i nomi non fossero consequentia bensì causa rerum, una piazza Omar Al-Mukhtar, dedicata al “leone del deserto”, il guerrigliero che fu per quasi un ventennio alla guida della resistenza libica contro la dominazione italiana, risveglierebbe tra le sillabe eteroclite del nome, come suggerisce Proust, il desiderio di tutt’altra storia. Ai nomi, finalmente, il compito di insorgere per dire storie interdette e nominare passioni impensate.

[Questo articolo è stato pubblicato sul supplemento di aprile dell’Indice dei Libri del Mese dedicato al Festival delle donne e dei saperi di genere di Bari con il titolo “Far parlare i muri”]

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jamila mascat
jamila mascat
Jamila M.H. Mascat vive a Parigi e insegna presso il dipartimento di Cultural Studies dell'Università di Utrecht, in Olanda. Si occupa di filosofia politica e teoretica, marxismo contemporaneo, critica postcoloniale e teorie femministe. Nel 2011 ha pubblicato Hegel a Jena. La critica dell'astrazione. Ha co-curato Femministe a parole (2012); G.W.F. Hegel, Il bisogno di filosofia. 1801-1804 (2014); M. Tronti, Il demone della politica (2017); Hegel & Sons. Filosofie del riconoscimento (2019); The Object of Comedy. Philosophies and Performances (2020); A. Kuliscioff, The Monopoly of Man (2021).
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