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Notturno salentino

di Federica de Paolis

Una masseria in Salento, una festa, estate. Una Puglia arsa dal sole, meravigliosa e impenetrabile,
colonizzata da ricchi milanesi e romani e dalle loro case di villeggiatura, abitata da personaggi astuti e
imprevedibili.
Appena edito da Mondadori, “Notturno salentino”, il nuovo romanzo di Federica De Paolis. Di seguito un estratto.

Ero ferma sotto al patio, il sole filtrava tra gli ulivi, e nonostante l’estate incandescente del Salento tra le foglie frusciava un’aria azzurra. La mano mi tremava. Per quanto non si trattasse di un vero e proprio furto, se Antonio Locandido mi avesse visto intascarmi il suo cellulare sarei morta di vergogna. Immobile, osservavo la porta chiusa della camera di Cynthia, la nostra tata nigeriana che da due anni viveva con noi a Roma, stipata in una stanza di sei metri quadri nella quale snocciolava le sue ore libere guardando il soffitto. Ora era chiusa nella sua camera con Antonio: aveva cominciato a flirtare con il ragazzo salentino da qualche settimana; lui era il fabbro che stava costruendo il cancelletto della nostra casa, un bamboccio di una trentina d’anni, un metro e ottanta di testosterone che girava con un pastore tedesco, osservando il mondo femminile come se potesse succhiarlo e sputarlo in un solo colpo. Ero ferma davanti alla porta, e come un cecchino guardavo il cellulare di lui poggiato sul tavolo nel patio: bastava fare due passi, allungare la mano e appropriarmene; per scherzo, per vendetta.

Antonio aveva la faccia tosta di lasciare il telefono in bella vista ogni volta che si chiudeva in camera di Cynthia: non voleva essere disturbato mentre faceva l’amore, lasciava un testimone chiaro della sua presenza. Marcava il territorio. Come se non bastasse, aveva l’ardire di fare il cascamorto anche con me – “Signora che gambe longhe… bastano tre passi che arrivi allu paese!” mi aveva detto un giorno. Rideva, rideva sempre, mentre i suoi affilati occhi neri si insinuavano nel corpo delle donne. Non era stupido, sapeva fin dove poteva spingersi. Con me si limitava alle battute, ma con Klara, la giovane polacca che mi stava aiutando a sistemare la casa in cambio della vacanza, si era spinto ben oltre. L’aveva invitata fuori il quarto giorno che eravamo arrivate nella casa di villeggiatura, una cena in piena regola che però aveva deluso le aspettative della ragazza. Lei era tornata lamentandosi che Antonio era fidanzato, la voleva scopare e basta. Klara era cattolica, nevrotica, bionda platino e intransigente: il contrario di Cynthia, una suadente ventottenne con un corpo mozzafiato, morbida di gesti e di animo, che galleggiava i giorni cantilenando le sue nenie africane. Antonio e Cynthia si erano avvistati da subito, mentre lui lavorava nel giardino: erano sguardi precisi e sessuati, e Antonio non si era neanche scomodato a invitarla fuori. Dopo settantadue ore di adocchiamenti aveva cominciato ad avvicinarsi, era salito sul terrazzino della sua stanza; due battute erano bastate a farlo scavalcare, entrare nella sua camera e dentro di lei. Mi domandavo se la natura degli avvicinamenti avesse a che fare con la disponibilità di Cynthia, oppure con il fatto che fosse di colore. Questo pensiero mi dava ai nervi: in Salento percepivo un pregiudizio razziale molto forte, che veniva accentuato ulteriormente dalla presenza di Klara, una filo nazista con il mito di Hitler. Le sue idee politiche echeggiavano nel suo impeccabile italiano con scelte mirate, i froci, i negri, quei bastardi degli ebrei.  Girava alla larga da Cynthia e se era nella stessa stanza la ignorava; all’inizio della vacanza, con aria complice, mi aveva detto: «Non senti un odore strano?» Sapevo che si riferiva alla pelle di Cynthia e la battuta era stata l’occasione per mettere le cose in chiaro. «Klara, il tuo orientamento politico non mi riguarda, sono fatti tuoi, ma qui non voglio storie, ci siamo capite?»

Lei aveva assentito, guardandomi con i suoi occhi acquamarina bistrati dall’eyeliner; taceva poiché non era nella posizione di potersi ribellare.

Se Klara si fosse accorta che Cynthia e Antonio avevano iniziato a frequentarsi, probabilmente avrebbe aggredito Cynthia, forse sarebbe addirittura andata via, e io avevo bisogno di lei. Non mi sentivo nelle condizioni di poter sindacare il comportamento di Antonio, i suoi giochetti da playboy, tanto meno discettare con Cynthia sull’incontro con il ragazzo, ma ero arrabbiata. Sottrargli il cellulare mi dava la sensazione di parlare la loro lingua. Non avrei detto nulla, solo fatto sparire il telefono, per sancire il mio potere. Forse, però, lui avrebbe potuto pensare che a farlo fosse stata Klara. Era un rischio da correre: volevo allontanare Antonio, volevo punirlo. Soprattutto perché ora Cynthia era cambiata, distratta e turbata dalle effusioni del ragazzo, che intimamente le invidiavo.

Provavo una profonda gratitudine per quella donna che viveva con me e si occupava della mia economia domestica e affettiva, amando i miei figli in modo incondizionato. Nelle sere in cui restavamo sole, anche a Roma, si creava una profonda complicità femminile: lei lavava i piatti mentre io fumavo una sigaretta appollaiata accanto alla finestra della cucina, e mi raccontava le incredibili storie della sua famiglia. Era cresciuta in un paesino nigeriano vicino Benin City, e i genitori erano stati uccisi dalla vita: la madre partorendo l’ultimo figlio, in bagno (aveva quarantatre anni) mentre il padre si era lasciato morire, smettendo semplicemente di bere, mangiare, sognare. Lei era la più grande di sette fratelli: vivevano in una casa di paglia e calcestruzzo, i genitori e i nonni erano seppelliti sotto il pavimento, i morti dovevano restare vicini, erano spiriti benevoli, angeli del sottosuolo. Le storie di Cynthia ridimensionavano, al confronto, la depressione borghese di dover crescere due bambini – Marta e Tito – che erano così piccoli, senza parole, solo intesa: gorgoglii, pannolini e ninne nanne.

Avevo appena perso mia madre, dopo un cancro sfiancante che l’aveva ridotta uno scheletro, il cervello tempestato da metastasi che occupavano i suoi pensieri un tempo così cristallini. Era stata una grande psicanalista. Il tumore aveva colpito il suo organo principe: una nemesi, uno scherzo del destino. Cynthia si era presa cura anche del mio lutto fresco: mi portava una camomilla a letto, chiudeva la porta salutandomi con la sua manina d’ebano: «Buonanotte Ma’, riposa bene che domani bimbi vogliono te.» Quell’estate finiva il primo anno di lutto, e Cynthia mi aveva “curata” per dodici mesi: parole, gesti, piccoli pensieri; adesso era chiusa in camera con Antonio, e aveva smesso di parlarmi. Si era trasformata in un’ombra come quando Boris tornava dai suoi viaggi: si sfilava in punta di piedi dalle nostre consuetudini, lasciava il posto a lui, lo chiamava signore. Eppure ora lui non c’era e lei mi ignorava: era partito, lasciandomi con due bambini piccoli, una casa appena comprata da sistemare, il cuore rotto per la sua ennesima assenza, e Cynthia era risucchiata dal suo flirt, dagli andirivieni occasionali di Locandido.

Se gli avessi preso il cellulare, se lo avessi buttato in un campo, per un po’ non avrebbero potuto comunicare, avrei reso meno facili i loro incontri, liberato la mente da quella storia che stava diventando un’ossessione. L’assenza di Boris mi spingeva a concentrarmi su di loro: sentivo la sua voce ronzarmi nell’orecchio e rimproverarmi ogni volta che avanzavo verso il telefono fino a sfiorarlo. Posavo la mano sullo screen-saver che si illuminava, sorprendendomi: sopra c’era una foto di Antonio in piedi accanto al suo cane, Zinzulusa. Tutti e due fissavano l’obiettivo, fissavano me. Gli occhi di Antonio mi facevano paura, una paura inspiegabile che mi assaliva anche di notte, in giardino.

Quando avevo acquistato la casa in Salento, l’avevo fatto con l’intento di ritrovare un briciolo di entusiasmo e scrollarmi di dosso quelle meteore di tristezza che mi avevano ingrigito la pelle, sbiancato la radice dei capelli, risucchiato il corpo. Sognavo che quella casetta imprigionata negli ulivi e nel canto delle cicale potesse rappresentare una rinascita coniugale per me e Boris: mentre i piccoli scorrazzavano liberi nel grande giardino e Cynthia li seguiva lisciando le sue trecce di nylon io e Boris – pensavo – avremmo ritrovato la nostra intimità. Invece lui era ripartito per l’ennesima volta. E al suo posto, accanto a me, si erano sistemate la paura, la solitudine, l’alienazione: occupavo le mie giornate a controllare Antonio e Cynthia.

Boris organizzava tour musicali in Asia, i suoi appuntamenti coincidevano con momenti cruciali dell’anno, Natale, Pasqua, Agosto: era sempre tempo di concerti. Ero furiosa con lui. Anche grazie all’eredità di mia madre avrebbe potuto tranquillamente rinunciare a qualche tour, e invece avevo la sensazione costante che mi sfuggisse. Non che mettesse il lavoro prima della famiglia, no: una sensazione più dolorosa. Come se avesse bisogno di partire costantemente per ossigenarsi, tirare il fiato.

Le sue fughe mi rabbuiavano, dall’inizio della nostra storia. In principio, lavoravo per una società che si chiamava Il Pensiero scientifico: correggevo bozze di manuali di medicina, non era un lavoro straordinario ma mi garantiva un’autonomia economica e mi mischiava alla vita: l’ufficio, i colleghi, le uscite di casa. Poi, con la nascita dei bambini, avevamo deciso che avrei potuto abbandonare il lavoro. Boris aveva insistito. Le sue assenze erano divenute più frequenti e insopportabili. Lui mi colpevolizzava, diceva che mi comportavo come una bambina, che il nostro amore era di cemento; ma la sua malta non mi bastava. Spesso, anche quando era presente, era capace di nebulizzarsi: ore con gli occhi nel telefono o immersi nelle serie televisive (l’oppio del XXI secolo), nel bombardamento telematico delle notizie online, mai abbastanza su di me. Quell’estate – più di sempre – mi sembrava stesse mancando l’appuntamento con la nostra relazione, sfuggendo alla riconquista di noi stessi. E mi ero ritrovata sola, con due donne di servizio che si detestavano, l’elaborazione del lutto, i miei figli imbizzarriti per l’assenza del padre, la paura e le notti insonni con le orecchie tese a cogliere ogni minima mossa di Locandido: il suo arrivo in bicicletta, i passi mischiati a quelli del suo pastore tedesco, il sassolino che batteva sul vetro di Cynthia. Mi affacciavo alla finestra per guardarli; lei che scivolava fuori dalla stanza con una camicia da notte grande come un fazzoletto, la pelle scura che s’intravedeva sotto la stoffa sintetica e trasparente, lo scatto energico di lui che si arrampicava per avvicinarla. Sentivo il fastidio di quell’intrusione in casa mia e al tempo stesso l’invidia per quegli incontri clandestini: immaginavo i corpi che si toccavano senza bisogno di parole, l’eccitazione, l’urgenza del desiderio, tutte sensazioni che non provavo più.

La mia relazione con Boris era iniziata otto anni prima: eravamo ossidati dalla quotidianità, sprofondati nel ruolo di genitori, incarcerati nella routine. Temevo i suoi viaggi, ero gelosa anche solo del fatto che avrebbe dormito in alberghi a cinque stelle svegliandosi senza bambini piagnucolanti davanti allo skyline di Shangai, terrorizzata che mi tradisse. Pensavo che se non fosse partito, non mi sarei ritrovata a seguire le mosse di Cynthia e Antonio come un segugio. Mi appostavo di notte vicino alla stanza di lei e restavo a guardare il telefono di Locandido illuminarsi nell’oscurità, fantasticavo che altre donne lo stessero cercando, immaginavo la sua vita erotica, rimpiangevo la mia giovinezza. Quel giorno era addirittura riuscito a intrufolarsi nella stanza di Cynthia all’ora di pranzo – senz’altro sapeva che sarei uscita – e lei, la mia ragazza, non aveva avuto neanche il riserbo di farlo arrivare dopo.

«Io vado…» bisbigliai, fuori dalla sua stanza. I bambini riposavano.

«Esco, Cynthia… Mi senti?» insistei avvicinandomi all’uscio.

«Sì, Ma’…» La sua testa reclinata sbucò dalla porta, le lunghe trecce oscillavano nella calura, gli occhi impastati di oscurità batterono a contatto con la luce. Aveva la bocca piena dei baci di Antonio, avrei voluto gridarle: “Non voglio quell’uomo dentro casa mia”. Invece dissi: «Torno tra un paio d’ore.»

Assentì, come se la cosa non la riguardasse.

Quando chiuse la porta afferrai il cellulare di Locandido, con una rapidità e un sapore di vendetta che non conoscevano ragionamenti, non valutavano conseguenze. Camminai a passo sostenuto verso la masseria, il sole che splendeva alto: all’inizio mi sentii pervasa da un panico sottile, pensai che ero stata imprudente e anche sciocca, poi, man mano che mi allontanavo da casa, mi calmai. Quando fui alla giusta distanza presi il cellulare: ebbi la tentazione di intrufolarmi nella vita di Antonio; se non ci fosse stato un codice di sicurezza, avrei letto i messaggi, guardato le sue foto, mi sarei appropriata dei suoi segreti. Volevo un vantaggio su di lui. Rimasi a fissare la sua immagine sullo screen-saver: il suo giovane corpo era della stessa pasta di quello del suo cane, atletico, i tendini e le cartilagini in rilievo. Non avrei mai potuto affrontare Antonio a parole, era un maschio alfa, un ragazzino con la faccia da schiaffi. Avevo fatto bene a rubare il telefono; era un monito preciso, un modo per fargli capire che, a comandare, ero io. Solo io.

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