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Un luogo di sosta e di pensiero

di Paolo Morelli

Non tanto nei contenuti quanto nella forma, o forse meglio nella ‘dizione’, la lettura dei libri di Thomas Bernhard ci appare ogni volta come l’incontro con una mente molto simile, e in quell’incontro c’è qualcosa di autorevole. Se, come affermano gli scienziati il divagare è il modo basilare della mente umana, vale a dire l’andamento naturale del pensiero sul quale si innesta o si innerva tutto il resto, dalla concentrazione all’attenzione, dai calcoli ai bei ragionamenti, leggere i libri di Bernhard può somigliare a un allenamento, a dimostrare di fatto come la narrazione non sia tanto l’orpello culturale quanto invece stia lì fin dall’inizio e per necessità.
Per ottenere il risultato però il libro deve contenere una voce, vale a dire quel congegno infallibile che in letteratura ci riporta ogni volta al remoto, al condiviso, alla parte universale della nostra mente. Un piccolo esempio ma mirabile lo troviamo in Camminare (il titolo originale Gehen è ancora più perentorio, tradotto con gusto ed acribia da Giovanna Agabio), un testo del 1971: 125 pagine fluenti con appena tre o quattro capoversi.
“Camminare con Karrer è stato un susseguirsi ininterrotto di processi di pensiero, dice Oehler, che spesso abbiamo sviluppato a lungo l’uno accanto all’altro e poi d’un tratto abbiamo concluso in un qualche luogo di sosta o luogo di pensiero, ma per lo più in un preciso luogo di sosta e di pensiero.” Nel libro, che è a sua volta tale luogo di sosta e di pensiero la vicenda di cui si discute si chiarisce man mano, forse allo stesso autore e sempre traverso le sonorità. C’è un gruppo di amici che sono soliti camminare in una città austriaca, sempre più o meno sugli stessi itinerari, nella nostra provincia si direbbe le stesse ‘vasche’, finché uno di loro impazzisce, anzi è già impazzito prima che il libro si fermasse a raccontare: “Mentre io, prima che Karrer impazzisse, camminavo con Oehler solo di mercoledì, ora, dopo che Karrer è impazzito, cammino con Oehler anche di lunedì”. Questo il decisivo inizio, questa l’accordatura che ci viene proposta. Una volta che gli abbiamo accordato l’orecchio ci viene fornito il resoconto dei fatti occorsi attraverso le voci dei protagonisti, appena appuntate o mediate da quella del narratore sulle varie tonalità, con l’uso dei corsivi ad esempio.

Potrebbe essere una chiacchiera cerimoniale se l’autore, e i suoi personaggi in conseguenza non fossero affetti da un’intelligenza quasi viziosa per come somiglia a un residuo, a un brandello della razionalizzazione cartesiana, vale a dire un apparato da sovrapporre alla propria mente per cercare sempre inutilmente, disperatamente, di tentare di dare un ordine qualsiasi al mondo. Nel groviglio dei discorsi che si intrecciano, nelle attribuzioni dissociate possiamo seguire la meccanica del pensiero che come avvertiva Leopardi coincide con l’azione incessante del desiderio, ed è volontà sempre inefficace. E si scopre allora che è l’incertezza che ci fa cominciare a pensare, ci garantisce ampio terreno e anche la costante presenza dell’errore.

Il tentativo è quello di fare del camminare e del pensare “un unico processo totale“, un solo esercizio, ovviamente fallimentare. È già il linguaggio la spia di questo fallimento, nel parlare, ci suggerisce Bernhard in tutti i suoi libri, sembra esserci qualcosa come il gesto reattivo di qualcuno che si sente escluso. Eppure dobbiamo continuare a camminare per poter pensare, nei personaggi c’è questa urgenza. Camminare e pensare fanno parte dello stesso esercizio, ma anche scrivere e, a questo punto, leggere. “Camminiamo con le nostre gambe, diciamo, e pensiamo con la nostra mente. Ma potremmo anche dire che camminiamo con la nostra mente” (sarebbe interessante comparare il medesimo esercizio, e ancora più decisivo, in Robert Walser).

Irrequieto, ripetitivo, ossessivo come una mente che deve rispondere in modo obbligato se non compulsivo agli impulsi continuati che le provengono dall’esterno quanto dall’interno, e mostra per questo ostensivamente il suo “stato di sfinimento”, “una tensione nervosa incredibile, quasi intollerabile” che è già pazzia prima che ne assuma le forme ridicole, maniacali, grottesche. Irritabile, vulnerabile, è una partitura che immaginiamo improvvisata ogni volta, e invece non c’è niente di più stabilito secondo leggi ferree: “Se noi ci immaginiamo una condizione mentale, una qualsiasi, siamo in questa condizione mentale e quindi anche nella condizione patologica che immaginiamo, in ogni condizione in cui ci immaginiamo di essere”.

È la mistura di folle e oltraggiosamente comico che forma l’andamento quotidiano delle nostre attività mentali, anche se la nostra presunzione è di estrema serietà e sanità, giacché “l’arte della riflessione consiste nell’arte, dice Oehler, di interrompere il pensiero esattamente prima dell’attimo letale”. E di questo ancora, nell’evoluzione, non siamo stati capaci.

 

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