Dialogo su “Le buone maniere” di Marco Simonelli

di Gianluca Garrapa

 

Una recensione-intervista a Marco Simonelli sul suo nuovo libro, Le buone maniere, edito da Valigie Rosse, 2018.

(In corsivo, alcune poesie dell’autore tratte dalla raccolta.)

 

DALLA FINESTRA

 

Sul fornello la pentola che bolle,

le una meno cinque all’orologio.

Adesso posso dare inizio al rito:

aprirò la finestra sulla strada,

coi gomiti appoggiati al davanzale

mi gusterò l’attesa come fosse

un dito di liquore a fine pasto

e quando spunterai da dietro l’angolo

ti riconoscerò dall’andatura,

l’incedere veloce di chi sa

che qualcuno l’aspetta dentro casa.

 

G.G.: Le Buone Maniere è il nuovo libro di Marco Simonelli, suddiviso in sei sezioni che spaziano dai luoghi della casa, ai tempi del memoir, agli spazi aperti psicogeografici. In epigrafe, Donna Letizia dà il la all’intera opera: in che senso? in fondo si parla di cose ‘vecchie’ con una metrica tradizionale eppure… la poesia di Simonelli, è innovativa. Gli oggetti parlano, diventano cose. I luoghi assumono identità. Poesia che riesce a veicolare lo sguardo soggettivo del desiderio, e il desiderio, si sa, è quell’estremo individuale che è allo stesso tempo universale. La poesia, quando è riuscita, è un’estimità, un nastro di Moebius in cui il dato di fatto del poeta, dell’uomo particolare, si estroflette nel dato di fatto di ognuno. Certo… mi aspetto, a questo punto, un cd-audio, meglio se video, in cui il poeta Simonelli declami cantando le proprie poesie. È questa la prima domanda: potrai mai arrivare a incidere un cd multimediale di poesie? e… che forma potrebbe assumere un progetto multimediale a partire dai tuoi spesseggianti e cantabili endecasillabi?

M.S.: Mi piacerebbe moltissimo realizzare un progetto come quello che descrivi e prima o poi potrebbe accadere. Purtroppo non è un processo semplice: l’elaborazione testuale è relativamente solitaria e per realizzare un libro di poesia occorrono un editor e un editore. Per realizzare un cd multimediale servono un produttore, un fonico, un videomaker, attori e macchinisti oltre, naturalmente, a un’etichetta discografica o a un marchio editoriale che si occupi di realizzazione e distribuzione. Qualora avessi la fortuna di incontrare artisti e professionisti desiderosi di collaborare con me, lascerei loro piena libertà d’azione ed interpretazione. Credo sia l’unico modo per realizzare un prodotto artisticamente valido. Mi è accaduto solo una volta di collaborare con dei musicisti alla realizzazione di un disco: nel 2011 Massimo e Pierce di Black Sun Productions mi commissionarono i testi di Hotel Oriente (Old Europa Cafe, 2015). Quella fu la prima volta in cui mi ritrovai a scrivere tenendo presenti le sfumature vocali di un altro interprete. Fu un lavoro molto felice.

 

IN CERTI CASI

 

In certi casi è sempre consigliabile

mantenere un contegno distaccato.

Conserva un’espressione inossidabile.

Rimanga il tuo cipiglio inalterato.

In certi casi è meglio fare finta

che non sia successo proprio niente.

Andare avanti e non dargliela vinta

nonostante il panico crescente.

In certi casi, forza, stringi i denti.

Nascondi – se riesci – la paura.

Appariremo falsi e indifferenti

ancora un altro giorno, finché dura.

 

G.G.: La raccolta alterna situazioni e stati d’animo attraverso l’utilizzo di metri diversi. In certi casi appaiono rime alternate, distici, assonanze, in altri casi non c’è rima che tenga ma la musicalità sì, pure se il verso è liberissimo. Due domande: la prima: esiste un arrangiamento tra le parole e le cose di cui scrivi? Cioè: l’utilizzo di un certo metro o verso, che rapporto ha con l’argomento della lirica, come funziona il marchingegno metrico? E poi: la poesia è per la carta, per la voce o per la memoria?

M.S.: C’è sempre uno stretto rapporto fra la forma e il contenuto di una poesia, si tratta di due concetti complementari. Senza un’organizzazione metrica (di qualsiasi tipo essa sia) un testo poetico letto ad alta voce sarebbe indistinguibile dalla prosa. Il mio uso della metrica tradizionale ha fini esplorativi e generativi, prima che organizzativi: rispettando, ad esempio, la struttura del sonetto elisabettiano, la scrittura si comporta come una trivella nei confronti della materia affrontata, ne porta alla luce aspetti imprevisti, costringe felicemente ad usare soluzioni espressive sorprendenti. Non necessariamente un metro si sceglie, direi piuttosto che lo si intuisce, lo si desume dalla complessità dell’entità poetata. Sono favorevole a qualsiasi tipo di supporto per la poesia: voce, carta, memoria, cd, tela, palco, schermo, non porrei dei limiti e, anzi, auspicherei sperimentazioni e ibridazioni fra testo e supporto. Per quanto riguarda il mio metodo di lavoro, io riesco a capire se una poesia funziona o meno solo leggendola ad alta voce. La voce mi sembra imprescindibile, in quel frangente.

 

SOCIAL

 

Io non metto mi piace alle tue foto

né commento i molti aggiornamenti

che pubblichi ostentando il vasto vuoto

dei tuoi sorrisi a trentaquattro denti.

Con la sola pressione di un pulsante

potrei cancellarti dai contatti,

fermare finalmente la snervante

parata di patetici autoscatti

e locuzioni prive di sintassi.

Vorrei ci fosse un tasto nella vita

da premere qualora t’incontrassi.

Userei la forza delle dita

per spegnerti la faccia ed ignorarti,

cambiare strada senza salutarti.

 

G.G.: Tutta la tua produzione poetica ruota intorno all’universo pop, televisivo, social, ma anche intorno al corpo e ai suoi desideri: il cibo e il sesso, in particolare. La tua voce poetica riesce però a rendere quasi atemporali questi documenti storici della società attuale. L’ironia che smantella la porcheria consumistica occidentale, permette di simpatizzare anche con gli alimenti chimici più schifosi, e più buoni, ci racconta le nevrosi quotidiane, il pop e il porno, le camerette, i piccioni, la psicoanalisi. Possiamo dire che la tua poesia è una poesia del corpo e del desiderio: sia perché lo canta, sia perché è proprio il corpo e il desiderio che può cantare la poesia. Domanda: quali autori, tra i classici, italiani e mondiali, secondo te, hanno saputo, in forme magari lontanissime tra loro, cantare, proprio cantare dico, il corpo e il loro desiderio?

M.S.: Scontavo un’adolescenza frustrata e brufolosa quando mi imbattei per caso nell’Antologia Palatina. Fra tutti i poeti lì riuniti, Stratone di Sardi mi conquistò. A distanza di più di vent’anni ricordo ancora nitidamente alcune sue immagini. Al di là dei miei gusti personali, ritengo che la poesia classica greco-latina abbia ampiamente illustrato le multiformi possibilità desideranti del corpo. Poi è sopraggiunto il cristianesimo e il concetto di piacere ha subìto una drastica mutazione di segno. Intorno ai miei vent’anni ero molto attratto dai beat americani, in particolare da Allen Ginsberg che scriveva di un corpo ovviamente più problematico, tuttavia mi pare che la spinta desiderante emergesse potentemente. Fra i grandi italiani direi che Sandro Penna ha cantato il desiderio in quartine calde e soleggiate di rara perfezione. Ovviamente mi sono limitato a citare autori maschi omosessuali, per vicinanza di desiderio, più che di corpo.

 

CAMERETTA

 

Aria di ghiandole qui, d’ormoni e scarpe.

Il sangue ti riscalda l’organismo

in fiotti di bestiola adolescente.

Insieme a fare i compiti, dicevi.

 

Lui, scafato. Letteralmente:

una fava uscita dal baccello.

Acceso nello sguardo, i peli al labbro.

Ne sa di certo molto più di te.

 

Vergognati, vergognati, ripetono

i peluches dalla mensola più alta

i primi, loro, a rendersene conto

a schernirti di colpo, a condannarti

 

con le bocche cucite e sorridenti.

 

G.G.: Grazie Marco, ultima domanda: ti piacerebbe mettere su una band musicale multimediale?

M.S.:  Moltissimo! Sono aperto a qualsiasi proposta. Il mio ideale artistico è un incrocio fra Siouxsie & The Banshees e Jam e le Holograms.

 

Smussa l’angolo.

Arrotonda la punta dello spigolo.

Se ci riesci, sbroglia con un pungolo

il filo aggrovigliato del gomitolo.

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