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Elogio del kitsch

Milena Jesenská

[Milena Jesenská (1896-1944), nota come corrispondente di Kafka e sua traduttrice, fu lucida commentatrice della società mitteleuropea tra le due guerre e fine interprete delle pulsioni grottesche e tragiche del suo tempo; venne deportata nel 1940 a Ravensbruck “al fine di essere rieducata”. Possiamo finalmente leggere molti dei suoi scritti e alcune lettere a Max Brod in un bel volume curato da Dorothea Rein, Qui non può trovarmi nessuno, da poco uscito per Giometti&Antonello. L’estratto qui pubblicato è un articolo del 1922].

 

Se ho deciso di fare le lodi del kitsch ciò non significa che lo ritenga buono e rispettabile. Lungi da me è pure l’idea di sostenere che sia bello; e sarei fortemente imbarazzata se dovessi elencarne i pregi. Tuttavia, dopo due ore passate a bighellonare per la città mattutina piena di sole, mi è venuta voglia di fare qualcosa di un po’ folle.

Kitsch? Cos’è il kitsch? Qualcosa di superfluo, futile, una bolla sulla superficie del tempo: ma una bolla magnifica, multicolore. Qualcosa di spudorato, senza veli. Non esistono un kitsch buono e un kitsch cattivo. Esiste il kitsch e basta. Un grazioso giocattolo senz’anima. Del resto il kitsch è il nostro pane quotidiano. Chi lo riconosce? Soltanto pochi di noi. Però ci difendiamo da esso con mugugni da vecchi conservatori, senza sapere esattamente come e dove esso sia. In che modo deve esprimersi la nostra epoca, l’epoca delle fabbriche, delle automobili, dei bar, delle borse? In che cosa può incarnarsi in una trasposizione metafisica? In Succini, per esempio. Che dolce voluttà darsi a questa non-arte! Trovarsi di fronte a questa brillante spudoratezza e provare gioia, significa essere capaci di godere. Essere capaci di godere non significa lasciarsi trascinare dal piacere, ma afferrarlo e domarlo con la gioia, scacciarlo con una sana allegria.

Disgraziato chi non ha mai conosciuto l’ebbrezza. Infelice chi non ha mai conosciuto la spensieratezza. Miserabile chi non si è mai innamorato di una piccola commessa dalle gambe un po’ storte di un negozio di periferia, una donna banale, ma ai suoi occhi una dea. Il mondo non è così come è, ma come noi lo vediamo. In questo modo non è più ricco, al contrario, è più povero. Manchiamo d’immaginazione per poterlo vedere così com’è. Siamo troppo sciocchi per essere veramente virtuosi. Virtù non significa non commettere peccato. Virtù significa sapere che cos’è il peccato.

A una semplice giostra dai vivaci colori nei pressi della città – nell’avvallamento dietro il ponte Palacky – si presta appena attenzione. Non perché sia priva di una sua magica bellezza, ma perché quelli che vi passano accanto temono il kitsch. Nelle loro anime, che sono avvezzi a portarsi dietro in frac e colletto inamidato da un ufficio all’altro, questa giostra, con le sue frange e i suoi campanellini, il suo rivestimento di velluto rosso e i suoi galloni dorati, non evoca l’immagine di un castello incantato e di una bella principessa, come nell’anima di un fanciullo che, succhiandosi il pollice, se ne sta lì davanti in contemplazione. Nondimeno questa giostra è un pezzo di giovinezza che se n’è andato. Ormai sono diventati persone serie di raffinati gusti artistici; ormai sono poveri e avari. Ma il velluto rosso e le anatre di legno sono affascinanti, graziosissimi, è soltanto la nostra stupida esperienza a ingannarci facendoli apparire consunti e pieni di pulci. E le coccarde bianche per il giorno dei morti al cimitero di Olsany e le cornicine di perle blu intorno a rose di latta sono una stupenda celebrazione del lutto e chi le trova di cattivo gusto è uno stupido. Le catinelle di porcellana bianca e le tazze decorate con colombelle che si vedono al Kohlmarkt, accanto al venditore di uccelli dal cui negozio viene un odore di scoiattoli, sono graziosi inni alla banalità più sfacciata e assurda – e se alla loro vista non battiamo le mani per la gioia, ne ha colpa soltanto la nostra insulsa prosaicità.

Ci sono persone che hanno paura di spendere denaro per procurarsi qualche piacere. Non credete loro se vi dicono di essere virtuosi. Sono deboli, sanno che non avrebbero la forza di dire «basta», che continuerebbero a gridare «ancora»; è per questo che, pieni di superbia, dicono «mai». Per essere capaci di leggerezza bisogna avere dello spirito. Che la leggerezza sia frutto della disperazione non è che un luogo comune. Prendere sul serio la leggerezza è di cattivo gusto. Ma assaporare la leggerezza senza lasciarsene prendere la mano è una forma superiore di vita. Stendhal la elogiò ma non riuscì a controllarla perché era vanitoso; Laforgue vi riuscì e morì proprio per questa forma di vita che oggi viene cantata da Jules Romains. Evviva gli allegri compagni capaci di andare con leggerezza al fondo delle cose!

Chi prende il kitsch sul serio manca di gusto. Il kitsch non vuole essere preso sul serio. Ci ammicca, ci stordisce, ci abbaglia e sta a noi non lasciarci abbagliare. Gioitene e poi prendetevi gioco di esso. Tenetevene a una certa distanza e passategli serenamente accanto in una bella mattinata di sole come questa. Smascheratelo, in modo da renderlo innocuo. Una volta smascherato qualcosa, lo si può anche amare, un po’ per pietà, un po’ per scherzo. Ma chi disprezza il kitsch è ridicolo, come le signore distinte che disprezzano le donne di strada. Noi abbiamo bisogno del kitsch per superarlo. Abbiamo bisogno di tutto ciò che è brutto per sbarazzarcene. Questo è un processo sano, grande, importante che avviene nell’uomo. È il processo stesso della giovinezza. Quanti si sono liberati di piccole meschinità, possono assurgere alla giusta grandezza. Quanti invece non hanno avuto questa possibilità si consumano nel maligno desiderio di piccole bassezze che poi commettono di nascosto non appena nessuno li osserva.

Molte persone giuste si volgono dall’altra parte, sdegnate, di fronte al kitsch. Diventano pesanti. Ma la leggerezza è un dono di Dio. Nella leggerezza c’è più verità, più morale, più spirito. Le persone più leggere sono al tempo stesso le più pesanti e, giacché stanno alle sommità, sono sole.

Questo primo sole primaverile di fine gennaio mi spinge a questo inno alla sbrigliatezza; le piccole vetrine piene di cianfrusaglie sono allegre come le statuette colorate e gli orribili manifesti all’entrata dei cinema e le croste che si vedono alle esposizioni e la musica che risuona fastidiosamente per le strade; metà paese, metà piccola città, formiamo nell’insieme una metropoli dove il cattivo gusto strilla e tira fuori la lingua a ogni angolo di strada. Che sciocchezza è voltarsi dall’altra parte sdegnati. Tutto è vita. Il mondo sarebbe noioso da morire se ci riservasse soltanto nobili piaceri. Gli uomini sono grati alle ragazzine della loro giovinezza come alle donne della loro maturità. Hanno ragione. Non si prova forse riconoscenza verso ciò che ci ha arricchito? Ecco quanto di più immorale esiste al mondo: la mancanza d’intuito e la stupidità. L’uomo che è consapevole di quello che fa può già contare sul perdono di Dio. Voltarsi dall’altra parte, sdegnati, di fronte al kitsch è altrettanto immorale quanto adorarlo: in entrambi i casi non sappiamo quello che abbiamo davanti. Ci sono cose che è del tutto assurdo prendere sul serio, ma contestare la loro importanza significa essere ciechi. Ci sono cose tanto necessarie, giuste, buone – e inutili come un suicidio mancato. L’uomo deve poter guardare oltre le montagne.

Tutte le folli ragazzate della nostra vita lasciano in noi ricordi felici. È in queste pazzie che mettiamo il meglio di noi stessi, la nostra inesperienza, la nostra voglia di vivere, i nostri desideri, il nostro slancio. Basta che esista una sola persona buona e leggera perché Dio perdoni a migliaia di cattivi giusti.

Noi non conosciamo la vera gaiezza. Essa non ci è data. Non sappiamo essere spiritosi, ma solo rozzi e scurrili. I nostri cabaret sono – salvo rare eccezioni – volgari. I nostri giornali umoristici miseri e scadenti. I nostri ritrovi notturni, i bar, le sale da ballo e gli altri locali di infimo ordine oppure noiosi. Noi non abbiamo niente in comune col kitsch. Nei nostri vagabondaggi notturni ignoriamo la tenue grazia dei parigini. Il vino ci rende sentimentali e piagnucolosi, sognanti e malinconici. Divertirsi, da noi, è considerato un male. Al contrario, divertirsi significa dare ossigeno all’anima. La gaiezza è l’igiene spirituale dell’uomo, un soffio d’aria pura in una stanza che sa di rinchiuso.

Questa paura di perdere la propria dignità, questa incapacità di un sano ridere – vi assicuro che sto parlando di qualcosa di delicato, fine e prezioso, quantunque non sembriate credermi – sono la più grande maledizione della nostra vita. Se riuscissimo ad essere più leggeri, riusciremmo anche ad essere più naturali quando si tratta di essere seri.

 

***

 

 

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renata morresi
renata morresi
Renata Morresi scrive poesia e saggistica, e traduce. In poesia ha pubblicato le raccolte Terzo paesaggio (Aragno, 2019), Bagnanti (Perrone 2013), La signora W. (Camera verde 2013), Cuore comune (peQuod 2010); altri testi sono apparsi su antologie e riviste, anche in traduzione inglese, francese e spagnola. Nel 2014 ha vinto il premio Marazza per la prima traduzione italiana di Rachel Blau DuPlessis (Dieci bozze, Vydia 2012) e nel 2015 il premio del Ministero dei Beni Culturali per la traduzione di poeti americani moderni e post-moderni. Cura la collana di poesia “Lacustrine” per Arcipelago Itaca Edizioni. E' ricercatrice di letteratura anglo-americana all'università di Padova.
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