Sulla scogliera

di Claudio Magris

(riporto qui una delle “istantanee” scritta da Claudio Magris nel 2009, ma quanto mai attuale sul tema migranti. a.s.)

Sulla riviera di Barcola, a Trieste. Si fa per dire, riviera; una sottile striscia di scogli, spiaggia libera che costeggia la strada principale di accesso alla città, acqua subito profonda, sulla riva tamerici spumose come onde, un orizzonte marino vasto e aperto, che nell’infanzia dava il senso dell’immensità oceanica, in un’educazione sentimentale in cui s’imparava una volta per tutte il legame fra l’eros e il mare. Quella gente in costume da bagno, non in uno stabilimento né su una vera spiaggia, ma alle porte della città e quasi già in città, dà un’impressione di vita persuasa e goduta.

Trieste non è solo crocevia tra Est e Ovest, come recita la sua didascalia, ma pure fra Nord e Sud, fra la malinconia scandinava di certi tramonti d’inverno e la vitalità meridionale dell’estate. In fondo al golfo, dove le acque italiane divengono slovene e poi croate, si vedono il duomo di Pirano, la plurisecolare orma del leone di San Marco nell’Istria, e più avanti Punta Salvore, col suo faro e i suoi pini nel vento. La popolazione che da maggio a ottobre arriva ogni giorno su quella scogliera di Barcola è abitudinaria; per tacita convenzione, ognuno di noi ha il suo posto sulla riva, genericamente rispettato dai vicini, con cui s’intrattengono rapporti garbati ma senza prendersi né dare confidenza. Ogni tanto aleggia, annunciata sui giornali, la minaccia di divieti, piani regolatori, costruzioni di stabilimenti a pagamento o di porticcioli turistici, minaccia finora ogni volta sventata da pugnaci lettere inviate alla stampa e alle autorità dagli uomini di penna, numerosi e assidui fra quei bagnanti, e da proteste che arrivano da triestini residenti da anni a New York o ad Adelaide ma non dimentichi di quella scogliera. Le autorità, a dire il vero, dimostrano di comprendere che quella libertà di tocio ossia di tuffo è un bene pubblico, una buona qualità di vita collettiva, e si preoccupano delle docce gratuite e delle tamerici. Qualche anno fa la scogliera era salita alla ribalta delle cronache grazie a un annegato, il cui corpo riportato a riva e coperto da un lenzuolo era rimasto a lungo in mezzo ai bagnanti che avevano continuato tranquillamente a prendere il sole accanto a lui, in quella familiare indifferenza della vita per la morte che la grande e rovente luce dell’estate rende ancora più spietata. Il telo che lo copriva sembrava non tanto un rispetto per lui e per l’inviolabile, universale mistero che gli era accaduto e in cui egli era entrato, quanto un riguardo verso i bagnanti, perché non fossero turbati dall’intollerabilità e dall’impudenza della morte. Solo un bambino guardava incuriosito quella sagoma a terra, forse senza capire bene cosa fosse successo, come un cane che fiuti qualcosa di ignoto. Pochi gli schiamazzi, rari i disturbi alla quiete pubblica. Una madre redarguisce il figlio, un bambino di quattro o cinque anni che gioca con un’incantevole coetanea — nera come l’ebano, evidentemente adottata dai genitori, due tedeschi che si sono sistemati un po’ più lontano — sparando con una pistola ad acqua e scavalcando di corsa i corpi distesi al sole, per lui non ancora desiderabili o conturbanti. Sgridato, il bambino protesta, dicendo che allora bisogna rimproverare pure la bambina. “Quale bambina?” chiede la madre, che non la vede perché si è nascosta dietro un albero. “Quella che parla che non si capisce niente,” risponde lui, evidentemente colpito dal fatto che la piccola chiami le cose in modo per lui incomprensibile e un po’ arrabbiato di scoprire che esse possano avere altri nomi.

Non gli passa per la mente di identificarla con il colore della sua pelle, che pure spicca nettamente anche accanto all’abbronzatura dei bagnanti; quella differenza dí colore, che in altre situazioni avrebbe potuto e forse potrebbe ancora provocare separazione e segregazione, è irrilevante rispetto alla differenza tra l’italiano e il tedesco. Neppure quest’ultima, peraltro, ha il potere di separarli, perché, appena riapparsa la bambina nel frattempo debitamente ammonita (in tedesco) dai suoi genitori, i due riprendono subito a rincorrersi e a spruzzarsi, ignari di aver tenuto una bella lezione sulla diversità e sull’identità, temi del resto cari anche ai convegni cultural-balneari così frequenti sulle spiagge estive, almeno quelle un po’ più eleganti della scogliera di Barcola.
10 agosto 2009
[da C.M., Istantanee, La nave di Teseo, Milano 2016, pp. 95-98]

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Antonio Sparzani, vicentino di nascita, nato durante la guerra, dopo un ottimo liceo classico, una laurea in fisica a Pavia e successivo diploma di perfezionamento in fisica teorica, ha insegnato fisica per decenni all’Università di Milano. Negli ultimi anni il suo corso si chiamava Fondamenti della fisica e gli piaceva molto propinarlo agli studenti. Convintosi definitivamente che i saperi dell’uomo non vadano divisi, cerca da anni di riunire alcuni dei numerosi pezzetti nei quali tali saperi sono stati negli ultimi secoli orribilmente divisi. Soprattutto fisica e letteratura. Con questo fine in testa ha scritto Relatività, quante storie – un percorso scientifico-letterario tra relativo e assoluto (Bollati Boringhieri 2003) e ha poi curato, raggiunta l’età della pensione, con Giuliano Boccali, il volume Le virtù dell’inerzia (Bollati Boringhieri 2006). Ha curato due volumi del fisico Wolfgang Pauli, sempre per Bollati Boringhieri e ha poi tradotto e curato un saggio di Paul K. Feyerabend, Contro l’autonomia (Mimesis 2012). Ha quindi curato il voluminoso carteggio tra Wolfgang Pauli e Carl Gustav Jung (Moretti & Vitali 2016). È anche redattore del blog La poesia e lo spirito. Scrive poesie e raccontini quando non ne può fare a meno.
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