L’ermeneutica poetica e i suoi limiti

di Daniele Barbieri

Non è vero che i cosiddetti contenuti non hanno alcun valore in poesia. Ma l’errore opposto a questo è peggiore e molto più diffuso. Nelle nostre scuole si studia il Pessimismo Leopardiano e pure quello di Eugenio Montale. Nei testi critici i poeti vengono presentati come filosofi (minori) che si esprimono in versi. Tutto il discorso critico si concentra su quello che nei loro versi viene detto.

Come se fossero versetti biblici da cui è necessario ricavare ermeneuticamente (così come ci insegnò a fare Origene nel Terzo Secolo) delle profonde verità nascoste, i versi dei poeti diventano profetici e ieratici: la sensualità della vita in D’Annunzio, le piccole cose quotidiane dei Crepuscolari, la follia di Dino Campana, il senso tragico della vita in Montale, i rapporti familiari in Saba, la tradizione gitana in García Lorca, lo svuotamento del senso della vita in Eliot, l’esaurimento storico in Sanguineti… Questo è – quando va bene – ciò che si deve ricordare dei poeti.

Proprio perché si tratta di grandi poeti, ciascuno di loro ha provocato in noi, prima o poi, almeno un fremito, e lo abbiamo amato per questo. Questo, io credo, è ciò che la poesia dovrebbe fare: provocare fremiti. Non si tratta di orgasmi da quattro soldi; la poesia non è eroina. Quando la poesia ci procura un fremito è perché ha smosso qualcosa di profondo; ha spostato delle pietre assestate sul fondo della nostra coscienza, pietre di cui talvolta nemmeno ricordavamo l’esistenza. Ma non è affatto detto che queste pietre concettuali che vengono smosse abbiano qualche campo in comune con ciò di cui la poesia parla.

Più volte mi sono ritrovato a pensare che amo Leopardi nonostante il suo pulcioso pessimismo, che adoro Montale nonostante la sua retorica del male di vivere (e quella, proprio quella, resta una delle sue poesie più belle, a dispetto del fatto che ne faccia il suo tema esplicito), che imparo a memoria García Lorca benché sia perfettamente consapevole che senza le sue poesie non avrei gran interesse per i gitani andalusi. Poi mi rendo conto che sto andando troppo in là, e che senza pulcioso pessimismo, retorico male di vivere e senza gitani andalusi, non avrei né Leopardi, né Montale, né García Lorca.

D’altra parte, nemmeno se non avessero respirato, mangiato e complessivamente vissuto, avrei i miei poeti. Ma questo non autorizza la critica a trovare il senso della loro opera nel modo in cui essi hanno vissuto (in verità certa critica a volte lo fa, ahinoi!), mangiato e respirato. Il problema della parola (a differenza della musica o della pittura astratta) è che per parlare sembra proprio che si debba parlare di qualcosa. E siccome normalmente quando si parla di qualcosa è per dirne qualcosa, ecco che pure la poesia viene trattata nello stesso modo: spiegata per quello che dice di quello di cui parla. È una soluzione facile ed efficace: una volta stabilito questo, potremo interpretare nel medesimo senso anche tutte le scelte che non riguardano i cosiddetti contenuti. Si tratterà di scelte formali finalizzate a una migliore espressione, a una più efficace, più memorabile espressione.

Si tratta la poesia come se fosse propaganda su un certo tema, insomma, magari libera propaganda (non asservita a un padrone o a un partito) ma pur sempre tale. Eppure, esistono modi migliori e decisamente più efficaci di fare propaganda (anche quella buona, libera, apprezzabile), che magari possono sfruttare espedienti sviluppati proprio in campo poetico. E certamente ci sono poeti in cui qua e là, la poesia sfuma verso la (buona) propaganda, ed è difficile dire dove sia il confine.

Ma non è per il suo eventuale fare propaganda che la poesia può diventare memorabile, e non è nemmeno per quello che la poesia esiste. Non so quanto sia chiaro che questa visione (anche troppo diffusa) della poesia è figlia del pregiudizio secondo cui la poesia è il prodotto di un soggetto che si esprime nei confronti del mondo, ed esprimendosi trasmette il proprio pensiero (ricco di tutte le sensazioni, emozioni ecc. che lo accompagnano). Si tratta di un pregiudizio che ha trovato nel Romanticismo la sua forma più compiuta, ma che serpeggia nell’Occidente greco e poi cristiano almeno da quando Platone ha inventato l’idea di anima.

Proviamo a leggere un testo poetico dimenticando che ha un autore. Quando ascoltiamo musica, mica la ascoltiamo come se fosse un discorso che il compositore ci sta facendo. Anche se un po’, da Haydn in poi, lo facciamo (e ci insegnano a farlo), la gran parte della nostra attenzione sta comunque nell’andamento della musica e nelle variazioni che vi si succedono, e in ciò che quell’andamento sta producendo in noi che, nell’ascolto, vi ci accordiamo. E questo accade persino quando ascoltiamo Boulez, o Grisey, o Francesconi.

In musica, i compositori parlano dei cosiddetti materiali. Si tratta di un termine generico, cui è difficile dare un contenuto preciso: potrà trattarsi di motivi, di semplici sonorità, di gruppi di rumori, di andamenti ritmici, di strutture. Materiali grezzi, comunque, abbozzi di elaborazione, spunti, frammenti; quelle cose che poi il lavoro di composizione assembla per montare l’opera vera e propria – e magari, proprio nel lavoro di assemblaggio, questi materiali fruttificano, producendo nuovi motivi, sonorità, rumori, ritmi, strutture… Ma i materiali non sono il senso dell’opera: ne sono soltanto i mattoni, anzi parte dei mattoni. Il senso dell’opera, sempre che abbia senso trovarlo, è un prodotto dell’uso dei materiali, semmai.

Io credo che dovremmo considerare i cosiddetti contenuti del testo poetico alla stesso modo dei materiali musicali. Sono mattoni da costruzione, come lo è la metrica, l’uso delle rime, l’andamento prosodico. Per questo certamente non è vero che i contenuti non hanno valore in poesia. Hanno il valore che hanno tutti i materiali da costruzione. Sono strumenti di cui il testo fa uso per permettere la dinamica di accordo e tensione e magari sorpresa che qualche volta produce in noi un fremito, smuovendo delle fondamenta assestate da sempre. Sono forme che attraversano la storia, né più né meno che quelle metriche, sistemi di possibilità di cui gli storici fanno bene a segnalare l’emergenza e le eventuali variazioni rispetto alle emergenze precedenti, ma poco hanno a che fare con il giudizio estetico – e infatti li ritroviamo nei versi di valore come in quelli da dimenticare.

Quanta parte della critica letteraria storica è da buttar via? Le poesie non sono la Bibbia. E anche il Libro, poverino, potrebbe forse guadagnare in capacità di sommuoverci se lo si potesse leggere disincrostato da due millenni di ermeneutica.

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11 Commenti

  1. Non sono un semiologo, né un critico letterario e nemmeno un poeta.
    Non so se l’ermeneutica non sia un esercizio utile per valutare l’importanza letteraria di un poeta.
    Ritengo troppo fragile la teoria del “fremito” assunta a discrimen valutativo del verso.
    Diffido del sensismo soggettivo come dell’oggettività ermeneutica che retrodata lo scontro infinito razionalismo/empirismo.
    Mi fa paura sia il “pessimismo leopardiano” come scaturigine di una sindrome clinica, sia l’ignorare come un recanatese sfugge al suo destino provinciale per andarsi a collocare al centro del dibattito culturale mondiale del suo tempo.
    Sul fronte dello smarrimento estetico del nostro tempo, mi aggrappo a questa citazione come alla salvezza di un corrimano “Le poème, cette hésitation prolongée entre le son et le sens”

  2. Aria fritta, esercizi verbali che non approdano a nulla. Provate piuttosto ad aprire il cuore e a cimentarvi con la poesia. Alfonso Berardinelli ha ragione su tutta la linea.

  3. è impossibile sapere cos’è la poesia
    impossibile sapere cos’è la poesia
    é sapere cos’è la poesia
    è impossibile cos’è la poesia
    è impossibile sapere la poesia
    è impossibile sapere cos’è poesia
    è impossibile sapere cos’è la
    è impossibile sapere cos’è la poesia

    Franco Beltrametti

  4. Diciamo che da un punto di vista storico forme e contenuti ereditati appartengono al medesimo insieme. Da un punto di vista ermeneutico invece appartengono a due insiemi complementari. Si deve poi considerare che nell’atto concreto di interpretazione si passa facilmente dall’uno all’altro punto di vista. E qui casca l’asino… cioè Il critico asino!

  5. Sì, farò silenzio, ma mi ribello. (Il settimo sigillo)

    La stimo dunque mi dilungo un poco nella risposta: spero non ne avrà a male. La stimo perché ho letto alcuni suoi lavori, e solitamente li ho trovati ben documentati ed interessanti. In questo caso però mi sembra che in maniera davvero curiosa voglia arrogare alla poesia una libertà che né ha e né dovrebbe avere (certo, ammesso che la poesia possa o voglia servire a qualche cosa: il dibattito è aperto) .
    Parto dalla prospettiva di non scoprirla fan del paroliberismo e simili: nel caso mi sbagliassi mi taccio subito senza neppure ribellarmi.
    Più che alla musica credo ci si potrebbe riferire proficuamente alla fotografia per provare un confronto. Lo dico perché la musica a rigore non “significa” niente, la fotografia al contrario ha già di per sé una sua propria materia (e un po’ più piena dei ‘materiali’ di cui parla),e anche essa ha poi una strutturazione fatta di stili, riferimenti ad altre opere et altro.
    Proviamo il confronto dunque. La fotografia è intimamente, inevitabilmente, prodotta per mezzo della realtà (per quanto sfocata o distorta: di qualcosa di reale pur sempre si tratta); la poesia è formata di parole e queste augurabilmente sono collegate ad un significato (e magari messe in fila significano pure qualcosa di parecchio complesso). Se analizziamo una foto non possiamo fare a meno di maneggiare un pezzo di realtà che “le va assieme”, lo stesso vale per poesie e significati. E i significati, a meno di non fare solo rumore, hanno un loro ruolo fondamentale (primario!) nella comunicazione, anche poetica. Come faccio a fare poesia (ammesso che sia un testo!) senza significati? Come faccio a fare fotografie senza realtà? Non vedo la necessità di cercare ad ogni costo di piegare questi strumenti a utilizzi che non sono loro propri: potersi sì, si può tutto, ma sarebbero strumenti spuntati, fuori luogo, poco efficaci.
    Facciamo finta che questo collegamento poesia-significato o fotografia-realtà non sia così importante e primario? La strada è dissestata. Se io fotografassi una cacca di cane che trasmettesse la stessa bellezza di un peperone di Weston e la sottotitolassi”tentativo fotografico di esprimere Dante”, potremmo dubitare che per quanto bella fosse la foto forse di Dante non avrei poi tutta questa gran stima?
    Questo per i significati, passiamo agli autori. Se ammettiamo che le poesie si compongono di significati non vedo perché non chiederne conto agli autori (almeno a quelli che si vogliano adeguare a questo gioco sociale: perché è costruzione sociale l’idea che a delle parole corrispondano dei comportamenti e un modo di pensare del loro autore, come suggerisce la pragmatica. A meno di non usare ironia, sarcasmo… Lei di ironia deve aver trattato in passato, se non erro). E se qualcuno non vuol adeguarsi a questa coerenza: benissimo! Ci sono tante correnti di vario genere giocose o nonsense tout court. La mancanza di senso è proprio figlia della divaricazione tra un segno e il suo significato convenzionale: se parole e i pensieri di un poeta non dico non coincidessero, ma neppure s’assomigliassero (o meglio se le sue parole non si rapportassero alla sua poetica), forse queste poesie le si troverebbe un po’ posticce, un po’ fastidiose, un po’ insensate (e dunque poco interessanti).

    Spero che i miei pensieri sparsi non le diano troppi pensieri.
    Ma sentir dire che il problema più grave è che le poesie vengono lette soprattutto per il loro significato e che gli autori rispondono di quella produzione… mi lascia indicibilmente, pensierosamente perplesso.

  6. Ok, il paragone con la fotografia non mi dispiace, e l’esempio del peperone di Weston è particolarmente azzeccato (e pure a me caro). Benché si stia fotografando evidentemente un peperone (e ci sono pochi dubbi su questo) quella foto non parla di peperoni: è piuttosto una foto profondamente e conturbantemente sensuale, che suggerisce imprevedibili analogie tra settori del mondo e della nostra conoscenza in apparenza estremamente distanti. Per questo è capace (quella foto lì davvero) di produrre in me un fremito. E il fatto che si tratti di un peperone non è certo indifferente, perché il peperone porta nel discorso tutto il suo significato. Ma la foto non parla di peperoni.
    E’ chiaro che tentare un’operazione simile con una cacca di cane non produrrebbe il medesimo effetto, ma è esattamente questo quello che cerco di dire all’inizio e alla fine del post: in cosiddetti contenuti hanno valore, come ce l’hanno tutti i materiali, metrica (per esempio) compresa. Ma non è affatto detto che siano la chiave (ammesso che una chiave ci sia) per comprendere l’opera o il motivo per cui ci colpisce. A volte lo sono, a volte è altro.
    L’opinione dell’autore sulla sua opera non è particolarmente rilevante più di quanto non lo sia quella di un lettore che abbia letto attentamente e riflettuto sull’opera. Ci sono autori che apprezziamo pur non sapendo nulla delle loro opinioni, a partire da Saffo, o da Villon. Di qualcuno nemmeno sappiamo qualcosa della vita, ma questo non toglie valore alle loro opere. Quando va bene, il vantaggio della riflessione dell’autore sta nel fatto di conoscere da vicino quello che ha scritto. Ma, da un lato, lo studio del lettore critico permette di superare il gap, e, dall’altro, la troppa vicinanza dell’autore gli impedisce spesso di vedere quelli che altri vedono. Tante volte mi sono stupito io stesso, come critico, dei ringraziamenti di autori che improvvisamente scoprivano di aver detto molto di più di quello che credevano.
    Quanto al problema più grave, quello del problematico dominio del significato e dell’interpretazione, la pensavo già così quando, qualche anno fa, ho scoperto un antecedente illustre, che è il libro di Susan Sontag “Contro l’interpretazione” (1960, o giù di lì). Il titolo del libro promette più di quanto il libro mantenga, perché solo il primo capitolo è dedicato al tema, ma quelle poche pagine sono molto belle, e la Sontag argomenta bene la mania di dover ridurre le opere d’arte alla loro interpretazione, mania diffusa al punto che da un certo momento in poi gli autori stessi hanno prodotto opere proprio in vista della loro interpretazione. Il fatto è che una delle caratteristiche dell’opera d’arte è proprio quello di mettere in crisi il gioco stesso della significazione, e attraverso questa crisi portarci a improvvise e imprevedibili scoperte (quelle che a me producono il fremito, appunto).
    Quanto al paroliberismo ha ragione e non ne sono un fan, anche se non posso non riconoscere che un suo ruolo storico importante l’ha avuto. Ma la libertà delle parole in libertà significava libertà dalla grammatica, mentre ricercava altri vincoli meno tradizionali, per esempio grafici. Era comunque un modo ingenuo e un po’ primitivo per andare nella direzione che suggerisco qui, provocando uno straniamento dei materiali che rendevano più difficile adagiarsi sugli apparenti contenuti.

  7. Caro Daniele, ho letto il tuo pezzo come un richiamo pedagogico nei confronti del modo in cui la scuola per prima (almeno fino alla maturità) e il giornalismo culturale in seconda battuta trattano “ancora ” la poesia. Sul piano teorico si potrebbe dire che la faccenda è stata sufficientemente non risolta, ma sviscerata dal formalismo in poi. E a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso si puo’ ben dire che anche i significati esistono, come tu ben dici, in quanto materiali fra gli altri. Il punto, al di là dall’utile analogia musicale, è che nella poesia che più c’interessa le parole sono usate per sospendere l’ordinario processo di comunicazione, da qui il lato prevalentemente non propagandistico della migliore poesia novecentesca. La definizione che ho dato, e che è in sintonia mi sembra con il succo del tuo pezzo, è pero’ negativa – la poesia non è comunicazione ordinaria. A questi livello di negatività e astrattezza puo’ fungere da definizione sufficientemente universale, ma appena si prendesse un esempio concreto entreremmo in sottili analisi testuali e non solo. E qui vengo al sodo. Se tu critichi un’ermeneutica povera in nome del “fremito”, che rinvia a una dimensione più sfuggente, musicale, non-concettuale, questo va bene. E’ una prima mossa. Ma se ci fermiamo al fremito ricadiamo nell’ineffabilità, che non ci fa avanzare di granché. Il punto d’arrivo non puo’ essere che quello di un’ermeneutica ricca, ossia critica, ma è proprio questo tipo di esercizio che è difficilmente realizzabile nell’ordinario contesto scolastico o in quello della pagina culturale. Non parliamo poi di quando la poesia va in televisione: li siamo alla caricatura delle riduzione della poesia a concetto di cui tu parli all’inizio.

    • Caro Andrea, mi sembra che siamo più o meno sulla stessa posizione. Puntualizzerei due cose.
      La prima è che le scuole non fanno che riprodurre quella che è stata la critica tradizionale, che resta il modello anche per il giornalismo culturale e (ulteriormente degenerato) per la televisione. Ma resta il modello, ahinoi, anche per tanta critica che fa prefazioni e commenti, e mi sembra essere, statisticamente, nel complesso il modello ancora dominante; il che spiega la resistenza viscerale diffusa che esiste nei confronti della cosiddetta poesia di ricerca, che non viene criticata per quello per cui meriterebbe di esserlo, ma di solito semplicemente rifiutata perché non veicola contenuti sufficientemente definiti.
      Quanto al fremito, naturalmente non è un punto di arrivo, ma un punto di partenza. Quando dico che non si tratta di un orgasmo da eroinomane, ma del rendersi conto di un qualche sconvolgimento interiore, cognitivo, emotivo (tre termini pressoché equivalenti, per me, in questo contesto) intendo anche dire che è proprio di questo sconvolgimento che dobbiamo fare il punto di partenza della nostra critica. E, ancora, non per analizzare le nostre viscere psichiche in quanto tali, ma per cercare di capire come si sia prodotto questo specifico fremito, e che cosa distingua il testo che me lo ha procurato da quelli che non me lo procurano – cercando sempre di capire se si tratta di qualcosa che sommuove solo me, per il mio specifico percorso cognitivo-emotivo precedente (cosa del tutto lecita ma non generalizzabile), oppure se mi sommuove smuovendo quello che può smuovere anche in altri.
      Ancora una cosa. Verso la fine del tuo commento dici: “Il punto d’arrivo non puo’ essere che quello di un’ermeneutica ricca, ossia critica…”. Conoscendo il tuo modo di fare critica, suppongo che tu intenda qualcosa di simile a quello che sostengo e perseguo anch’io. Ma ho una perplessità sull’uso del termine “ermeneutica”, che mi sembra pericoloso e un po’ fuorviante, vista la storia che ha e l’universo da cui proviene. Non so se hai visto il commento (mio) che precede il tuo, là dove cito la Sontag e il suo libro “Contro l’interpretazione”. Io temo che l’uso della parola “ermeneutica” finisca per ricondurci lì – magari non a te e a me, ma le parole non ci appartengono e il loro peso storico si fa sentire.

  8. Gentile Barbieri, condivido la sua analisi sulla obsolescenza di una lettura di testi poetici che ancora privilegia contenuti semantici o valori ideali chiari e precisi, dopo un secolo e mezzo dal simbolismo di Mallarme’ – ad esempio – che ha condotto all’estremo la deliberata sconcretizzazione semantica, creando – o meglio mettendo in luce – l’abisso ontologico che separa segno e significato, usando un linguaggio in cui la denotazione tende a zero e la connotazione all’infinito, per cui la poesia non è più veicolo di materiali concettuali ma sorgente di suggestioni emozionali, come la musica, con un imprevedibile gioco di strutture formali, strategie iconiche, trasgressioni e decomposizione logico-sintattiche. Ma non è vero che questo provochi la scomparsa d’ogni referenza ideologica, di motivazioni e contenuti soggettivi, solo che lo strumento espressivo non è più la lingua convenzionale, magari adorna di metriche e armonie esteriori, come nella poesia tradizionale, che in Italia arriva fino al 900, con Pascoli e Pasolini: il simbolismo, in fondo, non è altro che la versione poetica del nichilismo filosofico, ma esprimerlo in metafore così misteriose, che promanano e destabilizzano l’inconscio (il fremito) come in Celan, Beckett o Kafka, significa percorrere un altro sentiero, diverso da quelli inevitabilmente “interrotti” della filosofia, tentare di rigenerare il pensiero, reintegrandolo alle sue radici emotive, fondare un’altra patria metafisica, abitare una vigilia.
    Tutte illusioni? Forse, ma anche il recanatese (di cui condivido il suo scandaloso giudizio) in fondo ne è vissuto.

    • Gentile Livia, credo che la sua (parziale) obiezione si basi su un equivoco. Io non credo (e non mi pare di aver sostenuto) che quello di cui parlo provochi la scomparsa di alcunché dalla poesia, anche perché parlavo della critica, e non della poesia. Poi, sulla sua conclusione sono di nuovo d’accordo. Purché si accetti il fatto che le referenze ideologiche che (innegabilmente) ci sono, non sono in sé il tema della poesia, né, in sé, la ragione del suo valore. E non è che, semplicemente, nel Novecento si travestano in forme diverse: la critica non può ridurre la poesia a quello, né tanto meno alle motivazioni e ai contenuti soggettivi.

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