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L’appartamento

 

«… devo riprendere dall’inizio? Quale inizio? Quando ho lasciato l’appartamento? È vero, se non avessi deciso di andarmene non sarei qui. Sembrava così semplice, cambiare casa, cambiare vita, semplice, vendere l’appartamento e via, d’un colpo tutto dietro le spalle. Ho deciso quest’inverno, un mattino, su due piedi. Faceva molto freddo, me lo ricordo perché avevo tirato fuori dalla canfora il pellicciotto, l’odore mi aveva dato nausea e ho pensato che mi sarei dovuta comprare un cappotto nuovo. Era un lunedì. Sono sicura. Perché era il giorno dopo, cioè il giorno prima era successa la cosa di Mathias. La data esatta? Non la sa? Una domenica d’inverno. Io, il lunedì mattina, quando mi sono guardata attorno, sono tornata indietro negli anni, quando siamo arrivate, la mamma e io, avevamo improvvisato una festicciola, sul terrazzo, noi due, in mezzo agli scatoloni, c’era un bel sole, le bibite si scaldavano e la crema delle pastine si scioglieva, ma le ho mangiate tutte, e ho bevuto l’aranciata, avevo sette anni e la mamma sembrava allegra. I gerani c’erano già, rosa e rossi, piantati in vasi di terracotta a bassorilievi, lungo due lati; le aiuole le ho fatte molti anni dopo, quando ne ho avuto bisogno. Glielo racconto poi, mi ascolti ora, è importante, quel lunedì mattina, quando ho deciso che non potevo più restare. Non pensavo al pericolo, non pensavo a niente, non volevo né nascondere né svelare, volevo solo andare via, per sempre. Facevo colazione in veranda e guardavo Mimì, dietro la vetrata, giocare con i gerani, grattare la terra. Frugava con le zampe e con il muso nelle ultime piantine, un ossicino è spuntato e un rigurgito di caffelatte mi ha dato un gusto acido in bocca: era ora di andarmene. Trentacinque anni in quell’appartamento, trentacinque anni in quel terrazzo, quindici anni da sola. Ho messo il pellicciotto che sapeva di canfora e sono scesa a comprare il giornale, però il giornalaio sotto casa era ancora chiuso per lutto, il figlio era morto la settimana prima, no, io non c’entro, un incidente stradale. Sono andata in piazza e non avevo i guanti né il cappello. Un dettaglio insignificante? No. Tutto quello che racconto ha un senso, almeno per me. Camminavo con le guance sferzate dal vento glaciale, con le mani livide sprofondate nelle tasche e sorridevo, sì, mi rallegravo del fatto che con quelle temperature avrei potuto rimandare il lavoro di giardinaggio. D’estate invece bisogna sbrigarsi, quando fa troppo caldo è dura. Estate come inverno comunque è un’operazione lunga che richiede applicazione. E una grande calma. La prima volta sporcai dappertutto, non pensavo che un corpo potesse contenere tanto sangue. E tanta carne, e viscere, budella, ossa, muscoli. Ci misi due giorni per tagliare, spezzare, triturare, bollire, gettare, sotterrare. La testa, la volli lasciare intera, tutta intera sotto un albero. Il terzo pino sulla destra, prima del ponte. Non c’è più? È passato tanto tempo! Forse era il quarto pino, forse dopo il ponte. Quella prima volta, fu una fatica, zoppa come sono, si immagini trascinare un bauletto. Il peggio è stato scavare. Dopo un’ora la cavità era ancora piccola e già avevo le mani coperte di piaghe e di vesciche, non ce la facevo più a tenere la pala, allora ficcai dentro le mani nude. Il buco a poco a poco si fece più profondo, abbastanza profondo. All’ospedale mi fecero tante domande. Piangevo, ma non per il dolore alle mani. Mio padre, mio amore, mio adorato, mio tutto, mio troppo, troppo amore, il primo uomo che ho amato, pazzamente, e non era bello, era vecchio ed era stanco. Appoggiavo la faccia sulla sua pancia rotonda, accarezzavo il pelo grigio del petto, e il mondo si esauriva in un’estasi infinita. Aveva la forza e l’ingegno di un animale selvatico, un odore aspro inebriante, le labbra tumide, le mani calde. Mi prendeva senza una parola, senza un bacio, il desiderio era il suo modo di amarmi. Forse. Avrei voluto essere piccola piccola e vivere dentro di lui. Mi mancava, sempre, crudelmente, anche quando c’era. Troppo amore, e lui aveva una moglie e due figli già grandi, e un lavoro importante, e sessant’anni, e io avevo lui, il gatto, i gerani e non ancora trent’anni. Quel lunedì mattina, mentre andavo in piazza a cercare il giornale, ho ripensato a Giovanni e ho pianto. Dovevo ucciderlo per non soffrire. Lei è una donna, mi capisce, vero? Ho pianto, ripensando al cuscino che lo soffocava nella letargia del sonnifero, poi mi sono calmata e mi è venuto in mente che dopo, quando sono riuscita a sistemare tutto, un po’ nei vasi un po’ altrove, a ripulire, a far tornare le cose e la casa nell’ordine che avevano avuto nei vent’anni passati con mamma, dopo, con le mani fasciate e la morte nel cuore, sono andata in un negozio specializzato e mi sono fatta spiegare come piantare le grandi aiuole lungo i bordi del terrazzo… »

«… In piazza ho comprato due riviste di annunci immobiliari, poi sono andata in un bar. Cambiare vita: seduta al tavolino, davanti a un tè gelsomino, me lo ripetevo e il progetto mi sembrava realizzabile, malgrado la brutta faccenda della domenica. Mathias era stato un errore, un’emozione incontrollata, ma l’avrei sistemato in ventiquattro ore e nessuno l’avrebbe cercato, nessuno si sarebbe accorto, era un giovane sbandato, senza patria e senza famiglia. L’avevo ospitato per carità, cominciavo a volergli bene, ma lui chissà cosa si era immaginato. Bevevo il tè al gelsomino, il mio preferito, e mi dicevo che non potevo continuare così, un uomo dopo l’altro. Potevo ancora cambiare vita, non ero vecchia né malata né brutta. Mi sono guardata allo specchio e un ragazzetto con il ciuffo alla moda si è messo a ridere; se voglio, ti ammazzo, ho sussurrato, poi ho ripreso a sorseggiare il tè e a seguire il corso dei miei pensieri. Facevo i conti con la realtà: vendendo il bell’appartamento con terrazza, avrei potuto comprarne uno più modesto in un’altra città e investire il resto. Più la pensione di invalidità, avrei vissuto senza preoccupazioni finanziarie. Ho scelto un’agenzia con uffici nelle due città dove andava eseguita la compravendita. Sono venuti a stimare l’appartamento, mi hanno fatto firmare una serie di carte. L’indomani sono andata nella provincia limitrofa a visitare alcune case. La prima aveva due stanzette più servizi, un balconcino minuscolo, e una cantina. La cantina mi ha fatto esitare. Siamo andati a visitare la seconda, ma c’era una portinaia invadente. Una terza era troppo fuori mano e una quarta era troppo cara. Era ora di pranzo e sono andata in una trattoria, minestra di farro, scaloppina al limone e torta di mele, mi piace mangiare al ristorante, sola, come una donna emancipata. Qualche giorno dopo, il settimo o l’ottavo appartamento, non so più, poteva andare. Due mesi dopo avevo le chiavi. La settimana scorsa. Non ha visto le foto? Ma sì, le foto del soggiorno, con l’impiegato dell’agenzia immobiliare, il corpo… Lo so, non avrei dovuto, ma aveva le mani sudaticce, il collo della camicia unto, lo sguardo bovino e le gambe tozze; mi ha fatto ribrezzo fin dal primo momento, eppure quando mi ha baciato l’ho lasciato fare, e anche quando mi ha toccato, schifoso com’era. Mi sono sottratta all’abbraccio e l’ho invitato a inaugurare l’appartamento. È arrivato in ghingheri, era ancora più ributtante, un sorriso da porco, ho faticato a convincerlo che era meglio mangiare, prima, per avere più forza, poi; ci sono voluti due bicchieri per farlo stramazzare, si è contorto, ha sbavato, non volevo lordare la casa nuova, non volevo ricominciare, era un incidente, un caso da archiviare in fretta, non doveva rovinare la vita nuova. Ma ero troppo sconvolta per procedere con metodo, per la prima volta un corpo esanime mi faceva vacillare. È perché mai avevo agito per odio, e l’amore dà coraggio e pazienza, mentre quel corpo repellente, quegli abiti intrisi di escrementi, il fetore che immediatamente si era propagato nel soggiorno, mi incutevano un tale disgusto dell’umanità in generale e del sesso maschile in particolare che non potevo avvicinarlo. Come procedere? Il lavoro sui corpi è minuzioso, ci vuole dedizione per scuoiare, tagliare, segare, macinare e soprattutto seppellire. Non potevo. L’ho lasciato lì, dove è stato trovato. Sono tornata all’appartamento e mi sono seduta in terrazza… »

«… mio marito è stato il secondo. Il terzo? Vuole includere Marco? Io Marco non lo conto, perché se ne è andato da sé, non l’ho nemmeno toccato, infatti riposa in pace nel cimitero comunale. Sono andata a trovarlo, i primi tempi, gli portavo qualche fiore, gli parlavo, come qualsiasi fidanzata addolorata. Eravamo molto uniti, di un attaccamento forse malsano, Marco mi angosciava, mi stava sempre addosso, però lo amavo, davvero, e mi esaltavo a vederlo eseguire tutte le mie volontà. Tutte, fino all’ultima. Ho smesso di andare al camposanto quando ho conosciuto mio marito. Che uomo! Pieno di qualità: affascinante, intelligente, determinato, brillante. Mi sono chiesta perché mi avesse scelta tra tante donne che gli stavano dietro. Quando è venuto ad abitare da me, ha voluto fare qualche cambiamento, anche se l’appartamento gli piaceva, soprattutto la terrazza, nei mesi caldi era diventata il suo quartier generale. Durante l’inverno aveva sistemato il suo studio in veranda e io avevo trasferito le mie cose giù nello stanzino, e avevo il mio angolino in soggiorno. Salivo a curare i gerani quando Paolo usciva. Dovevo fare attenzione a non toccare niente, se spostavo una penna si infuriava. Abbiamo passato tre anni stupendi: le rare sere che restava a casa, guardavamo insieme la televisione e si addormentava sulla mia spalla. Lo mettevo a letto e lo accarezzavo a lungo, dormiva come un bambino e potevo baciarlo quanto volevo. A proposito, i bambini lo irritavano, infatti quando sono rimasta incinta mi ha detto che non se la sentiva, troppe responsabilità, la carriera eccetera, le solite cose. In fondo lo capivo. L’aborto è stata un’esperienza molto triste; non gliela racconto, non c’entra con questa storia; se vuole, può consultare le cartelle cliniche dell’ospedale, marzo 1983, sì, deve essere stato fine marzo, troverà. Lo sa che non è venuto a trovarmi in ospedale? Anche questo lo capivo. Però non ha dato da mangiare al gatto e nel fondo del mio cuore non gliel’ho perdonato. Perciò un anno dopo l’ho accoltellato nel sonno. Non è corretto, sono d’accordo, ma non ci sarei mai riuscita guardandolo negli occhi, lo amavo troppo. Ho saputo poi, quando c’è stata l’inchiesta per la scomparsa, che aveva diverse amanti, sparse per il mondo, così hanno pensato tutti che fosse scappato con una thailandese, o con una birmana, aveva un debole per le orientali. Qualche anno dopo è arrivato il decreto di morte presunta e sono tornata libera… »

«… le ho detto che non sono stata io, perché insiste? Non avevo nessuna ragione, volevo bene a mio fratello, anche se lo conoscevo poco, aveva quindici anni più di me, e dopo la morte del babbo era andato a vivere in America. Ci siamo incontrati poche volte, funerali, battesimi, feste comandate. Da quando era tornato, ci sentivamo ogni tanto per telefono. Luca era un depresso, ha passato metà della vita tra psicoanalisi, terapie, dottori, veri e ciarlatani, erboristerie e farmacie e ospedali, chieda a sua moglie, no, le assicuro, è stato un suicidio, nessuno l’ha messo in dubbio, aveva già fatto due tentativi. Perché sia venuto a suicidarsi a casa mia non glielo so dire, forse per via della terrazza, avrà pensato che così non avrebbe sporcato i bei tappeti di casa sua, avrebbe evitato di traumatizzare i bambini. Io quella sera non c’ero, ero uscita, la polizia l’ha confermato, quando si è sparato ero al cinema, gli avevo dato le chiavi perché me le aveva chieste, sì, mi aveva stupito, ma era mio fratello e non ho fatto domande, immaginavo un’avventura. L’ho trovato il mattino seguente perché la sera non sono salita in terrazza. C’era materia cerebrale schizzata fin sul muretto del parapetto. Quando hanno portato via il corpo mi ci sono volute ore per pulire, c’erano goccioline di sangue anche sulle foglie dei gerani, le ho lavate e asciugate una a una, ho versato secchi d’acqua per terra, ho strofinato il muretto con una spugna. Il barattolo in cucina? Quale? Non so cosa dirle. Forse qualche residuo, raccolto per la scientifica e poi dimenticato. No, le ripeto, non sono stata io. Per quale motivo dovrei mentire? Mio marito, il mio amante, l’agente immobiliare, Mathias, è tutto. Chi! Giuseppe Lomonaco? Ah, Gigi, l’architetto… »

«… no, oggi non ho voglia di raccontare. Ho già fatto una confessione. Ho fornito prove materiali. Come? No, non è possibile trovare tutto! Ho già spiegato il mio modo di procedere. Per eliminare elementi solidi e ingombranti, facevo bollire la carne, soprattutto le interiora, per l’odore e la consistenza, sa, i curiosi, c’è sempre qualcuno che fruga nelle pattumiere, allora meglio cuocere con un po’ di cavolo, il cavolo è perfetto per confondere i fetori. La carne più tenera era per Mimì, e le ossa andavano come concime per la terra, frantumate o spaccate a pezzetti. Il problema sono le teste, perché dispiace fendere la bocca baciata di un uomo amato. Ho spiegato dove sono sotterrate. Non sono state trovate? Sono state cercate bene? Allora vuol dire che non mi crede! In questo caso, non racconto più niente. Le dico che Gigi l’ho interamente triturato, ci ho messo una settimana ma ne valeva la pena, è stato un lavoro perfetto. Cosa c’entra? Io quel signore africano non l’ho mai conosciuto. L’hanno accoltellato sotto casa mia, e allora? Pensa davvero che potrei sezionare con tanta precisione? Non sono stata io, non è nel mio stile. Io ho eliminato dalla mia vita uomini che amavo perché mi facevano male. Nell’ordine: il mio amante Giovanni, mio marito Paolo, Giuseppe l’architetto, Mathias. Marco e Luca non si contano, e neppure l’agente immobiliare, che è stato un incidente. Non avete trovato le teste? Cercate ancora, cercate meglio, no, io non vi accompagno, non voglio rivedere il bosco, né il giardino, né la terrazza. L’agente immobiliare è vivo? Cosa dice? È impossibile, gli ho versato due dosi di diserbante, l’ho visto rantolare. È una provocazione, lei mi vuole confondere, prima mi accusa di colpe che non ho commesso, ora mi dice che quel porco è vivo. Se lui è vivo, e se l’africano è morto, chi lo ha ucciso? Me lo dica lei, a questo punto per me è lo stesso, l’uno o l’altro, anche nessuno; meglio, nessuno. Mio marito, lo giuro, l’ho ucciso mille volte, con mille pugnalate, e anche a Giovanni ho tolto il respiro, con baci d’amore soffocanti. Guardi le mie mani, le guardi bene, hanno tanto scavato che sono screpolate, grinzose, indurite dai calli, coperte di cicatrici… »

«… devo riprendere dall’inizio? Quale inizio? Quando mi hanno costretta a lasciare l’appartamento? Io stavo in veranda, guardavo Mimì appisolata sul radiatore e sorseggiavo una tazza di tè. Quando tutto ha preso a bruciare, e le fiamme avvolgevano le piante di gerani, ho capito che non potevo restare. Ho preso in braccio Mimì e sono corsa giù per le scale, ho urlato, è venuta gente, mi hanno avvolta in una coperta e messa in un lettino. Volevo solo incenerire le piante; le aiuole erano rigonfie di membra, la terra era putrida di sangue e piena di vermi, i gerani morivano tutti, marci. Mimì non mangiava da una settimana. Faceva molto freddo e mi sono messa il pellicciotto. Era vecchio e sapeva di canfora. Volevo cambiare casa, cambiare vita, vendere, comprare, d’un colpo, tutto dietro le spalle, e via. Sono andata a visitare una casa in affitto, era squallida e buia, l’agente mi indisponeva, parlava e parlava, agitava le braccia, gli puzzava il fiato, la fronte era grassa e imperlata di sudore. Ho vomitato nel corridoio, mi ha fatto una scenata, l’ho ucciso subito e sono tornata nell’appartamento. I muri grondavano sangue, uno strato di polvere d’ossa copriva i mobili, le piante come scheletri impietriti dal gelo scricchiolavano sinistre dietro la porta a vetri della veranda. Mimì miagolava e mi graffiava le gambe. Cosa potevo fare? Cercare i cadaveri, dissotterrare resti di corpi, rendermi alla giustizia degli uomini, smettere di amare oscenamente. Sono uscita, senza guanti e senza cappello, il vento gelido mi sferzava le guance, ridevo, felice come una bambina che fa una marachella, mentre avanzavo zoppicando in mezzo al bosco, il terzo pino era quello di Giovanni, il quarto quello di Paolo, il quinto Mathias, poi gli altri, mi sarebbe bastato ritrovare una testa, disseppellire labbra tumide e poterle baciare, un’ultima volta, farmi perdonare da uno per essere perdonata da tutti, farmi amare da uno per farmi amare da tutti. È scesa la notte e scavavo ancora, la terra era umida e soffice, affondavo le mani tra grovigli di radici, strappavo, estirpavo. Nel giardino di casa, nel silenzio della notte, udivo solo il mio respiro affannoso. Piano piano sono affiorati i capelli, la fronte, gli occhi, sono affiorati i ricordi di un amore disperato. Adesso mi crede. Mi crede perché qualcosa è stato trovato. Voleva una prova tangibile. Ce l’ha. È vero: ho ucciso un uomo, molto tempo fa, e l’ho seppellito sotto un albero di mele…»

 

Prima pubblicazione su Tuttestorie, 6, 2000, pp. 41-46.

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Vivo a Parigi e insegno all’Université Paris Nanterre. Ho pubblicato, anni fa, testi teatrali, racconti, romanzi (l’ultimo: I veri delinquenti, Fazi, 2005). Ho tradotto dal francese saggi e romanzi. In ambito accademico mi occupo di avanguardie/neoavanguardie, letteratura italiana ipercontemporanea, studi femminili e di genere, studi postcoloniali e della migrazione (ultima monografia: Scrivere al tempo della globalizzazione. Narrativa italiana dei primi anni Duemila, Cesati, 2019). Dirigo la rivista Narrativa (http://presses.parisnanterre.fr/?page_id=1301). Leggo i testi che ricevo via Nazione Indiana; se mi piacciono e intendo pubblicarli contatto l’autore, altrimenti no. Non me ne vogliate.
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