Fuga da una comunità mennonita (Ovvero le ironie della storia)

di Roberto Antolini
Gli anabattisti sono stati la parte più radicale della Riforma protestante, la componente che ha subito la persecuzione più feroce, sia da parte cattolica, che protestante (luterana e calvinista). Nella Zurigo cinquecentesca di Zwingli venivano annegati, ricevevano una morte d’acqua, perché d’acqua “peccavano”: la loro caratteristica più riconoscibile era infatti quella di rifiutare il pedobattesimo, il battesimo standard, di default per tutti, fatto in età inconsapevole, e dunque una chiesa “territoriale”, legata al potere politico. Un legame a cui loro si sottraevano appartandosi in congregazioni di comunità “fuori dal mondo”, radicalmente pacifiste (si rifiutavano di partecipare alle guerre del tempo), basate sulla meticolosa applicazione dei precetti evangelici in modo collettivo, identificante, e a volte anche sulla proprietà comune. Le loro comunità sono state cacciate dall’Europa della controriforma e delle guerre di religione, si sono rifugiate prima sempre più ad oriente, per poi finire in America, unico luogo dove hanno potuto sopravvivere e trovare una loro pace operosa. Oggi troviamo comunità rurali di origine anabattista – divise fra le correnti mennonita, hutterita ed amish – soprattutto negli USA ed in Canada, con emanazioni novecentesche in Sud America. Mentre in Europa sono rimasti solo sparuti gruppi mennoniti, urbani e ben inseriti nella società moderna, quasi esclusivamente in Olanda e Germania del nord (Gli Amish hanno avuto qualche anno fa, nel 1985, una loro notorietà mediatica grazie al bel film di successo The Whitnes, Il testimone, con Harrison Ford).
Miriam Toews (Steinbach, 1964) è cresciuta in una comunità mennonita in Canada, per andarsene a 18 anni e diventare scrittrice di successo ed attrice. Nei suoi romanzi viene spesso descritta la società mennonita: famiglie infelici e stritolate da una cultura dagli orizzonti ristretti, da un super-io religiso angosciante e penalizzante, che soffoca la vitalità dell’individuo. E fa un certo effetto incontrare questa erede degli esuli anabattisti fuggiti alle guerre di religione, impegnata secoli dopo in una sua personale rivolta letteraria contro l’oppressione a cui è approdata la ricerca di libertà dei suoi avi: ironie della storia. E occasione per riflettere sui controcircuiti fra trascendenza e routine quotidiana, ideali e realtà, dimensione collettiva comunitaria e soggettività individuale. Francesco Alberoni direbbe: fra “stato nascente” ed “istituzionalizzazione”, e mi sembra la terminologia più corretta.
Donne che parlano (Marcos y Marcos, 2018, € 18,00) si ispira ad un episodio vero, verificatosi in una comunità mennonita della Bolivia, fra il 2005 e il 2009. Le donne della comunità, di notte, venivano narcotizzate e stuprate. Si svegliavano al mattino sanguinanti e doloranti (qualcuna incinta), ma la comunità attribuiva la cosa al demonio, ed a dio che lo permetteva per punirle dei loro peccati. Finché non venne scoperto che la responsabilità era di maschi della comunità. Il romanzo è una «risposta narrativa» (p.9) a questi fatti, e mette in scena i discorsi delle donne riunite due giorni di fila in assemblea per decidere il da farsi, che alla fine decidono di andarsene dalla comunità, con i loro figli piccoli. La forma della scrittura mima i modi di un verbale della riunione: l’affastrellarsi dei discorsi concitati, divaganti, contrastati e intimoriti, perché le donne sono analfabete e prive delle conoscenze  necessarie per una fuga: «siamo donne senza voce – dicono di sé – siamo donne fuori dal tempo e dallo spazio, non parliamo nemmeno la lingua del paese  in cui viviamo. Siamo mennonite senza una patria. Non abbiamo niente a cui tornare» (p.78). Il confronto senza bussola porta a galla una geografia psichica della comunità, le sue modalità di adattamento, e ragiona sulle radici degli attriti. Costruendo – un po’ alla volta – una solidarietà fra le donne, e la faticosa riconquista di un senso per le loro vite, fino alla maturazione della decisione di sottrarsi con una fuga collettiva a quell’inferno in cui erano fino ad allora state immerse, decisione motivata con un ragionamento che non nega le basi della loro cultura, ma ne sviluppa una critica: «migrazione, movimento libertà. Vogliamo proteggere i nostri figli e vogliamo pensare. Vogliamo conservare la nostra fede» (p.245).
La svolta dalla babele iniziale ad un ordine del discorso, verso la decisione finale, prende slancio quando le donne – loro donne analfabete, a cui “la parola di dio” è sempre stata riportata dalle autorità maschili della comunità, fusa all’interpretazione della stessa – arrivano a mettere a punto una propria interpretazione della “parola”, una interpretazione che non le sottomette più ai maschi, ma le libera «Mi balena un pensiero: Forse è la prima volta che le donne di Molotschna [il nome della comunità] hanno interpretato la parola di Dio da sole» (p.190). Significativo come questo passo sembri riproporre, ancora e sempre, la teoria luterana della “libertà del cristiano” (libertà nell’intepretazione della “parola”, da cui nasce tutta la Riforma), come strumento di liberazione, anche dal nuovo contesto di oppressione nato da una vecchia pratica di “libertà del cristiano”, cristallizatasi strada facendo nel suo contrario.
Non sono le donne analfabete – ovviamente – a stendere i verbali delle riunione: all’architettura narrativa serviva un’altra figura. È quella di August, l’unico maschio coinvolto nella rivolta delle donne, colui che scrive, tramanda il senso. Un marginale, cacciato dalla comunità da bambino assieme ai suoi genitori, tornatovi con le pive nel sacco da adulto, a cercare un difficile equilibrio contro la propria tendenza al suicidio, a cercare anche lui un senso della propria vita, che trova in una concreta funzione di supporto (colui che scrive) alla ribellione delle donne. Una specie di allegoria della figura dell’intellettuale déraciné impegnato nei processi di liberazione. Un autoritratto camuffato dell’Autrice, come quelli che certi pittori rinascimentali hanno lasciato in incognito, nascosto nell’anglolo in basso, nei propri quadri.

 

NdR: qui si può leggere la recensione di Gianni Biondillo a un romanzo precedente, “Un tipo a posto”, di Miriam Toews

 

 

 

 

 

(Miriam Toews)

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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