Berenice e il tabù

di Dario Voltolini

(Sempre perseguendo l’intento di far conoscere ai nostri lettori qualcosa della storia più significativa di Nazione Indiana, pubblichiamo oggi un articolo dell’aprile 2003 scritto da Dario Voltolini, uno dei fondatori di questo blog)

Io cercherò di puntare l’attenzione su un aspetto che a me pare problematico della figura di Calvino, della sua poetica, della sua autorappresentazione come scrittore. Si tratta di una tensione irrisolta che patisco io nel mio lavoro di scrittore, e forse è per questo che mi pare di registrarla nel lavoro altrui. È un aspetto del problema generale del rapporto fra la letteratura e l’altro da sé. O meglio ancora, più astrattamente, con l’alterità.

Nell’ultima città delle Città invisibili, che è Berenice, ci sono alcuni punti esemplari, alcuni temi toccati in una maniera precisa e veramente “calviniana”, che risuonano ancora oggi come ricchi e fruttuosi, carichi di senso: Berenice è una tematizzazione che ha ancora moltissimo da dire e da dare a tutti noi che ci occupiamo di queste cose (di scrivere). È la questione del rapporto fra la città dei giusti e la città degli ingiusti. Calvino la dipinge così: c’è un annidamento progressivo della città dei giusti in quella degli ingiusti, ma nella città annidata (che è quella dei giusti), si annida a sua volta un germe d’ingiustizia, dentro il quale (la città degli ingiusti) a sua volta si annida un germe di giustizia e così via, in una fuga infinita di specchi. Sembra un’immagine modellata sulla teoria matematica della ricorsione. Leggo solo questo pezzettino da Berenice: “Nel seme della città dei giusti sta nascosta a sua volta una semenza maligna; la certezza e l’orgoglio d’essere nel giusto – e d’esserlo più di tanti altri che si dicono giusti più del giusto – fermentano in rancori rivalità ripicchi, e il naturale desiderio di rivalsa sugli ingiusti si tinge della smania d’essere al loro posto a far lo stesso di loro. Un’altra città ingiusta, pur sempre diversa dalla prima, sta dunque scavando il suo spazio dentro il doppio involucro delle Berenici ingiusta e giusta. Detto questo, se non voglio che il tuo sguardo colga un’immagine deformata devo attrarre la tua attenzione su una qualità intrinseca di questa città ingiusta che germoglia in segreto nella segreta città giusta: ed è il possibile risveglio – come un concitato aprirsi di finestre – d’un latente amore per il giusto non ancora sottoposto a regole, capace di ricomporre una città più giusta ancora di quanto non fosse prima di diventare recipiente dell’ingiustizia. Ma se si scruta ancora nell’interno di questo nuovo germe del giusto vi si scopre una macchiolina che si dilata come la crescente inclinazione a imporre ciò che è giusto attraverso ciò che è ingiusto, e forse è il germe di un’immensa metropoli”.

Qui, a parte il fascino di questa immagine annidata in se stessa di fasi e di livelli uno l’opposto dell’altro, c’è una cosa che mi colpisce ancora oggi come alla prima lettura delle Città calviniane. Io non sono uno studioso di Calvino. Ma in quanto scrittore io sento che qui c’è una sorta di richiamo che io, nella mia attività di scrittura, ho cercato ripetutamente di non vedere, di evitare, per riuscire a fare il mio lavoro (perché quando si passa vicino a un pianeta di queste dimensioni, come Calvino è, si rischia di deviare dalla propria rotta per la forza di gravità altrui). Ma alla fine immancabilmente succede che i conti si devono fare. Cominciamo quindi a farli.

Arrivo al punto che mi preme, quello della tensione irrisolta, del blocco che persiste in Calvino. Il passo illuminante – che mi colpisce sempre come una sorpresa – è il seguente, dove Calvino fa concludere a Marco Polo il racconto di Berenice: “Dal mio discorso avrai tratto la conclusione che la vera Berenice è una successione nel tempo di città diverse, alternativamente giuste e ingiuste. Ma la cosa di cui volevo avvertirti è un’altra: che tutte le Berenici future sono già presenti in questo istante, avvolte l’una dentro l’altra, strette pigiate indistricabili”.

Ciò che trovo sorprendente, qui in Berenice, è questa doppia costruzione calviniana: da una parte una stupefacente fuga ricorsiva nel tempo, dall’altra la negazione stessa del tempo, con l’immagine della compresenza delle Berenici future nell’istante presente (in un istante presente indifferenziato e privo di sviluppo temporale). Non è una mera questione di retorica del discorso, qui c’è dell’altro. Qui c’è, secondo me, un tabù di Calvino, il punto cieco del suo occhio così acuto e penetrante. Che senso ha questa collana che si sgrana nel tempo e che viene evocata al fine di negarla, perché Calvino opera questa negazione, quale forma logica di discorso è mai questa? Marco Polo fa bene a sospettare che il Gran Kan abbia “tratto la conclusione che la vera Berenice è una successione nel tempo di città diverse”: glielo ha appena detto lui! Non solo glielo ha detto, ma glielo ha anche suggerito con le proprietà dinamiche delle immagini con cui gliel’ha descritta: ruote che si incepperanno, un nuovo meccanismo che arriva, la cucina che rievoca un’antica età dell’oro, dati da cui dedurre un’immagine della Berenice futura, rancori che fermentano, una città che sta scavando il suo spazio, il risveglio di un amore per il giusto, una città più giusta ancora di quanto non fosse prima di diventare ingiusta, una macchiolina che si dilata, la crescente inclinazione. E poi, soprattutto, l’esito di queste spinte dinamiche: la visione di una immensa metropoli come esito (anche retorico e narrativo) del “crescendo” delle Berenici. Ora, una prima tensione è già qui: la fuga di specchi di Berenice è infinita, ma ecco che un suo esito nella figura della metropoli immensa la contraddice. Calvino qui sembra ipotizzare una discontinuità qualitativa. Il processo di rispecchiamento/annidamento della Berenice giusta in quella ingiusta non procede come una retta (o una semiretta, a partire dall’età dell’oro), ma mette capo a una discontinuità (la metropoli), a una formazione diversa.

Ma la vera tensione, la tensione grande, è un’altra, di cui questa non è che l’ancella. La tensione grande è quella fra un processo che avviene nel tempo (la fuga delle Berenici) e uno stato stazionario (la città che Marco rivela infine al Gran Kan). La figura della metropoli non è che il ponte gettato fra queste due visioni opposte. La figura della metropoli è un giunto retorico che permette a Marco (a Calvino) di operare questo slittamento vertiginoso dalle premesse a una conclusione che le nega. Questa è una lotta di Calvino contro il suo tabù: il Tempo. Che sia una lotta è segnalato anche dall’andamento non razionale del discorso. Nella lotta, nemmeno Calvino può giocare pulito. La partita è in tre fasi: 1) una città si capovolge nel suo contrario e viceversa, in un film che è sì temporale, ma piatto e infinitamente uguale a se stesso; 2) se anche così non fosse, cioè se questo film non continuasse sempre uguale, ma mettesse capo a una novità qualitativa, come per esempio una immensa (infinita?) metropoli, tutti i processi di capovolgimento nell’opposto sarebbero attivi in essa (contemporaneamente?); 3) infatti Berenice in realtà è un punto senza tempo in cui nulla si può sviluppare e tutto è compresente (inestricabilmente, senza sviluppo alcuno: una fotografia).

È curioso, è sintomatico, che per arrivare a una tale conclusione Calvino abbia inventato questa immagine bellissima del sì e del no annidati uno dentro l’altro. Prima ci propone una fuga infinita di specchi nel tempo, ma poi ci dice che invece le cose sono tutte compresenti. Cosa nega? Questo è il punto che mi fa pensare che c’è una questione aperta, palesemente aperta, di Calvino nei confronti del tempo. E, per un narratore, il tempo non è una cosa qualunque. Per un narratore il tempo è La Cosa.

Ora però vorrei fare un passo laterale, una mossa del cavallo, per così dire. Vorrei andare, cioè, all’inizio della prima delle Lezioni americane che è la croce su cui Calvino stesso si è crocifisso, secondo me: con la notissima questione della leggerezza. Ormai funziona sempre così, che bisogna citare questo punto, per forza, quasi pavlovianamente. Calvino: la leggerezza. All’inizio di quella lezione, Calvino dice – vado a memoria, non ho qui con me il passo – di avvertire una tensione fortissima fra l’opacità, la pesantezza, la brevità, l’inamovibilità, della realtà e del mondo, e invece il linguaggio, la lingua, la letteratura che lui voleva fare, picaresca, agile, versatile, brillante, tagliente, argentata, scattante. Dice che tra quello che avrebbe dovuto essere il materiale per il suo lavoro (il mondo, la realtà) e la sua scrittura lui ormai avverte un divario insanabile. Dice di non voler fissare lo sguardo dentro quella massa greve e inerte che è il mondo reale, perché sarebbe come fissare negli occhi la Medusa, resterebbe pietrificato. E così si è inventato, come del resto anche la mitologia aveva inventato, la possibilità di guardare verso quel mondo tramite riflessi, indirettamente, con degli specchi, con triangolazioni.

Personalmente, non cioè in modo criticamente e scientificamente fondato, ritengo che le Città invisibili siano l’esempio più convincente del gioco di specchi di Calvino. Un gioco attraverso il quale attingere una cosa che direttamente non si può guardare; questa cosa che direttamente non si può guardare, richiamata nell’immagine del peso del mondo, è ciò a cui mi riferivo prima con il nome astratto di alterità. Calvino sa che non può liberarsi dall’impegno di trattare con questa alterità (nessuno scrittore lo può), ma tenta una via obliqua per farlo. Tesse una serie di reti, allestisce una serie di trappole per avere ragione dell’alterità, alla ricerca di risultati anche solo parziali, precari, mutevoli. Si rivolge al discorso letterario già sviluppato, a quello scientifico: a elaborazioni già date dell’alterità. Qui c’è in nuce tutto il Calvino metaletterario (e nel confronto con la temporalità – che dell’alterità è l’aspetto più pietrificante – c’è tutto il Calvino metanarrativo).

La contingenza, la mortalità, la limitatezza, l’unicità, il nulla: questa alterità totale, questa nostra Medusa privata e di specie, viene irretita da Calvino nel gioco delle possibilità infinite. O, meglio, Calvino tenta questa soluzione – e nelle Città invisibili meglio che altrove (di nuovo un giudizio non “da critico”: in Se una notte d’inverno un viaggiatore Calvino rigioca la carta dei possibili, ma siamo già al limite estremo di questo gioco, il punto in cui il gioco mostra il suo limite). Il tentativo di fare questa lista di città così a scacchiera, che lui ha inventato, è il tentativo di dire, di raccontare, di scrivere tutte le città possibili. Per ovvie considerazioni insiemistiche, fra tutte le città possibili ci sono anche tutte le città reali, passate, presenti, e future. Il fatto è che una qualunque città reale è una delle città possibili. Ma il gioco non funziona più se si sostituisce “immaginabile” a “possibile”. Se noi potessimo effettivamente (forse è questa l’intuizione calviniana) tramite la letteratura, tramite il genio inventivo, immaginarci tutte le possibili città, riusciremmo a immaginarci anche tutte le città che ci sono, che ci sono state e che ci saranno. Ma non funziona così, purtroppo. Ci sono città che esistono e che non erano immaginabili prima. L’insieme delle cose immaginabili e l’insieme delle cose reali non si mangiano completamente uno con l’altro, ma anzi si sovrappongono in una maniera che ci lascia sempre sgomenti. Ci sono dei fatti inimmaginabili che accadono. Quindi, per tornare alla questione di prima, se noi effettivamente potessimo avere una visibilità piena e totale sull’estensione del tempo, dello spazio, avanti e indietro, presente, passato e futuro, se noi potessimo descrivere, anche tramite combinazioni di matrici a scacchiera, tutto ciò che c’è, ingabbieremmo davvero tutto ciò che realmente c’è. Avremmo davvero fatto un brutto tiro alla Medusa. Sarebbe lei, a questo punto, quella che non saprebbe più dove guardare. Tutto sarebbe specchio riflettente. L’avremmo messa sotto scacco.

Ma noi, questo, non lo possiamo fare. E il segno di questa impossibilità, secondo me, sta nella questione del tempo, il tempo come luogo dell’alterità, non il tempo come dimensione fisica quantitativa: qui è il tempo che distrugge, il tempo che fa nascere, il tempo che fa morire, il tempo che permette, ed è anzi la causa, dei mutamenti. Il tempo che è il luogo delle discontinuità, delle catastrofi. Del nuovo, dell’imprevisto. Della nostra infinita ignoranza e miopia epistemica.

Un esempio banale. Non possiedo il dato preciso, ma so che oggi, per la prima volta nella storia, il 60% della popolazione mondiale vive in città. Prima era la minoranza delle persone quella abitava nelle città, ora la maggioranza. Questo fatto produrrà o non produrrà un cambiamento qualitativo? Questo noi non possiamo prevederlo neanche in una fuga di possibili Berenici, che infatti sono annidate nel sì e nel no, ma sempre sullo stesso piano. L’immensa metropoli prefigura uno stato stazionario, oppure esattamente l’opposto? Non lo possiamo sapere (lo possiamo però temere). Noi con tutta la nostra combinatoria letteraria inseguiamo i fatti, ma non c’è niente da fare: questo è uno scacco drammaticamente reale, ma anche squisitamente teorico, in cui viene a porsi colui che si illude che sia possibile posare uno schema immobile sul molteplice imbrigliandolo in via definitiva. Ed è sintomatica questa frase che ho letto per la prima volta poco fa in un libro che mi è stato dato stamattina. Qui Calvino dice: “Noi solleviamo i nostri occhi dalla pagina per guardare nel buio”.

Qual è il punto allora? Quali sono i conti da fare con Calvino? Qual è la dinamica vertiginosa con cui si presentano ancora oggi a noi, soprattutto a chi scrive, tutte le sfide che non sono state risolte ma che sono state poste da Calvino? Il punto è che quando si è di fronte all’irriducibilità, all’illeggibilità, all’alterità di un dato, di una realtà, ci sono vari modi di reagire. Il modo di Calvino è quello di volgersi altrove alla ricerca di alterità almeno in parte già elaborate (ridotte a similarità) da giocare come scudo (come arma) nei confronti della Medusa. Il gioco di specchi. Per l’autore delle Città invisibili la città in cui si sta bene è la città leggibile. Ricordo di aver letto da qualche parte che per Calvino era Parigi la campionessa delle città. Parigi era proprio una città leggibile. Lui andava in giro per Parigi e leggeva direttamente dai muri, dalle strade, le cose che gli interessavano. Parigi era per Calvino una città mescolata con la scrittura, una città culturale, cioè un testo. Naturalmente è immediato scorgere fra le ragioni che rendono leggibile Parigi il fatto che è una città già molto letta (e scritta).

Ma il compito di chi scrive, almeno in certe circostanze, o uno dei compiti di chi scrive, è quello di confrontarsi con la totale illeggibilità, con l’alterità, impegnandosi totalmente per renderla (un poco più) leggibile da qualcun altro. Scrivere è rendere qualcosa leggibile. Il punto, la soglia sulla quale si è mosso Calvino (e che resterà per sempre una soglia, visto che la morte lo ha fermato mentre stava per oltrepassarla, indicando a noi tutti in quale direzione avesse deciso di proseguire – perché è evidente che Calvino fosse in procinto di andare in qualche “nuova” direzione) è quella del discrimine fra la riduzione dell’alterità a leggibilità (a prossimità) e la riproposizione del già leggibile in ulteriormente leggibile. Si tratta di un discrimine che Calvino ha spesso tematizzato in piena consapevolezza, problematizzandolo, ragionandoci su. Come questo tema, che già si innesta su una tensione, si ibridi in Calvino con quello della temporalità, che io interpreto come contenente un tabù, apre uno spazio di indagine sulla narrativa di Calvino che è ben lungi dall’essere esaurito. Calvino è un autore percorso da infinite tensioni, da improvvise fessure. Nonostante abbia fatto di tutto per darci, oltre all’opera e alla vita, anche un’interpretazione e una biografia (o forse proprio per questo) è uno degli scrittori italiani più misteriosi del secolo scorso. Sebbene in vari interventi saggistici a più riprese Calvino si sia misurato con oscurità, enigmaticità, opacità e alterità, è soprattutto nei suoi cristalli più puri che si apre l’abisso scuro. Forse perché rimosso, forse perché negato, forse perché lasciato dietro le spalle. E le Città invisibilisono il suo diamante.

Intervento fatto al convegno Altrove, altravolta, altrimenti. Calvino, il non visibile e l’immaginario urbano a 30 anni da le Città invisibili.
Palazzo della Triennale.
Milano, 8-9 novembre 2002

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1 commento

  1. Diciamo che Calvino é scrittore da primo della classe. Domina lessico e sintassi e chiarezza espositiva. Lo stesso dicasi per il Voltolini. Personalmente di gran lunga preferisco il ‘brocco brado’ Fenoglio in cui niente appare filtrato dal cosiddetto mentale. Rievocare questo intervento del 2002 a che serve? NI tutto sommato é calvinista e pazienza.

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