Nelle terre esterne. Geografie, paesaggi, scritture

di Matteo Meschiari

[Abbiamo chiesto al geoantropolgo Matteo Meschiari di presentare ai lettori di Nazione indiana il suo libro, appena uscito per i tipi dell’editore Mucchi, con prefazione di Andrea Cortellessa. La citazione d’apertura è tratta dall’Introduzione]

«…i testi letterari, per quanto siano le cristallizzazioni di un io in un’epoca data, restano in ogni caso degli etnotesti, dei documenti spontanei che registrano, nella storia individuale e collettiva, i maggiori “fare spazio” dell’uomo, Dasein, Umwelt e Weltanschauung, cioè modi, strategie e narrazioni del suo stare al mondo nel mondo. Il testo letterario che affronta problemi di spazio può essere considerato insomma come un’etnogeografia, che mescola risorse interpretative individuali e coordinate ermeneutiche e culturali di un soggetto e di un gruppo. In altre parole, all’intersezione tra libertà di azione del singolo (agency) e normatività culturale (condivisa, criticata, subita), il testo letterario si candida come un documento in grado di fotografare, nel loro farsi e nella loro criticità, dei modelli esplorativi dello spazio, delle cartografie verbali, degli esercizi di lettura terrestre. È appunto la loro natura liminale, tra il liscio e lo striato, tra l’intuitivo e lo strutturato, tra l’individuale e il sociale, che rende i paesaggi verbali un terreno di studio privilegiato, non per scrivere una storia del paesaggio in letteratura o una storia paesaggistica della letteratura, ma per analizzare in termini geografici la crescita e la crisi della ragione paesaggistica. Che cosa bisogna cercare, allora, in un testo geoletterario?»

Esistevano già molti libri, anche importanti, su paesaggio e letteratura, su geografia e letteratura, su ecologia e letteratura. Il vettore ermeneutico, in genere, è quello che muove dal contributo di altre discipline per aiutare il critico letterario e l’italianista a farsi un’idea sull’opera di un dato autore. Meno frequentemente accade il contrario, cioè quando la produzione di un dato autore viene interrogata per illustrare dinamiche extra-letterarie, in ambiti disciplinari diversi, come ad esempio la geografia e l’antropologia. Certo, il beneficio interdisciplinare è sempre a due sensi, e in questo libro m’interessava ragionare su alcuni autori, anche molto studiati, per esplorare il loro sguardo sul paesaggio, e contemporaneamente provare a capire qualcosa di più sul paesaggio in generale, cioè come e perché Homo sapiens abbia “inventato” il paesaggio, abbia ragionato in termini paesaggistici, abbia paesaggificato il pensiero. Per questo ho confrontato due “zone sensibili”, diverse e in qualche misura complementari, la Liguria (Sbarbaro, Calvino, Biamonti) e la Lombardia (Manzoni, Stoppani, Gadda) e ho provato a verificare se le specificità ambientali delle due regioni avevano una corrispondenza nella reinvenzione letteraria delle stesse. Ho usato in partenza due modelli, in realtà due ipotesi di lavoro, per la Liguria la metafora deleuziana del rizoma e per la Lombardia il corema, una modellizzazione dello spazio che passa attraverso una rielaborazione intellettuale più accentuata, più orientata a leggere una struttura (più o meno) ordinata nella realtà. Ma si trattava di un semplice punto di partenza, che nasceva da una facile intuizione: da un lato la “linea ligustica” e la tendenza a rappresentare il paesaggio come un luogo da attraversare con il corpo, “ricostruito” a livello verbale per enfatizzare una dimensione esperienziale (fisica, mentale) dello spazio; dall’altro una vocazione allo sguardo cartografico, all’impegno cosmografico, con un paesaggio che tende a diventare una specie di metonimia/metafora del mondo.

I risultati che ho ottenuto, adottando ove possibile la critica delle varianti di Gianfranco Contini e comunque la critica stilistica di Leo Spitzer, sono in parte coerenti a questa doppia modalità dello sguardo, ma il risultato a monte, quello più generale, è stato riconoscere e descrivere delle strategie di rappresentazione dello spazio che aiutano Homo geographicus ad addomesticare il mondo, a procurare un’immagine articolata del mondo in grado di compensare il disorientamento e il senso di esposizione di fronte alla sua vastità. Infine, con questo libro, volevo cercare una risposta a una preoccupazione più personale, più politica, direi. L’impoverimento lessicale, l’incapacità descrittiva dell’uomo di fronte alla complessità del paesaggio, cioè del mondo, è forse una causa dell’impoverimento percettivo di fronte alla varietà e alla diversità delle cose. Una deriva pericolosissima, mi sembra. In questo senso, studiare autori molto significativi per la loro capacità di “scavo” spaziale, significava per me riappropriarsi di un lessico paesaggistico, di modalità descrittive paesaggistiche altrimenti atrofizzate.

E in un contesto sociale in cui le dinamiche di potere sembrano mirare all’appiattimento culturale, all’estinzione dell’occhio critico, all’impoverimento della parola e dello sguardo, continuare a ragionare sul paesaggio, sui suoi modi, sulle sue rappresentazioni, sul suo potere ermeneutico e cognitivo, significa per me fare resistenza politica in senso stretto.

 

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Vivo a Parigi e insegno all’Université Paris Nanterre. Ho pubblicato, anni fa, testi teatrali, racconti, romanzi (l’ultimo: I veri delinquenti, Fazi, 2005). Ho tradotto dal francese saggi e romanzi. In ambito accademico mi occupo di avanguardie/neoavanguardie, letteratura italiana ipercontemporanea, studi femminili e di genere, studi postcoloniali e della migrazione (ultima monografia: Scrivere al tempo della globalizzazione. Narrativa italiana dei primi anni Duemila, Cesati, 2019). Dirigo la rivista Narrativa (http://presses.parisnanterre.fr/?page_id=1301). Leggo i testi che ricevo via Nazione Indiana; se mi piacciono e intendo pubblicarli contatto l’autore, altrimenti no. Non me ne vogliate.
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