Infanzia

di Barbara Lisci

Io quando sono nata me lo ricordo. Mia madre strinse le labbra fra i denti, che tanto sapeva che gridare non le sarebbe servito a nulla. E nemmeno imprecare. Io ero il suo secondo, atroce, dolore. Lo sapeva dal primo: mio fratello. Aveva sputato, gridato infamie, pregato Iddio. Ma il dolore non era cessato. Anzi, era stato un crescendo vorticoso che la faceva impazzire. In quelle grida strazianti, vi si poteva leggere di tutto: il terrore di finire come tzia Mariedda, inferma sulla sedia a rotelle, l’orribile fracasso degli ossicini rotti, com’era accaduto a signorina Elvi, quando avevano dovuto estrarle con la forcipe il bambino ormai morto, la frustrazione di una vita passata senza gioie, ma solo rassegnazione e sacrifici.

Eppure venni al mondo rosea e liscia, come se non avessi ereditato alcuna sofferenza. I primi anni li passai nella totale incoscienza, ma con una curiosità irresistibile verso il mondo delle cose, delle persone e dei colori. Mio fratello, di quindici mesi più grande, era il mio eroe. Io lo emulavo in tutto, persino quando pisciava nel vasino. Anch’io machio – dicevo, abbassandomi i calzoncini e le mutande. Mi tiravo il bottoncino dell’ombelico e con una mano tenevo il vasino. Ma poi la pipì usciva da “ancora più sotto”, formando una pozza calda sul pavimento. I miei ridevano, ma certe volte mia madre strillava che aveva appena lavato il pavimento. E io non capivo cosa avessi sbagliato.

Fervente cattolica, all’asilo mia madre ci mandò dalle suore in su bixiau becciu. Capii presto che lì, era vietato sbagliare. Vietato sporcarsi il grembiulino rosa, vietato portare i calzoncini per le bambine, vietato urlare di gioia scendendo dallo scivolo. La trasgressione veniva sancita in punizioni corporali, castighi che duravano ore restando immobili nel corridoio e nel continuo stillicidio psicologico del “Gesù si arrabbia”! L’ultima volta che Gesù si arrabbiò avvenne quando mio fratello scappò dall’asilo. Stanco di stare in piedi a contare le pietruzze incastrate nelle mattonelle, quatto-quatto, Andrea aveva varcato l’uscio, attraversato il cortile di ghiaia e scavalcato il cancello. Le suore l’avevano cercato dappertutto, prima di chiamare i carabinieri, svuotando persino la vasca dei pesci rossi. Mio fratello era semplicemente tornato a casa, a riposarsi. Aveva attraversato mezzo paese, e pure i binari della ferrovia, fermandosi davanti alle locandine del cinema, per leggere la programmazione in corso.

Le suore avevano nomi inusuali. Si chiamavano suor Candida, suor Immacolata, suor Maria. Qualche tempo dopo scoprii che non erano altro che nomi fittizi, scelti nel noviziato da loro stesse. In realtà, all’anagrafe, avevano nomi lunghi e desueti: Ermenegilda, Veneranda, Eustachia. Io, ingenuamente, ne avevo dedotto che se alla nascita ti appioppavano un brutto nome, l’unica salvezza che ti restava per cambiarlo, era quella di diventare suora! Quello che non riuscivo a capire però, era perché la parola divina del vangelo dispensasse tanto amore e loro, le serve di Dio, fossero così cattive.

La volta che mi toccò la più grande punizione eravamo sotto Natale, quando il “Gesùbambino” dell’asilo mi aveva portato una bambola di pezza. Fu anche la mia prima delusione, perché avevo pregato tutto l’anno e speravo di ricevere il camion come quello di mio fratello. Invece tra le mani, lo sguardo terrorizzato della bambola di pezza, guardava proprio me. Avevo strillato e pianto come un’ossessa tutto il pomeriggio, fino a farmi mancare il respiro. Quando mio padre arrivò a prenderci, io me ne stavo buttata a terra con la faccia tutta rossa e i pugni stretti in una morsa di rabbia e disperazione. Ma non c’era verso di farmi ragionare.
– Le femmine giocano con le bambole, disse mio padre.
Ma non aveva molta pazienza, e nemmeno argomenti convincenti. Così, mi strappò dalle mani quell’orrore di pezza, lo portò dalle suore e tuonò: – Datele il camion!
Loro, rosse dalla vergogna, avevano dovuto ricapitolare e io sapevo che l’avrei pagata cara.

A cinque anni, curiosa come una scimmia, mi apprestavo a compiere il mio primo progetto di sabotaggio della Fede. Da sempre, ebbi la convinzione che sotto il loro velo, le suore portassero i capelli corti come quelli dei soldati. Se fossi riuscita ad averne le prove, giurai a me stessa che non avrei più indossato una gonna. Misi le dita a mo’ di pinzetta e tirai con tutte le mie forze di bambina. La testa svelata di suor Candida era rasata e grigia, piena di forfora e chiazze rosse. Per poco non bestemmiò, tirandomi un ceffone e riprendendosi il suo velo nero. Le altre suore erano accorse in suo aiuto e io fui portata per un orecchio dalla direttrice. Mia madre fu chiamata a rapporto, mi picchiò anche lei e tornammo a casa con la pena di venticinque preghiere al giorno e con la promessa che non l’avrei fatto mai più.

All’epoca mi ero messa in testa che da grande volevo fare la missionaria. Scoprire mondi lontani, viaggiare con l’aereo, andare a conoscere i bambini che morivano di fame, perché quando non volevo mangiare il minestrone coi cavoli, le suore mi obbligavano a finire tutto nel piatto dicendomi: – Per ogni volta che non vuoi mangiare il minestrone, un bambino sta morendo nel Biafra. E io, per quanto spremessi le meningi del mio piccolo cervello, non riuscivo a capire il nesso tra il minestrone e il bambino che muore di fame. Ma nonostante tutto, il mio senso di colpa era perenne. Un giorno dell’ultimo anno d’asilo, ch’era il 1978, faceva un’afa insolita, tant’è che le suore abbassarono tutte le saracinesche perché il vento, simile a quello che emetteva il phon, non disturbasse il quotidiano riposino pomeridiano. Stavamo tutti chini con la testa sul banco a far finta di dormire, per far piacere a Suor Maria quando bussarono alla porta e Suor Giovanna entrò in lacrime: – Hanno ucciso Aldo Moro, disse, e si abbracciarono tra le lacrime e le convulsioni. Quando tornai a casa dissi a mia madre: – Mamma oggi è morto un vicino di casa delle suore. Mia madre cominciò a piangere anche lei, però alternando risate e lacrime e io non ne capivo il perché.

Ho fatto la comunione vestita da monachella con l’abito di mia cugina, perché mia madre non aveva soldi per comprarmi il vestito da sposina come quello di Flavia, la mia amica del cuore. Dopo di che, ho cominciato a bigiare la messa; un po’ per la vergogna di essere stata immortalata con quella orribile tunica color crema e quel velo ch’era simile a quello di suor Candida; un po’ perché la messa era uguale a quella della domenica precedente e dell’altra ancora e io ne conoscevo a menadito tutto il procedimento: in piedi, seduti, in ginocchio. E quando mia madre ci dava le 100-200 lire per l’offerta ai poveri, io uscivo di casa col vestito della domenica e trainavo mia sorella ai giardinetti. Con quei soldi compravo un sacchetto di patatine, e dividendocele, convincevo Emanuela a non dire nulla a mamma, che tanto eravamo poveri anche noi.

Quando trovarono il ragazzino, nudo, sulle gambe di Don Lecca, nel mio vicinato scoppiò un casino: c’era chi parlava di pedofilia (ma io non sapevo cosa volesse dire), chi ritirò i suoi figli dal catechismo, chi difendeva il parroco dicendo che le sue mani erano quelle di gesù, ricordando i versetti del vangelo: Lasciate che i pargoli vengano a me. Io, dal quel giorno, non misi più piede in una chiesa e smisi di credere nelle favole.

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9 Commenti

  1. Quante parole portatrici di un senso profondo! Uno spaccato di una quotidianità lontana ma che avvolge come una coperta vecchia che vorremmo cambiare ma non riusciamo per i ricordi evocati. Una lacrima riga il viso di fronte ad una crudele realtà, passata sicuramente ma gravida dei tempi che ancora sono. Grazie per questa condivisione.

  2. Quanta umanità e quanta terribile verità in questo racconto. Ci siamo passati un po tutti e quelle suorine mettono tanta tristezza. Per la loro misera esistenza, soprattutto. Grazie di aver ricordato quegli anni..

  3. Barbara, sei bravissima! E in questo momento un commento più pregnante non mi viene… Sarà l’ora. Ti voglio bene e se vuoi ti mando un camion del mio bambino. Bisous

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Mariasole Ariot ha pubblicato Essendo il dentro un fuori infinito, Elegia, opera vincitrice del Premio Montano 2021 sezione opera inedita (Anterem Edizioni, 2021), Anatomie della luce (Aragno Editore, collana I Domani - 2017), Simmetrie degli Spazi Vuoti (Arcipelago, collana ChapBook – 2013), poesie e prose in antologie italiane e straniere. Nell'ambito delle arti visuali, ha girato il cortometraggio "I'm a Swan" (2017) e "Dove urla il deserto" (2019) e partecipato a esposizioni collettive.  Aree di interesse: letteratura, sociologia, arti visuali, psicologia, filosofia. Per la saggistica prediligo l'originalità di pensiero e l'ideazione. In prosa e in poesia, forme di scrittura sperimentali e di ricerca. Cerco di rispondere a tutti, ma non sempre la risposta può essere garantita.
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