LUCANO, Farsaglia I, 1-127

traduzione isometra di Daniele Ventre

Più che civili le guerre nel mezzo dei campi d’Emazia,
dato diritto al delitto cantiamo, e del popolo forte
che con la mano vittrice nei visceri suoi si rivolse,
e imparentate le schiere, e come, spezzatosi il patto
per il potere, ogni forza del mondo squassato fu in gara
per nefandezza comune, a insegne nemiche le insegne
volte di contro, pari aquile e lance a minaccia di lance.
Quale follia, cittadini, che immane sfrenarsi di lame?
Piacque d’offrire a nazioni aborrite il sangue latino,
e scatenare le guerre votate a non dare trionfi,
quando spogliare d’ausonii trofei Babilonia superba
era nostro obbligo e Crasso vagava ombra senza vendetta?
Quanto di terra e di mare, ah, avrebbe potuto aquistarsi
con questo sangue che hanno bevuto le mani civili,
donde il Titano si leva, ove notte occulta le stelle,
dove per il ribollire delle ore il meriggio divampa,
dove una rigida bruma che mai sa piegarsi al disgelo,
fa nel rigore di Scizia rapprendere un mare di ghiaccio!
Sì, sotto il giogo già i Seri andrebbero e il barbaro Arasse
e qual che sia, la nazione che sa delle fonti del Nilo.
Poi, se in te, Roma, è sì grande la brama di guerra nefanda,
quando alle leggi del Lazio avrai tutto il mondo piegato,
volgi le mani su te: non ti manca ancora un nemico.
Ora, che pendano mura da semidistrutte dimore
nelle città dell’Italia e giacciano enormi macigni
dalle pareti in rovina, né veglia le case un guardiano,
e nelle antiche città s’aggirano radi abitanti,
che di cespugli sia irta e che per molti anni inarata
resti l’Esperia, se mancano ai campi le braccia richieste,
Pirro feroce, non tu di simili stragi sei reo
e non il Punico: mai toccò ad altri tanto in profondo
spingere il ferro: alta piaga di mano civile marcisce.
E tuttavia, se diverso cammino al venturo Nerone
non ritrovarono i fati e a gran prezzo acquistano eterno
regno gli dèi, se poi il cielo a servire il nume Tonante
non si ridusse che dopo le guerre coi truci giganti,
superi, non ci dogliamo già più; quei delitti e l’infamia
piacciono a simile prezzo. I campi crudeli Farsalo
riempia di sangue e ne siano satolli anche i punici mani;
definitive battaglie accendano Munda funesta;
la carestia di Perugia, gli affanni di Modena a tanti
fati s’aggiungano, Cesare, e flotte che preme l’impervia
Leucade e sotto la vampa dell’Etna i conflitti servili;
molto però deve Roma comunque alle guerre civili:
già, fu per te questo dramma. Te, quando al compirsi del tempo,
tardo fra gli astri verrai, la reggia del cielo superno
accoglierà fra la gioia del polo, o ti piaccia tenere
scettro, o magari salire sul carro fiammante di Febo
e illuminare col tuo erratico fuoco la terra,
che non paventa quel cambio di Sole, a te ognuno dei numi
cederà spazio, e natura ti concederà di diritto
l’essere il dio che vorrai, dove porre il regno sul mondo.
Non sceglierai tuttavia il circolo artico a sede,
né sarà il polo avvampante, ove l’Austro opposto s’aggira,
luogo da cui Roma tua con obliqua stella vedresti.
Quando su un’unica parte dell’etere immenso pesassi
l’asse ne sentirà il peso. Tu i gravi di un cielo librato
reggi in un’orbita media; quel lato dell’etere chiaro
tutto sia sgombro, non pongano ostacolo a Cesare nubi.
Il seme umano si spogli delle armi, a sé badi da allora,
s’ami ogni gente a vicenda; si sparga nel mondo la pace,
chiuda i ferrigni serrami di Giano che porta la guerra.
Ma tu per me sèi già un nume e se come vate nel petto
ti accoglierò, non vorrò provocare il dio che sommuove
i penetrali Cirrei, né stornare Bacco da Nisa:
basti già tu per offrire vigore a un poema romano.
L’animo detta narrare le cause di tanta vicenda,
opera immensa si schiude, che cosa abbia spinto il furente
popolo verso la guerra, o che tolse al mondo la pace;
l’invida serie dei fati e negato ai sommi fastigi
l’ergersi a lungo e schiacciante a un peso eccessivo il collasso:
Roma non soffre sé stessa. Così, quando sciolta la trama
dell’universo avrà chiuse tante epoche l’ora suprema,
voltasi al caos primigenio di nuovo, a scontrarsi verranno
tutte le stelle alle stelle frammiste e nel mare gli ardenti
astri cadranno, né più vorrà terra estendere i lidi
e scoterà via i marosi e contraria Febe al fratello
avanzerà, disdegnando di muovere il corso in obliqua
orbita, chiederà il giorno per sé, scardinata l’intera
macchina dell’universo sconvolto avrà infranto i suoi patti.
Crolla su sé la grandezza: i numi alle prospere sorti
questa misura del crescere han posto. A nessuna nazione
presta Fortuna l’invidia d’un popolo forte per terra,
forte per mare: sèi tu delle tue sciagure radice,
tu, fra tre principi messa in comune, o Roma, e i ferali
patti d’un regno mai prima d’allora affidato a una folla.
Voi malamente concordi e da troppa brama accecati!
Il mescolare le forze, il reggere il mondo in comune
che gioverà? Finché terra all’acqua sarà di sostegno,
l’aria alla terra, e il Titano trascinino lunghe fatiche,
e seguirà notte a giorno nel cielo agli identici segni,
non c’è lealtà fra compagni al potere ed ogni dominio
è insofferente all’avere consoci. A nessuna nazione
c’è da affidarsi; né altrove si cerchino esempi dei fati:
le nostre mura primeve sorbirono sangue fraterno.
Pure non erano allora compenso di tanta follia
la terra il mare: divise i sovrani un misero asilo.
Per un’esigua stagione durò la concordia discorde,
pace non fu per volere dei capi; alla guerra futura
Crasso nel mezzo era il solo ostacolo. Come il sottile
Istmo che taglia i marosi e separa l’onda gemella,
né lascia mai che si uniscano i flutti, ove ceda la terra,
dentro l’Egeo piomberebbe il mar Ionio: quando per morte
misera Crasso, che già fermò le armi truci dei capi,
ebbe di sangue latino insozzata Carre l’assira,
per il disastro dei Parti pagò la follia dei Romani.
Con quello scontro assai più di quel che credete si ottenne
per voi, Arsàcidi: ai vinti recaste una guerra civile.
Si ripartisce il potere col ferro, il destino d’un forte
popolo che terre e mari e l’intero mondo possiede,
non accettò che regnassero in due. Poiché i pegni d’unito
sangue e le fiaccole rese ferali da tetro presagio
Giulia con sé li portò da feroce artiglio di Parche
inabissata fra i mani. T’avessero i fati donato
di permanere alla luce più a lungo, tu sola il furente
sposo potevi arrestare da un lato e dall’altro il parente,
e ricongiungere i bracci armati e privarvi del ferro,
come hanno ai suoceri i generi uniti interposte Sabine.
Alla tua morte si infranse lealtà, fu permesso ai due capi
muoversi guerra. Gli stimoli impresse il valore rivale:
tu che le nuove battaglie oscurino vecchi trionfi
e che il piratico alloro la ceda alle Gallie sconfitte,
Magno, paventi; te ormai sequela e frequenza di imprese
rende superbo e un destino che un rango secondo non soffre.
Cesare ormai non sopporta che altri gli sia superiore,
non un suo pari Pompeo. Chi più giusto le armi vestiva?
non si può intenderlo. Ognuno a tutore ha un giudice sommo:
piacque la causa vincente agli dèi, la vinta a Catone.

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daniele ventre
daniele ventre
Daniele Ventre (Napoli, 19 maggio 1974) insegna lingue classiche nei licei ed è autore di una traduzione isometra dell'Iliade, pubblicata nel 2010 per i tipi della casa editrice Mesogea (Messina).
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