Vivere, scrivere

di Angelo Ferracuti

L’allerta meteo qui a Montpellier mi pare davvero provvidenziale. Un evento naturale cambia la tramatura della vita sociale, fa chiudere le scuole, minaccia persino lo svolgimento del nostro convegno, e piove ormai da due giorni ininterrottamente. Questo ci dice qualcosa sull’imprevedibilità di chi scrive come me reportage narrativi, e di come un evento di questo tipo possa produrre storie e deragliamenti, possa essere capace di cambiare persino un punto di vista. E’ un po’ il mistero e il fascino del reportage, che è vivente perché sta dentro la vita. In un libro che ho letto di recente, “In viaggio con Erotodo” di Kapuscinsky questa cosa è sempre presente, il racconto compie dei deragliamenti di continuo, come quando in Congo il famoso reporter incontra dei soldati che gli vengono incontro, o quando al Cairo il guardiano di un hotel vuole accompagnarlo per forza a vedere delle cose. Se avessi dovuto scrivere un reportage a Montpellier, sicuramente questa faccenda avrebbe condizionato la mia storia. In questo modo è come se si mettesse un elemento di finzione nella realtà, anzi, come se la realtà mettesse un elemento di finzione dentro se stessa.

Invece per spiegare meglio la mia condotta, il mio scrivere, voglio partire da un contesto, quello italiano, proprio in generale e nel pieno dell’era digitale, segnato profondamente dalla crisi della lettura e del libro tradizionale, e credo anche da un indebolimento cognitivo molto grave. A tutto questo si aggiunge un’altra crisi, quella della carta stampata, e in generale della cultura, che ormai non è più pensata come creatrice di senso, di senso critico, di visione del mondo, ma più come un’attività d’innocuo intrattenimento, che vede il libro come prodotto da consumare, merce di un’industria con le sue campagne di marketing, gli investimenti pubblicitari e sugli scaffali della libreria, il lavoro degli uffici stampa. Quindi la condotta di un autore come me sta dentro questo contesto frustrante, dove a maggior ragione se hai una postura autoriale e letteraria, per non dire politica, a parte pochissimi casi, sei assolutamente marginalizzato, spogliato del tuo ruolo sociale. Parlo di quegli scrittori che già nelle opere che scrivono hanno una connotazione molto civile e che raramente partecipano al dibattito collettivo, come accadeva una volta, perché il dibattito collettivo è ormai il talk show, con i tempi e i modi televisivi, cioè in un terreno ostile agli intellettuali perché è volutamente il luogo della semplificazione, della banalizzazione, quello dello spettacolo. Quindi oggi quel tipo di scrittore pensatore, che s’interroga sulle sorti dell’umanità, che ha una sua idea particolare del mondo e della vita, è fuori dal dibattito, è orfano del proprio ruolo. E’, appunto, relegato nell’ambito letterario, e in quello editoriale. Fare reportage avventuristici, un po’ come facevano i “francescani della Leika”, cioè gli arditi dell’agenzia Magnum, secondo me è anche un gesto per sottrarsi a una condizione deprimente dello scrittore marginalizzato.

Premesso questo, credo in tutta sincerità di non aver mai scritto una vera storia di pura invenzione, non ho mai avuto nessun interesse o forse capacità a inventare, questo è un fatto. Inventare mi sembrava tradire, forse quelli che più inventano sono i romanzieri, gli scrittori di fantascienza, i giallisti, quelli che fanno la letteratura di genere o quella fantastica, chi scrive favole per bambini, mentre io mi considero un narratore, che è una cosa diversa, più incline a trasformare qualcosa di esistente, a “inventare dal vero” come diceva Bilenchi, a rielaborare l’esperienza. C’è una frase di Debenedetti a proposito del lavoro di Federigo Tozzi che mi ha sempre colpito molto confermando questa cosa: “Narra, perché non può spiegare”. Anche se vengo dalla poesia, avendo scritto per anni versi, sono nato e ho una natura di narratore, o meglio di raccontatore sin dalla prima raccolta, che s’intitolava “Norvegia”, ed era stata concepita come unitaria, cioè era una specie di romanzo di racconti collegati tra di loro, come “Winesburg Ohio” di Sherwood Anderson. Il tentativo era di rinnovare il racconto italiano innestandolo con i modi, i ritmi, i dialoghi di quello americano che sentivo più contemporaneo e vitale, meno lezioso, in particolare con i racconti e i modi di Raymond Carver, ingiustamente definito “minimalista”, che è stato anche uno scrittore capace come pochi di raccontare l’universale classe media, la “meccanica sociale” giusto per citare il titolo di un suo fulminante racconto.

“Norvegia” era un libro che raccontava la mia generazione, quella dei ragazzi della provincia italiana usciti dall’esperienza politica degli anni ’70, di quei ragazzi che allora non venivano chiamavano precari ma “non garantiti”, l’entrata nel mondo del lavoro dopo gli anni del riflusso, della disillusione, quel sogno che per molti di noi era diventato un incubo, di autodistruzione e violenza. Era un libro di formazione in tutti i sensi, letteraria ed esistenziale, e il primo racconto s’intitolava per l’appunto “Collocamento”, questo per dire che il tema del lavoro, che poi ho sviluppato più tardi, c’era già anche allora, come nei miei libri successivi “Attenti al cane” e “Un poco di buono”, che è l’unico vero romanzo che ho scritto, probabilmente anche l’ultimo, perché quello che sto scrivendo da qualche anno ha come protagonista – anche se non viene mai detto – me stesso, questo a conferma della mia incapacità di inventare storie. Quest’uomo, che è una persona, e non un personaggio, è stato un ragazzo a Fermo, ha partecipato ai movimenti politici degli anni ’70, è uno scrittore, ha perso una moglie giovanissima, accudirla e portarla alla morte sono state le uniche cose della sua vita che non considera un fallimento.

Comunque il mio passato politico sta dentro tutti i miei libri e, forse peccando di presunzione, quando scrivo, mi penso ancora dentro il dibattito sociale, scrivo immaginando che quello di cui mi occupo possa avere una urgenza, per esempio quando scrivo di morti sul lavoro, di fine del lavoro e deindustrializzazione, di passaggio dalla società post-industriale a quella digitale, oppure racconto i luoghi attraverso i portalettere e il combattimento in corso tra il “naturale” e “l’artificiale” che erano due categorie molto care all’ultimo Volponi, lo scrittore che più di ogni altro (insieme a Pasolini) ha visto le derive del capitalismo finanziario, del neoliberismo, l’avvento della società liquida.

Mi considero uno scrittore della realtà, e oggi il reportage è la risposta realista al mondo che viviamo, così come funzionò nei grandi momenti di trasformazione sociale con i libri di London, Orwell, Steinbeck, Vassilj Grossmann, tanto per fare qualche nome. C’è stato un ritorno del reportage non solo in Italia, e il Nobel a Svjatlana Aleksievič è la dimostrazione che da Kapuscinsky in poi è ormai un genere letterario che ha pari dignità e lettori della cosiddetta letteratura di finzione, che invece mi sembra subire un momento di stanca e di crisi creativa.

Credo che la mia idea di letteratura si sia formata dentro il lavoro culturale che si è sviluppato intorno alla politica, alle dinamiche politiche della mia generazione, nel corso di una stagione ricca di ribellioni e sperimentazioni. L’humus sono stati gli anni ’70, che ho vissuto nei suoi ultimi fuochi ma che mi hanno lasciato dentro una traccia profonda. “Gli anni giovani” di cui ha scritto il poeta Gianni D’Elia non sono stati solo segnati dalla letteratura, ma anche dal cinema, dal teatro, dalle arti figurative, soprattutto stranieri, da tutto il portato di cambiamento e di scontro contro i poteri costituiti, il progetto di liberazione culturale, la realtà internazionale, il movimento pacifista contro la guerra, quello femminista, l’antipsichiatria, naturalmente la storia del movimento operaio direttamente legata alla democrazia, alle conquiste sociali. Molti scrittori di quella generazione e di quella ancora precedente (penso a Piersanti, Tondelli, Palandri, persino Del Giudice) si sono formati dentro quella stagione, quando ancora c’era una società letteraria, un magistero critico, dentro il ‘900, ma il lavoro editoriale si stava trasformando, le case editrici di cultura diventavano sempre di più aziende con logiche commerciali.

In quel primo libro, “Norvegia”, c’era sempre una “invenzione dalla realtà”, cioè prendevo dei fatti realmente accaduti o che mi avevano raccontato ai quali cercavo di dare una natura letteraria. A posteriori, posso dire che le stesse cose che faccio adesso le facevo già allora, anche se quella sembrava fiction rispetto al mio narrare di oggi che non saprei come definire, ma che certamente non è giornalismo perché a me non interessa spiegare i fatti ma sono attratto dalla loro complicazione. Forse si potrebbe chiamare “racconto sociale”. La narrativa non deve spiegare ma dare una rappresentazione a ciò che non è visibile, a ciò che è sommerso, che non si vede, cioè portare in superficie porzioni di realtà, porzioni di senso, collegare parti apparentemente distanti tra di loro, e costruire con tutto questo degli immaginari. Se allora portavo la cronaca dentro la finzione, ora semmai faccio un’operazione contraria, anche se m’interessa sempre saldare questi due elementi. Perché il reportage narrativo di uno scrittore è diverso da quello di un giornalista, tutto ciò che attiene al ritmo, alle descrizioni, alla scrittura mira a un risultato estetico diverso, più curato. Questo forse è l’unico vero elemento di finzione che mi concedo. Anche i miei reportage in fondo sono dei racconti, qualcuno l’ha anche scritto, per esempio Ermanno Paccagnini sul Corriere, che ha definito “Andare, camminare, lavorare” come un libro fatto da “53 racconti di particolare struttura”. C’è sempre una narrazione, infatti, e al centro il sottoscritto che fa intanto una esperienza corporale, sensoriale, esplora i luoghi, gli spazi, vede, scopre insieme al lettore. A questa si legano altri materiali di un ibrido eccentrico che poi sono gli altri scrittori che credo di essere, cioè il narratore tout court, per esempio, e lo scrittore di viaggio, cosa che ho fatto per alcuni anni, identificando nei luoghi microcosmi sensibili con un loro preciso precipitato antropologico fatto di storie della Storia. E’ anche un tipo di letteratura che considero più democratica perché fatta insieme ai molti, come scrive Kapuscinsky, la quale si scontra con la dittatura del trama e la postura autoritaria dello scrittore onnisciente.

Prima, quando parlavo della mia prima raccolta di racconti, “Norvegia”, dicevo dare una natura letteraria a una storia orale, ascoltata da altri, significa creare una forma e una lingua. La lingua che usavo allora quando ero considerato uno scrittore di finzione è la stessa di adesso, non la percepisco troppo diversa, semmai il processo di scarnificazione l’ha ulteriormente semplificata, impoverita, faccio uso di pochi vocaboli, è una lingua nuda, quella cosa che il poeta Claudio Damiani chiamerebbe “la difficile facilità”. La lingua che uso è stata all’inizio qualcosa di istintivo, di naturale, poi di lei ho preso coscienza e per anni diciamo che ho lavorato alla sua definizione, dopodiché la uso in automatico. Ho cercato di mantenere una lingua non compromessa con gli stilemi della contemporaneità, non contaminata, impastata con i linguaggi del “villaggio globale”, non uso termini televisivi, della pubblicità, aborrisco le parole in lingua straniera. Faccio uso di una lingua povera, francescana, spogliata di ogni orpello, una lingua semplice, classica, perché credo che proprio in virtù di questo possa diventare più espressiva. E’ una questione estetica ma anche etica e politica, perché io voglio essere quella lingua, sono quella lingua, mi rappresenta. Non scrivo “in falsetto”, non ho bisogno di inventarmi una lingua letteraria nel senso di artefatto, perché la mia lingua è molto simile a quella che parlo, è una lingua che ha nostalgia dell’oralità perduta, cioè sono costretto a scrivere ma vorrei raccontare ad alta voce. Anche questa è una risposta “naturale” in un mondo sempre più “artificiale”.

Più avanti questa mia idiosincrasia per l’invenzione è addirittura aumentata, e nel 2002 ho smesso definitivamente di scrivere storie di finzione in senso stretto, votandomi interamente al racconto dal vero. Prima ero stato molto condizionato dalle condotte di due scrittori che hanno recuperato la forma reportage, ma nel senso più letterario possibile, parlo di Edoardo Albinati ed Eraldo Affinati, anche loro hanno contribuito a farmi compiere questa scelta, così come un fotografo che per me è stato un punto di svolta, Mario Dondero, un grandissimo reporter, con il quale ho avuto il privilegio di lavorare e che mi ha fatto capire, fondamentalmente, che come lo faceva lui andava oltre la forma fotografica o letteraria, e diventava una vera e propria esperienza. Lo chiamava “collante delle relazioni umane”, ma si può definire anche “racconto empatico” o racconto vivente, che è un’altra strada del realismo ai tempi dell’iperfinzione. Quindi, credo di essermi poi trasformato in qualcosa di diverso da uno scrittore, di aver pensato che il risultato estetico fosse secondario, la carriera fosse marginale, in una società letteraria sempre più mondana, autoriferita, competitiva e narcisistica, questo scarto fa la differenza. Adesso, quando comincio un libro, so che per due, tre anni della mia vita mi occuperò di questo e sarò in viaggio, incontrerò molte persone, leggerò molti testi, guarderò diversi film e ascolterò alcune canzoni. So che questo “libro vivente” cambierà pelle moltissime volte, e anch’io cambierò con lui, gli incontri che farò, i luoghi che visiterò, questo intreccio di antropologie, di nozioni storiche, di storie vissute al presente alla fine prenderanno una forma sul campo, in itinere.

Ricordo una frase di Salman Rushdie ai tempi in cui cominciai a fare questi ragionamenti, che era anche la citazione che pubblicizzava la rivista che leggevo allora, di cui mi piacevano il taglio e il pensiero, diretta da Goffredo Fofi, “Linea d’ombra”: “La narrativa, dice la verità in un’epoca in cui le persone cui è demandato di dire la verità inventano storie. Abbiamo i politici, i media o chi, altri; coloro che creano le opinioni che, in effetti, inventano storie. E allora diventa il dovere di uno scrittore cominciare a dire la verità”. Quella frase fu per me un viatico importante, perché riassumeva ciò che in quel momento pensavo e volevo fare. Anche se Rushdie diceva che “I romanzi sono pieni di bugie, di bugie che dicono la verità”, mentre trovavo la narrativa contemporanea sempre più prevedibile proprio per questo suo statuto d’invenzione, di fiction in un contesto sociale dove tutto stava diventando spettacolo. Dove “la narrazione”, lo storytelling appunto inventa la realtà, diventa un potente strumento di marketing, commerciale e politico, religioso, turistico. Pochi mesi fa il Presidente del consiglio Renzi a Vinitaly ha espresso tutto questo alla perfezione, utilizzando il retroterra retorico del suo ispiratore Baricco, cioè il vino italiano è qualitativamente migliore di quello francese, solo che loro sanno raccontarlo meglio. Voleva dire che raccontandolo meglio, diventa più buono, diventa migliore, dicendoci anche che non è importante la realtà ma l’invenzione della realtà, o meglio la falsificazione della realtà, la differenza tra la finzione e il falso è questa.

Sono molti anni, ormai, che scrivo reportage narrativi. Lo faccio nell’unico modo possibile in cui queste vere e proprie esperienze sul campo si possono fare, almeno per uno come me, cioè con la massima partecipazione emotiva, i sensi aperti, i nervi scoperti, vagabondando a volte alla cieca nei luoghi, cercando di capirli, di interrogarli, e mettendomi in gioco. Questo modo di scrivere storie dal vero, più della fiction, compie una vera e propria trasformazione non solo della materia narrativa, della forma che di volta in volta si sceglie, ma anche dei sentimenti, delle convinzioni profonde chi scrive. Il reportage è un’opera aperta straordinaria che migliora negli anni perché ogni reporter affina il suo modo, che è diverso da quello di tutti gli altri, appunto per questa sua assoluta soggettività. Diventa uno stile, certo, un modo di scrivere e dare prospettiva al raccontare storie vere, che si avvicinano alla realtà, se non altro alla verità dei fatti, ma anche un modo di fare che serve per raggiungere determinati risultati, in definitiva un modo di vivere, di stare al mondo.

 

Da Contro la finzione. Percorsi della non-fiction nella letteratura italiana contemporanea, a cura di Daniele Comberiati e  Carlo Baghetti, Ombre Corte 2019. 

 

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renata morresi
renata morresi
Renata Morresi scrive poesia e saggistica, e traduce. In poesia ha pubblicato le raccolte Terzo paesaggio (Aragno, 2019), Bagnanti (Perrone 2013), La signora W. (Camera verde 2013), Cuore comune (peQuod 2010); altri testi sono apparsi su antologie e riviste, anche in traduzione inglese, francese e spagnola. Nel 2014 ha vinto il premio Marazza per la prima traduzione italiana di Rachel Blau DuPlessis (Dieci bozze, Vydia 2012) e nel 2015 il premio del Ministero dei Beni Culturali per la traduzione di poeti americani moderni e post-moderni. Cura la collana di poesia “Lacustrine” per Arcipelago Itaca Edizioni. E' ricercatrice di letteratura anglo-americana all'università di Padova.
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