Cine-occhi e cine-pugni: due modi di intendere il cinema

[dal vastissimo archivio di Nazione Indiana ripubblichiamo questo articolo del 27 Dicembre 2012]
 

di Rinaldo Censi

Tra i film che Sergej Michalovich Ejzenstejn avrebbe voluto realizzare e che sono rimasti allo stadio meramente cartaceo spiccano numerosi trattamenti letterari: si va dall’Armata a cavallo (Babel) a Don Quixote, da Sutter’s Gold (tratto dal romanzo L’or di Blaise Cendrars) a un Giordano Bruno da filmare a colori, e poi Black Majesty (dal romanzo di George V. Vandercook, sulla rivolta di Haiti nel XVIII secolo e sulla figura di Henri Christophe, leader rivoluzionario poi incoronato imperatore sull’isola…), An American Tragedy da Dreiser, e ancora Malraux, e altri progetti da Puskin, Maupassant, Dostoevskij… senza dimenticare i famosi tentativi di filmare Il capitale. Sembra che durante la sua vita Ejzenstejn non abbia fatto altro che questo: gettare se stesso in progetti immaginati, sognati, desiderati. A volte magari per capriccio.

In realtà questa lunga lista luttuosa di film non realizzati funziona davvero come resoconto di un’ossessione, una magnifica ossessione.

C’è un profondo sapere che ruota intorno alla figura di Ejzenstejn: filosofia, letteratura, storia dell’arte, architettura, musica, teatro, antropologia. Ogni elemento sembra funzionare come un’incognita capace di dialogare, porsi in posizione dialettica con la sua ricerca filmica. Proprio qui, in questa lista di desiderata, e in questa inesausta speculazione intorno alle arti – di cui il cinema sarebbe parte integrante –, possiamo cogliere in filigrana i motivi, la scintilla che ha innescato il furioso attrito polemico tra Ejzenstejn e il suo collega Dziga Vertov. La riproposizione di una silloge di scritti di Vertov, curata da Pietro Montani (un’edizione ampliata rispetto alla prima pubblicata in Italia, nel 1975, dai tipi di Mazzotta, sempre a cura di Montani) – D. Vertov, L’occhio della rivoluzione. Scritti dal 1922 al 1942, Mimesis, Milano, 2011 e l’uscita di un bel saggio dedicato ad Ejzenstejn (Antonio Somaini, Ejzenstejn. Il cinema, le arti, il montaggio, Einaudi, Torino, 2011) riportano a galla la questione, quella di un’idea di cinema che diverge, e di un diverso rapporto con il reale.

Ejzenstejn e Vertov fanno parte di un’epoca in cui fare cinema significava anche pensarlo, teorizzarlo: in poche parole, la dimensione teorica e quella meramente pratica si sostenevano vicendevolmente: la prima sfociava nella seconda, operando a volte come una specie di cartina di tornasole. Epstein, Delluc, L’Herbier, Pudovkin, Legér, solo per citarne alcuni: scrivere e fare cinema, testare i poteri di una dissolvenza incrociata, di una sovrimpressione, sperimentare i poteri di una giuntatrice, incollare due strisce di pellicola, valutare l’evanescenza dei corpi, la loro “presenza”, modulando le focali (sfumato, sfocato, nitidezza). Ma anche: come porsi di fronte alla realtà che si filma? Proprio qui, in questo spazio esiguo e sottile, ma capace di schiudere baratri e distanze siderali, si gioca il fare cinema dei due russi.

Il cinema, le arti, il montaggio: da qui esce l’opera di Ejzenstejn, meglio, l’opera emerge dalla lotta, il contrappunto, la collisione di questi elementi. Ogni elemento viene posto in posizione dialettica. Il cinema, la realtà e il montaggio: da qui si fa strada invece la pratica filmica di Vertov. Una pratica non tesa alla realizzazione di film, ma all’utopica costruzione di un film infinito, una sorta di cine-cronaca, un flusso che non aveva altro obiettivo se non quello di portare a compimento la coscienza rivoluzionaria del proletariato, in una rivoluzione marxista. Kinopravda. E poi cineocchio. Kinoglaz, cioè: «Decifrazione della vita così com’è. Incidenza dei fatti sulla coscienza del lavoratore». In un certo senso “l’essenziale del Kinoglaz”, titolo del testo da cui abbiamo estratto la citazione.

I fatti dunque, il nocciolo di una realtà fatta di gesti, azioni, duro lavoro, ciò che fonda la vita delle persone. Vertov insiste alacremente su questo aspetto denudato da ogni velo “artistico”, in maniera indefessa; viaggia sui treni della rivoluzione, attua un cinema non-recitato, respingendo «l’arte alla periferia della coscienza», considerandola diletto borghese, gioco di prestigio. Il cinema e la vita sono ben altro: «E’ la vita stessa che noi poniamo al centro della ricerca e del lavoro. (…) Al posto dei doppioni della vita (rappresentazioni teatrali, cinedrammi) noi introduciamo nella coscienza dei lavoratori, i fatti, grandi o piccoli, selezionati accuratamente, fissati e organizzati. Fatti presi dalla vita dei lavoratori stessi e da quella dei loro nemici di classe» (“L’essenziale del Kinoglaz”, in D. Vertov, L’occhio della rivoluzione. Scritti dal 1922 al 1942, p. 85).

Ciò che Vertov nega è l’idea che il cinema debba poggiare su una rappresentazione della realtà, filtrata attraverso forme che egli considera desuete: il teatro, la letteratura, l’arte. Ed è invece proprio su questo perno che sembra muoversi Ejzenstejn; la sua dialettica del montaggio, la sua pratica filmica emergono in un costante e serrato confronto con queste forme artistiche. Proprio tra il “fatto”, il “documento” e la “riproduzione”, il “modo di rappresentazione”, si gioca la battaglia delle idee. Lo segnala prontamente Pietro Montani nella nuova introduzione agli scritti di Vertov: «Per Vertov, “riproduttivo” è proprio il cinema di finzione, che va respinto e combattuto perché il suo modo di rappresentazione non è originario ma derivato, non si fonda sull’autonomia formale e costruttiva del nuovo strumento tecnico ma dipende da altre forme – il teatro, le arti figurative e la letteratura – di cui si limita a riprodurrre parassitariamente i modi di rappresentazione». Da qui la critica di Vertov al cinema d’intrattenimento europeo e americano (sebbene egli ringrazi gli Stati Uniti per aver dinamizzato le sequenze, per lo meno in termini ritmici), e l’accusa ad Ejzenstejn di aver utilizzato in Sciopero, il suo primo film (1924), alcune forme di montaggio e di grafica delle didascalie da egli sperimentate in Kinopravda (1922) e Kinoglaz (1924), piegandole appunto in una finzione, un modo di rappresentazione.

Sarà la prima di una lunga strenna di polemiche tra i due. Vertov accusa Ejzenstejn di succhiare tutto il denaro per la produzione dei film. Vertov (e con lui i Kinoki, i cineocchi) prende soprattutto le distanze dalla «materia attoriale con cui è costruito il film, tutti i suoi momenti teatrali e circensi, tutte le deviazioni artistiche, alte o decadenti, le sue pose tragiche (quand’anche tagliate con le cesoie) di “muta sacralità”» (“Kinoglaz a proposito di Sciopero”, p. 86). Sciopero – questa l’accusa – non capterebbe la vita così com’è, ma ne riprodurrebbe le fattezze basandosi su quello che Vertov si affretta a chiamare “teatro degli stupidi”. (Ejzenstejn, di par suo, definisce Vertov un primitivo, alle prese con un cinema che egli non manca di definire “ornamentale”.)

Alcuni termini riescono a focalizzare meglio la questione in gioco: l’insistenza di Vertov sulla dimensione “teatrale” e “circense” ci permette di sottolineare come per Ejzenstejn il montaggio fosse indissolubilmente legato a un procedimento “attrattivo”. Una specie di choc: qualcosa di improvviso colpisce lo spettatore, lo scuote; di più, lo vedremo, lo fa uscire da sé, innescando una sorta di regime estatico. Per Vertov invece il montaggio va inteso come atto fondamentalmente “critico”, di analisi scientifica: forma di consapevolezza politica. Tutto ciò suona arcaico ad Ejzenstejn, che, rispondendo alle accuse di Vertov, taccia i Kinoki di mera “contemplazione”: «Il “cine-occhio” – egli scrive – non è solo il simbolo di un modo di vedere, ma anche di un modo di contemplare. Ma noi non dobbiamo contemplare, dobbiamo fare. Non abbiamo bisogno di un “cine-occhio”, ma di un “cine-pugno”. Il cinema sovietico deve penetrare nei crani!» (Un approccio materialistico alla forma cinematografica, testo pubblicato da Ejzenstejn nel 1925).

Dare coscienza allo spettatore (Vertov); impressionarlo, colpirlo, “montarlo” (Ejzenstejn): ecco a grandi linee le due polarità su cui agisce la pratica del montaggio. Questo procedimento porta il segno di una lotta tra visibile e invisibile, detto e non detto. Per Ejzenstejn l’energia psichica passa, inevitabilmente, tra due giunte di pellicola. “Attrazione”, “Exstasis”, “ Formule di Pathos”, “fare a pezzi”, “smembrare”: sono alcuni dei termini da lui utilizzati nel corso del tempo, variazioni che migrano e si concretizzano nei disegni, nei testi teorici (si veda il monumentale progetto Metod, mai portato a termine), nei film, e il cui fine ultimo resta quello di istituire un rapporto spettatoriale e insieme una pratica filmica.

Certo, anche per Vertov il montaggio è un modulatore di energia, ma questa deve emergere, sprigionarsi, nell’atto meramente tecnico-materiale (il riferimento va qui a ciò che Montani chiamava più in alto «l’autonomia formale e costruttiva del nuovo strumento tecnico»), senza appoggiarsi a sovrastrutture o giochi d’attore, negando le influenze desunte dalla letteratura, dal teatro, dalla pittura. L’uomo con la macchina da presa (1929) è forse il momento più alto, in grado di concretizzare questo potenziale tecnico e “politico” (insieme a Entusiasmo, il suo primo film sonoro).

Vertov non avrebbe mai perso tempo ad analizzare un dipinto di El Greco, giusto per farvi emergere, o rendere palpabile, non tanto una rappresentazione di personaggi estatici, ma «una rappresentazione estatica dei personaggi» (così Ejzenstejn in un’analisi del Laocoonte, affrontata nel suo “El Greco e il cinema”, citato nell’Ejzenstejn di Antonio Somaini, p. 357). Curvature dello spazio, posizione arcuata dei corpi, colori che «sembrano “scorticati” dalle figure e vagano dispersi sulla tela»: è la configurazione, in poche parole, di un regime estatico. A cui Ejzenstejn accosta (atto di montaggio) un espediente tecnico: la focale 28 millimetri, «l’obiettivo estatico par excellence», quello che «risponde all’esigenza fondamentale dell’estaticità: grazie alle sue caratteristiche ottiche, può realmente dare alla forma la possibilità di uscire da se stessa, dal suo rapporto abituale con lo spazio reale».

Fare uscire la forma dal suo spazio reale. Doveva essere qualcosa di intollerabile per Vertov. C’è insomma una dimensione estetica/estatica a cui Vertov resta totalmente allergico. A questo programma, a questo regime egli sostituisce dunque quello scientifico. C’è una realtà concreta, che bisogna analizzare attraverso le immagini e il montaggio.Un obiettivo: la realizzazione della rivoluzione comunista. Per lui il reale (il fatto) è il gesto di un lavoratore, non di un attore che interpreta la parte di un operaio. Utilizzare un figurante significherebbe tradire la rivoluzione, velandola col vecchio ciarpame artistico. La differenza è sottilissima, almeno per chi crede che, al cinema, il reale emerga dall’effetto che l’immagine produce sullo spettatore. Eppure è tutta qui la furia, la verità urlata da Vertov, stretta nello spazio esiziale dell’analisi di un gesto: dobbiamo distinguere quello vero da quello falso. Un po’ come levare gli errata dalla storia.

Da questa semplice operazione di riconoscimento può scaturire una rivoluzione.

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