io non sono LIBERATO – un estratto

ph. Gianni Valentino

[Nel 2018 è uscito per Arcana edizioni io non sono LIBERATO di Gianni Valentino. Pubblico l’inizio del terzo capitolo, dal titolo “CODICE neomelodico-neomelò”.
© Lit edizioni Srl 2018. Per gentile concessione]

di Gianni Valentino

Si teorizza che nel suo avventuroso carnevale su lidi pop, dub, electro, soul, LIBERATO abbia saputo plasmare anche dosi di musica neomelodica, rendendola cool. Da munnezza a tendenza, da trash a gorgeous. Nelle sei tracce le capriole narrative dell’artista vanno a braccetto con l’altalena ritmica, scavalcando generi e suggestioni, amarcord e revival. Il regista dei suoi videoclip, Francesco Lettieri, afferma che nella musica del munaciello non c’è niente, niente di niente, che sappia di neomelodico. Eppure sono proprio alcuni dei fan più infervorati e caparbi a sostenere che tale componente c’è. Eccome se c’è. Lo dichiarano a ripetizione parecchi intervistati – autori, musicisti, cantanti, producer, rapper, di differenti background e generazioni – senza peraltro farlo con violenza o rimprovero, né astio né cattiveria. È un dato di fatto, pacifico. Allarma, per certi aspetti, la negazione che il regista esclama ogni qualvolta riviene a galla questa ipotesi. Chissà se per il timore o per l’ignoranza del tema.
Sul piano teorico può valere un assunto: sono canzoni neomelodiche le canzoni che adoperano lo spudorato linguaggio del popolo. Canzoni che non hanno la propria sorgente nelle evoluzioni della tradizione orale (Raffaele Viviani, prezioso cantastorie, compositore, drammaturgo sebbene analfabeta e non dotto del pentagramma) e/o rurale e che, al contrario, sono in qualche modo figlie bastarde del linguaggio metropolitano della sceneggiata. Canzoni accompagnate da testi e musica superficiale, approssimata, o enfatica/patetica; strutturata su plateali melismi mediterranei. Slabbrate nell’interpretazione. Allora potrebbero essere valide una serie di considerazioni consequenziali. Prima, però, sono obbligatori un paio di flashback. Lettieri afferma che LIBERATO adopera e dosa una lingua napoletana che è stata trascurata. Così dice – 8 giugno 2017 – alla giornalista Laura Aronica che lo intervista per la testata francese «Clique.tv»: «A partire dalla citazione alla Tammurriata nera, LIBERATO canta in napoletano proprio quando questa lingua è stata abbandonata. Parla un dialetto molto classico, molto tradizionale». Per rinvigorire la sua posizione val la pena sommare la risposta fornita da Lettieri alla giornalista Valeria Montebello del sito web «Linkiesta.it». All’interrogativo «Cioè: napoletano/neomelodico ma con suoni ipercontemporanei e parole tipo ‘visualizz’?». Lettieri precisa quasi offeso: «No neomelodico please. Tu t’e scurdat’ ’e me è una canzone in dialetto napoletano. Il neomelodico è un’altra cosa e io non ci trovo niente di simile a Liberato se non la lingua. Al limite ci trovo qualcosa della musica melodica napoletana».
E be’, se davvero la lingua di LIBERATO fosse tradizionale e rigorosa, e/o arcaica, non fermerebbe su carta grumi di locuzioni-slogan-slang ultra popolari qual è “Stong’ tutt’ I love you” (a indicare una fase di sbandamento, eccitazione, cupezza). O, altrimenti, “ma che so’ ’sti tarantelle?” (perché provochi sempre litigi?). E non sbaglierebbe certo l’accento/l’apertura delle vocali nel riproporre in napoletano cardini geografici come Mergellina. Del resto conta, sopra ogni altra congettura o tesi, la frequentazione e l’interiorizzazione che ciascuno di noi fa della propria lingua-madre, ufficiale o storpiata, assimilata in ore casalinghe e ore di strada; viaggi, bar, cortei, camminate nei tanti quartieri e esperienze trasversali tra i ceti sociali. E allora Mergellina deve diventare Margellin’ in napoletano così come il pronome tue – associato a le parole tue – si traduce toje, non tuoje. L’inciampo e l’assenso tra il cantante e il regista collima nel fatto che Lettieri concorda con LIBERATO che tue possa essere interpretato con tuoje. E allora l’indovinello è risolto. La frequentazione e l’alfabeto dell’artista invisibile con la lingua napoletana è parziale, accidentata. È vero che ciò accade ai più, a coloro che pur senza possederne i segreti desiderano esprimersi nella lingua della propria terra. Ma buonsenso vorrebbe che i fondamentali (per usare un termine calcistico caro a LIBERATO) non manchino. Sennò il gioco muore presto.
C’è altro da tenere a bada. L’emozionalità esasperata dei testi in rima, le modalità di pronunciare i suoni delle consonanti, l’intonazione e le doppie, l’approccio al tenore delle storie che racconta. LIBERATO possiede un concentrato altamente melodrammatico, ipersentimentale. Neomelodico, ça va sans dire. A questo punto bisognerebbe chiedersi: cos’è neomelodico e cosa non lo è?
Nino D’Angelo è conosciuto da chiunque abbia un briciolo di familiarità con l’universo musicale da almeno trent’anni. Ebbene lui proclama che il suo primissimo e reale grande successo discografico, Nu jeans e ’na maglietta, compendi la genesi della presunta neomelodia: espressione delle classi subalterne e non colte. Nu jeans e ’na maglietta trattasi di canzone melodica e pop composta in lingua napoletana del popolo che canta fatti e sentimenti amorosi. Facili facili, sbrigativi. Appartiene a una categoria che si racconta, deflagra, insiste nella sua enfasi e la grida verace. Fino a inghiottire le reazioni altrui. È così concreto, autoctono eppure inafferrabile, il fenomeno neomelodico, che certi addetti ai lavori del panorama musicale – non napoletani: ma qui s’aprirebbe una voragine ed è bene chiuderla subito – definiscono totalmente|seriamente neomelodico addirittura Enzo Savastano. L’interprete di Reggae neomelodico e Una canzone indie, per capirci. Senza nemmeno riflettere al fatto che Savastano – che altri non è che il personaggio creato ad hoc da Antonio De Luca e Valerio Vestoso, quest’ultimo regista del documentario Essere Gigione – è la parodia gentile di quel segmento. E da quel segmento dilata la sua parodia/satira sino alla galassia indie-pop e indie-reggae italiana (nel testo di Una canzone indie convivono Tommy Riccio, Calcutta e Brunori Sas). Persino i registi romani Manetti Bros., dovendo preparare la sceneggiatura del lungometraggio Song’ ’e Napule chiesero al fu Fausto Mesolella e a Peppe Servillo (componenti degli audaci Avion Travel, autori di una sofisticata chanson pop-ambient-prog) di imbastire canzoni neomelodiche appositamente per il loro film, da affidare poi all’ugola del protagonista Lollo Love interpretato dall’attore Giampaolo Morelli. Ma anche in questa circostanza si ragiona per coscienza. Si sa di voler creare una tipologia di canzone/sonorità/ricezione che nel tempo è stata cristallizzata (vilipesa? confusa?) come tale e si procede liberi in questa carreggiata. Sennò anche uno come Speranza – Givova, Chiavt a mammt, Sparalo, Spall a sott; Spall a sott 2 e Spall a sott 3 – in arrivo da Caserta andrebbe incluso in questo scompartimento. Lontano da Napoli, comprendono la differenza? La comprendono, a Napoli? È sempre e ovunque musica napoletana tout court? È musica napoletana classica, pop, alternative, neomelodica?
È tutto autoctono o è roba esotica?
Chi riesce a distinguere cosa è neomelodico e cosa no? Come si fa?
In parole povere, cosa è canzone napoletana che seduce, racconta, riassume e rimane testamento e cosa è canzone irrilevante, misera e dozzinale e da dimenticare? Lo storico delle mafie e saggista Isaia Sales, nel libro Le strade della violenza analizza quale musica neomelodica quella prodotta «per affermare l’identità di una minoranza sociale urbana che cerca, attraverso le canzoni, un sostegno culturale al proprio modo di essere». Sarà così, ma vogliamo contestare il fatto che ciascun territorio sviluppi un linguaggio autonomo, che con questo linguaggio si nutre e che in questo linguaggio si autorappresenta? Sia Napoli, Istanbul, Medellín, Mosca? Se il trend neomelodico si riproduce e concepisce fenomeni specialmente nei rioni più popolari e meno abbienti, estesi e popolosi, dove l’alfabetizzazione è sempre più latitante e insufficiente, dove la capacità di immaginazione è contemporaneamente mediocre e illimitata, vuol dire che probabilmente in queste aree cittadine e dell’hinterland quel linguaggio è concreto. È un fatto tangibile. Incontestabile. È un linguaggio intimo. Non un’idea estemporanea.
L’Italia intera, nel 2010, rise per il video del provino a X Factor del 21enne Marco Marfè. Rise/derise, non so dire bene. Accade che il giovane frizzantino in looktotalrosso, residente in zona Arpino alla suburbia che sfiora la pista dell’aeroporto di Capodichino, propone una sua versione pop-dance (testuale) di Gelato al cioccolato di Pupo. Simona Ventura gli dice “No”, lo boccia senza riserve, gli dice addio definendolo simpatico. E quando il voglioso interprete si accomoda in camerino per smaltire la tristezza, la conduttrice commenta fra sé e sé: “Non ci si crede”. Come a sintetizzare: che razza di esemplare s’è presentato qui stamattina e da quale razza è sbucato fuori? E via con la slavina di commenti virali violentissimi contro il ragazzo.
Forse quella roba da non credere era pronta e servita a tutti già anni luce prima dell’arrivo di Young Signorino e dei suoi stupidi tranelli. Ma non era di tendenza. Perché non aveva né il look né il mood né il sound né l’hype né la consapevolezza né una comunicazione sufficientemente accattivante. E – mistero – chissà perché non affascinò abbastanza la soubrette/giornalista/conduttrice che in un’altra occasione gemella s’era gasata ai massimi livelli con questa roba da non credere. Con lei, tutto il pubblico presente negli studi di Rai 2. È gennaio 2009. Ventura invita a Quelli che… il calcio, in due settimane consecutive, prima Gigione (’A campagnola, Trapanarella, Padre Pio), poi Alberto Selly. Tutt’e due poiché ci fu una ruvida diatriba fra le due star, all’epoca, sulla paternità dell’hit. In diretta, tutti allegri e tutti desiderosi di scuotersi e ridere nel benessere delle note pacchiane di ’O ballo d’ ’o cavallo. Per cui: cosa è neomelodico e cosa no? Cosa, del panorama neomelodico, ha un valore a prescindere, e cosa non lo ha? […]

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ornella tajani
ornella tajani
Ornella Tajani insegna Lingua e traduzione francese all'Università per Stranieri di Siena. Si occupa prevalentemente di studi di traduzione e di letteratura francese del XX secolo. È autrice dei libri Tradurre il pastiche (Mucchi, 2018) e Après Berman. Des études de cas pour une critique des traductions littéraires (ETS, 2021). Ha tradotto, fra vari autori, le Opere di Rimbaud per Marsilio (2019), e curato i volumi: Il battello ebbro (Mucchi, 2019); L'aquila a due teste di Jean Cocteau (Marchese 2011 - premio di traduzione Monselice "Leone Traverso" 2012); Tiresia di Marcel Jouhandeau (Marchese 2013). Oltre alle pubblicazioni abituali, per Nazione Indiana cura la rubrica Mots-clés, aperta ai contributi di lettori e lettrici.
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