Varda for ever

Oggi, a 90 anni, è morta Agnès Varda, regista pioniera della Nouvelle Vague, autrice di film cult come Cléo de 5 à 7 e Le bonheur, artista, documentarista e in gioventù magnifica fotografa. Il suo ultimo film, Varda par Agnès, è uscito quest’anno; del 2017 invece la sua partecipazione a Visages, Villages, corealizzato con l’artista JR.

Mi piace omaggiarla con il ricordo, scritto anni fa, di un suo film meno noto, fra i meno apprezzati: Les cent et une nuit de Simon Cinéma. [ot]

di Ornella Tajani

Nel 1995, per il centenario della nascita del cinema, Agnès Varda porta nelle sale una pellicola che è una lunga, estatica citazione di film preesistenti, una caleidoscopica composizione di attori, personaggi passati alla storia, giochi mimetici, scambi di ruolo, frasi famose, aneddoti, commenti, ricordi cinematografici e colonne sonore inconfondibili. Un film che è al contempo un omaggio e una dichiarazione d’amore.
Les cent et une nuit de Simon Cinéma sarà stroncato con recensioni catastrofiche, la più gentile delle quali recita: «Piacevole solo per cinefili dai capelli brizzolati e dalla memoria resistente».
In scena Michel Piccoli, il quasi centenario Simon Cinéma, nella sua vita celebre attore, regista e produttore [“ma che ingenuità personificare il cinema!”, ha tuonato la critica], che sta perdendo la memoria e dunque assume una studentessa, Camille, moderna Shahrazād, per fare un ripasso di ciò che di importante c’è stato nel cinema sino a quel momento. Simon però è al contempo Michel Piccoli stesso, quando rammenta la scena in Le mépris dove fuma il sigaro nella vasca da bagno per somigliare a Dean Martin, o quando muore un attimo prima di suicidarsi in La grande bouffe, o quando si ingelosisce nel vedere Catherine Deneuve tra le braccia di De Niro, durante un surreale giro in barca in quella che è poco più di una pozzanghera – o, ancora, quando battibecca con Mastroianni, che interpreta «l’ami italien», ma anche l’amant latin o amant-lapin, come si chiosa nel film. I dialoghi sono tutti frammenti di citazioni, e qui il critico diceva bene, è una gara tra cinefili per riconoscerli tutti: «Non capisco più niente, chi recita cosa, adesso?», esclama esasperata la pur preparatissima Camille, che anche parla con parole di film, attingendo a Les enfants du paradis. «Aveva ragione Prévert, gli attori non sono persone, sono tutti e nessuno», s’inalbera, mentre Piccoli si diverte di volta in volta con Depardieu, Jeanne Moreau, i fratelli Lumière, che di tanto in tanto appaiono in scena, muti e pieni di lampadine appuntate sulla giacca; a un tratto piomba in scena Sandrine Bonnaire, l’autostoppista di Sans toit ni loi, celebre film di Varda, che si trasforma dapprima in principessa, per ballare un valzer col goffo protagonista, poi in Giovanna D’Arco, per fuggire a cavallo nel parco. Intanto Alain Delon viene mandato via dal singolare segretario di Simon: «Il suo valletto, prego: polimorfo e polivalente», spesso vestito da Arlecchino, al cui fianco troviamo un’acrobatica cameriera cinese che se l’intende col vecchio giardiniere, e che cammina sui bordi dell’enorme e coloratissimo letto al centro del quale troneggia Piccoli, o Nosferatu, a seconda del costume che adotta.
Si passa da Cocteau, a Buñuel e al suo occhio tagliato in due, a Orson Welles, «considerato geniale soltanto perché ha cominciato da giovane», a Hitchcock che campeggia in sagoma cartonata nella camera da letto, a una serie di figure che, una volta evocate, compaiono fisicamente o in foto all’interno del castello stregato: Gina Lollobrigida vestita da fata, Jean-Paul Belmondo scienziato, che dovrebbe aiutare Simon a recuperare la memoria, o ancora Jane Birkin, Anouk Aimée e molti altri, mentre il leone della Metro Goldwyn Mayer passeggia indisturbato in giardino.
Il finale pirotecnico si sposta da una sfilata circense nel parco della villa al più noto défilé sul tappeto rosso di Cannes; un attimo dopo, i titoli di coda, con la lista interminabile dei nomi di chi ha prestato la sua amichevole partecipazione al film, iniziano a scorrere su un campo di grano che cambia colore a ogni attore.
Goliardico, sgangherato, pasticcione: Les cent et une nuit non è un vero film, né ne ha l’ambizione; è un gioco orchestrato ad hoc per essere metacinematografico al parossismo, ed è l’opera variopinta e funambolica di una magnifica regista che sembra essersi molto divertita nell’offrire il suo personalissimo omaggio al cinema, con una pellicola che può ancora incuriosire e forse divertire più di qualche cinefilo attempato.

Print Friendly, PDF & Email

articoli correlati

Cartoline dal Sud: scrivere l’abbandono

di Valeria Nicoletti
Spira il vento in queste pagine, quello che trasforma, che allontana, ma anche quello che riporta con sé profumi, suoni e memorie di quanto ci si lascia alle spalle

“Una fitta rete d’intrecci”: su “Agatino il guaritore” di Massimiliano Città

di Daniele Ruini
“Agatino il guaritore” è l’esito felice di un narratore ispirato che descrive parabole umane disperate – parabole che conducono a un venditore di speranza il cui business si basa su un postulato difficile da contestare: «Pensiamo d’esserci evoluti per il fatto di conoscere causa ed effetto dei fulmini e dei tuoni che dall’orizzonte s’avvicinano alle nostre case, ma una paura ancestrale c’è rimasta dentro le ossa»

È morto un poeta

di Igor Esposito
Terremoto, bradisismo, peste o fiume che esonda e tutto travolge è inequivocabilmente, da quarant’anni, la babelica drammaturgia di Enzo Moscato; ecco perché anche ai finti sordi che hanno avuto la sorte di inciampare in una pièce di Moscato è apparsa la poesia del teatro e della vita

Su “Guerre culturali e neoliberismo” di Mimmo Cangiano

di Antonio Del Castello
Cangiano non mette mai in discussione il fatto che sia giusto politicizzare (o ripoliticizzare) sfere private (come l’identità di genere o l’orientamento sessuale) a lungo escluse dalla lotta politica, ma segnala i limiti di un’operazione di questo tipo quando sia attuata sullo sfondo di una de-politicizzazione dell’economia e dei rapporti di produzione

Frontiere, innesti, migrazioni. Alterità e riconoscimento nella letteratura

di Tiziana de Rogatis
Le migrazioni e le convivenze multiculturali e multietniche sono assediate oggi da semplificazioni, retoriche, manipolazioni e menzogne mediatiche di diverso orientamento. In un simile contesto storico, la pratica del commento permette di restituire alla parola sullo straniero un fondamento condiviso

“Culo di tua mamma: Autobestiario 2013 – 2022”. Intervista ad Alberto Bertoni

a cura di Andrea Carloni
Leggere davvero una poesia implica sempre un atto di riformulazione interiore e dunque di rilettura: e sollecita l’affinamento di una dote specifica
ornella tajani
ornella tajani
Ornella Tajani insegna Lingua e traduzione francese all'Università per Stranieri di Siena. Si occupa prevalentemente di studi di traduzione e di letteratura francese del XX secolo. È autrice dei libri Tradurre il pastiche (Mucchi, 2018) e Après Berman. Des études de cas pour une critique des traductions littéraires (ETS, 2021). Ha tradotto, fra vari autori, le Opere di Rimbaud per Marsilio (2019), e curato i volumi: Il battello ebbro (Mucchi, 2019); L'aquila a due teste di Jean Cocteau (Marchese 2011 - premio di traduzione Monselice "Leone Traverso" 2012); Tiresia di Marcel Jouhandeau (Marchese 2013). Oltre alle pubblicazioni abituali, per Nazione Indiana cura la rubrica Mots-clés, aperta ai contributi di lettori e lettrici.
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: