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I fratelli Michelangelo

di Luca Giudici

L’ ultima fatica di Vanni Santoni è pubblicata da Mondadori, e si intitola “I Fratelli Michelangelo”. Nel panorama della produzione italiana più recente Santoni si è distinto sin dai suoi primi lavori, risalenti ormai a oltre dieci anni or sono, per la ricerca e la passione per la sperimentazione, sia formale sia tematica. L’analisi delle forme assunte dalla precarietà esistenziale, la scrittura collettiva alla ricerca della memoria, l’indagine nel mondo del fantastico, dei miti fondativi della sua generazione e del mondo in cui è cresciuto, quali i role games e i rave, sono alcuni dei temi che caratterizzano la sua fitta produzione. “I Fratelli Michelangelo” è un appassionante saga familiare di oltre seicento pagine che riassume, mescola e ripropone le problematiche che hanno caratterizzato l’intera sua produzione precedente.

A questa si associa una sopraggiunta maturità stilistica e formale, derivante dal suo lavoro come editor e talent scout in quanto direttore di collana presso la casa editrice Tunuè, per la quale ha pubblicato alcuni dei più interessanti scrittori esordienti emersi negli ultimi anni nel panorama editoriale italiano. La sua attenzione verso altre forme letterarie, culture e paesaggi quasi sempre ignoti ai non addetti ai lavori, lo ha portato a leggere e recensire autori come Antoine Volodine, Mircea Cărtărescu e László Krasznahorkai, contribuendo così a costituirne la recente fama. Letterature sconosciute, autori geniali, scrittura sperimentale, vite precarie, immaginario e scrittura onirica sono quindi elementi che confluiscono ne “I fratelli Michelangelo”, costituendone la multicentralità che lo caratterizza. In questo romanzo, la scrittura di Santoni si avvale dell’esperienza maturata negli anni e si impegna al meglio delle sue capacità per realizzare un’opera seminale che sarà certamente un cardine della sua produzione nei prossimi anni. La contrapposizione apparente tra stile e trama, centrale nelle opere precedenti, trova una adeguata sintesi ne “I Fratelli Michelangelo”. Qui le diverse lingue utilizzate da Santoni nel passato, diventano stilemi caratterizzanti i diversi personaggi e situazioni, ma se si guarda oltre questa apparente frammentazione formale, si ha sempre e comunque la chiara percezione di un intreccio convincente, decisivo nel tenere collegate le diverse figure, su cui si è realizzato un profondo processo di revisione espressamente finalizzato a rendere omogenea la struttura del testo. Nella prima sezione del romanzo si narra di come i cinque figli di Antonio Michelangelo vengono convocati dal padre nella villa di famiglia, a Valleombrosa, in provincia di Firenze, senza che nulla chiarisca le motivazioni che lo hanno spinto a tale passo. Inevitabilmente queste saranno oggetto di lunghe riflessioni e speculazioni da parte dei convocati, in attesa che l’agognato chiarimento sopraggiunga. In una atmosfera che potrebbe ricordare Agata Christie, nei capitoli che seguono si dipanano dunque i racconti delle vite dei personaggi, spesso attraverso lunghi flash back e incastri temporali, che aumentano la diacronia del racconto. Le storie di vita che emergono porteranno volta per volta nuovi tasselli destinati alla soluzione di questa sorta di enigma generazionale, ma soprattutto obbligano i fratelli a fare dei bilanci, a tirare le somme di vite sostanzialmente fallimentari, o comunque ben lontane dagli obiettivi da cui si erano mosse, e che fanno il punto su una generazione fuggita da un tempo ingrato per ritrovare una qualche forma di dignità e autostima, ma che dopo decenni di tentativi e fallimenti non può che tornare all’origine. Il recupero del passato servirà ai fratelli Michelangelo per indagare sia le motivazioni che li hanno spinti a fuggire sia ciò che li ha indotti ad accettare la proposta del ritorno, piuttosto di voltare le spalle a un uomo verso cui non provano né affetto né rispetto, e da cui non si aspettano nulla. Enrico, Luis, Cristiana e Rudra vivono vite assolutamente differenti. Enrico è un letterato che sopravvive come insegnante precario e le cui ambizioni sono naufragate in una sorta di apatia disillusa, sviluppando in compenso una vera ossessione per il sesso, che lo porta a distruggere ogni tipo di relazione in cui si ritrova. Cristiana si occupa di arte contemporanea, e ha lungamente tentato di ottenere un riconoscimento dalla comunità dei galleristi, e di conseguenza riuscire ad appartenere a pieno titolo al ristretto entourage che gestisce quel mondo, ma senza ottenere risultati degni di questo nome, se non – paradossalmente – quando le viene offerto di scrivere la prefazione al catalogo di una mostra delle opere litografiche del padre, generando così un ulteriore sconfitta. Luis ha trascorso gran parte della sua vita recente in Oriente, tra Bali e l’India, da dove fugge inseguito da trafficanti come lui, e lasciando vigliaccamente l’amico Carlo a marcire in una galera senza speranza. Rudra infine è fuggito dall’influenza paterna appena gli è stato possibile (lui e Cristiana sono gli unici due che hanno effettivamente convissuto con il padre) andando a vivere in Svezia, dove ha sposato il suo compagno, ha adottato uno stile di comportamento identificato da una costante presa di distanza dalle pratiche della vita, e ha accettato qualsiasi tipo di compromesso pur di allontanarsi dalla influenza familiare. Per lui come per i suoi fratelli questo viaggio giunge in un momento che è decisivo per le loro vite, e che richiede di tracciare dei bilanci, destinati proprio alla costruzione di un possibile futuro. La sapienza mistica di Rudra, la lettura della Bhagavad Gita, e quella della Bibbia affrontata da un Enrico che credeva di essere ebreo, sono tra i pochi elementi culturali che non sono frantumati dal criticismo con cui Santoni decostruisce limiti e inadempienze dell’azione intellettuale nel nostro mondo. È Enrico, in quanto letterato, che in un certo senso si fa carico di portare alla luce questo divario, e in due occasioni diverse scopre tra le letture del padre, tra gli elementi che hanno costruito la sua figura, il suo bagaglio, gli stessi autori che hanno svolto per lui una funzione analoga. La differenza però sta nel fatto che se per il padre (nel Novecento) questo sapere è diventato fondamento di una società, di un mondo (seppur discutibile), Enrico è costretto a scontrarsi con la cruda realtà per cui lui è l’unico che coglie questi riferimenti, e deve porsi una domanda cruciale, per lui e per il nostro tempo, su come e quando la letteratura ha smesso essere un linguaggio condiviso, ovvero un mezzo per comprendersi, in quanto possessori di un linguaggio comune. Ovviamente non c’è alcuna risposta, ma il deserto che deve affrontare è davanti a lui. Enrico non è Peter Kien, e non ha alcuna intenzione di bruciare insieme ai suoi libri, ma deve trovare una via di uscita alla stagnazione in cui si è ritrovato a sopravvivere. I quattro fratelli, inoltre, provengono da luoghi tra loro lontani (Tel Aviv, Bali, Roma, Stoccolma, Londra) e anche la dispersione geografica, che li obbliga a lunghi viaggi dell’anima per raggiungere la casa paterna, non è certamente un elemento casuale. La precarietà dei personaggi di Santoni non è mai solo psicologica o esistenziale, ma si concretizza anche in un vagabondare spesso senza meta, dove il viaggio altro non è che metafora della ricerca di sé. La geografia si rivela perciò come la ricerca di un luogo dell’anima, espressione di ciò che Santoni chiama “una grande narrazione transnazionale”. Misurare gli spazi, le distanze, trovare le case e ri-trovarsi nelle case, sono tutte azioni che accadono molto frequentemente ai personaggi di Santoni, e, come vediamo sin dalle prime pagine, a quelli di questo romanzo in particolare. I fratelli tra di loro si conoscono a mala pena, e, analogamente ai molti personaggi collegati e che compongono l’orizzonte in cui si svolgono le loro vite, in un certo senso sono tutti in fuga. Eppure, questa umanità variegata si scopre essere disperatamente alla ricerca di una casa, di un rifugio dove fermarsi. Santoni, nelle sue più di seicento pagine, mette effettivamente in scena il grande romanzo borghese, e qui le differenti esperienze e sensibilità portate avanti non solo dai diversi fratelli, ma anche da Antonio e dai vari personaggi di contorno, il fratello Abramo e gli avi tutti, oltre che dal valore degli assenti (le madri scomparse), gli permettono di mostrare la vacuità di una ricerca che non porta a nessuna salvezza, se non quando ha come obiettivo la memoria e le radici. Il cielo sotto cui si dipana questo romanzo è il tempo stesso, la storia e la memoria, il racconto che si apre la strada nella foresta del tempo passato per cercare di ricongiungersi con l’oggi. Non è assolutamente un caso se questo romanzo si apre con un albero genealogico. È lì che si trova il senso della narrazione di Santoni: in ciò che è passato e che – contrariamente a quanto potrebbe sembrare – non ci ha mai abbandonato. È per questo che i fratelli Michelangelo, dopo essere tutti in un modo o nell’altro fuggiti da vite ingombranti e da un padre per lo meno difficile, accettano di tornare alle loro origini. “I fratelli Michelangelo” non ha un solo centro individuabile, bensì si mostra come pluralità, e la figura del padre è senza dubbio uno di questi, che si collegano l’un l’altro nel corso della narrazione. La nostalgia e il suo afflato sono un’altra delle cifre interpretative di questo romanzo, forse la principale. È un sentimento che pervade tutti i personaggi, e che emerge anche nei luoghi, nei molti segni di mondi perduti di cui il racconto è costellato. Esemplare, tra questi, il tema della botanica, dove attraverso ricordi, dissertazioni ed elementi che si inseriscono in modo apparentemente casuale, siamo portati a conoscenza dei diversi impianti e stratificazioni che sin dall’anno mille hanno caratterizzato l’intervento umano sulle piante autoctone nella zona. Nulla è quindi più definibile come naturale, originario, nemmeno ciò che risale ai nostri più antichi ricordi, perché anch’essi sono inficiati di finzione e illusione sin dalle origini. La narrazione è teatro, illusione e mistificazione, e ognuno dei personaggi costruisce la sua, mostra l’idea che ha di sé, dei suoi fratelli, del padre, ma questo altro non è che la propria finzione personale, costruita a proprio uso e consumo, in una specie di House of Game costruita sulla misura delle debolezze individuali. Nostos, il ritorno, è il tema omerico che abbiamo inseguito, e la meta di questo cammino potrebbe perciò essere il padre, assente ma fin troppo presente, che sin dalle prime righe ammette, in una sorta di contrappasso, di temere – novello Crono – di essere divorato dai propri figli. La questione dell’auctoritas, della mancanza di autorevolezza, della ricerca del senso di una vita sempre più sbandata e nelle mani del caos, sembrerebbero essere il cuore della ricerca descritta, ma non è certo il ritorno di un padre padrone che viene auspicato da un libertario come Santoni, quanto piuttosto l’apertura continua verso il nuovo e il desiderio di una vita libera, una condizione che purtroppo spesso ci dimostriamo incapaci di controllare, anche quando ci viene regalata. Come in una sorta di Rashomon trasportato sulle rive dell’Arno, Santoni mostra perciò l’assurdità della ricerca stessa, se, come si è detto, si pone come obiettivo una auctoritas, dato che Antonio Michelangelo non sfugge nemmeno per un attimo al meccanismo dell’illusione narrativa, della costruzione di un se fantasmatico, svalutando perciò in toto l’idea che l’anziano padre possa rappresentare una chiave interpretativa. Una definizione valoriale comune a tutti i personaggi sarebbe l’unico metodo per dare una priorità al moto centrifugo / centripeto (la fuga e il ritorno) che avvicina e allontana le persone dalla storia, dal proprio vissuto. Stabilire una priorità, dei valori condivisibili, potrebbe permettere ai fratelli di dare un senso ai propri bilanci esistenziali, ma invece spietatamente è la farsa della ripetizione quella che ci viene mostrata, e il vissuto precario dei fratelli infine si mostra essere molto affine alla illusione ideologica attesa dalla generazione precedente, ovvero i fratelli Antonio e Abramo. Se il primo incarna i (falsi) valori del Novecento, quali la Resistenza, l’impegno politico e l’imprenditoria, l’arte, la costituzione di una identità forte e definita, e non trova la forza di essere una chiave di lettura per la generazione dei suoi figli, destinati a una debolezza ontologica strutturale, altrettanto il fratello Abramo rivela di appartenere a una ideologia illusoria, tradita dalle menzogne e dal teatrino, costruito per impressionare amici e parenti. Così nello stesso modo, farsesco e quasi ridicolo, si mostra la conclusione del percorso di Antonio, dove un sacrificio che sembrerebbe impersonare un tema cristologico e passionale, in un finale perciò ancora completamente novecentesco, si rivela invece essere un capro espiatorio, un escamotage per tutta la famiglia Michelangelo, che così in fondo ne esce senza troppi danni, malconcia ma lontana da ogni tipo di rivelazione salvifica, ben adagiata nelle menzogne sopravvissute al rituale, quasi un Gattopardo fuori tempo massimo, dove, ancora una volta, alla fine non cambia assolutamente nulla.

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Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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