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In territorio selvaggio

 dialogo tra Laura Pugno e Massimiliano Manganelli

MM: Il tuo nuovo piccolo libro In territorio selvaggio mi pare un s(ond)aggio dentro una serie di questioni interessanti. Nell’andamento del testo – che non risponde a una forma predefinita – ho trovato utile lo sguardo duplice che adotti: quello di chi, cioè, pratica tanto la poesia quanto il romanzo. Comincerei però dal titolo, perché riguardo al selvaggio e al naturale dentro il libro ho trovato alcune precisazioni con le quali concordo, in particolare in relazione al carattere reazionario dei discorsi sulla naturalezza.

LP: Ci sono, a questo proposito, appunto due precisazioni da fare. In primo luogo, In territorio selvaggio nasce come un libro che mi è stato chiesto. Fa parte di una collana, “Trovare le parole”, che è curata da Daniele Giglioli e dall’editore di Nottetempo, Andrea Gessner. L’idea è di affidare a scrittori parole che siano risuonate all’interno della loro opera, identificate da loro ma anche per loro. L’aspetto affascinante di questa scrittura, per me, è che in un certo senso mi ha colto di sorpresa. Ho scritto poesie, racconti, romanzi, scritture performative, non avevo però mai veramente pensato alla scrittura saggistica. Già solo decidere di immergermici ha quindi richiesto un atto di esplorazione. E, ammesso che sia possibile, di nuova esplorazione, dato che mi sembrava, su questa parola che ha attraversato molta della mia scrittura – e dei miei titoli: naturalmente, La ragazza selvaggia (Marsilio, 2016) – di avere già detto quello che avevo da dire. Non era, invece, così. Il libro ha quindi l’andamento di un pensiero che si cerca, di un taccuino di note, di qualcosa che apre, invece di chiudere. Di una domanda che si pone, prima e più di una risposta che si dà.
La seconda precisazione è che, pur ritenendo di grande importanza, a tutti i livelli, quello che ampiamente chiamerei il pensare la natura, la mia intenzione era (ed è) quella di scrivere un saggio letterario. Il sottotitolo del libro è Corpo, romanzo, comunità. Un libro in cui la natura c’entri, perché è dalle nostre avventure in natura che il concetto di selvaggio ci viene, diversamente in ogni epoca, ma che parli di come questa forma del pensiero si traduce nel momento in cui si applica a un’opera, alla funzione di un’opera. In territorio selvaggio è un’esplorazione di quello che nel libro chiamo il romanzo di ricerca, del luogo che può avere nello scrivere oggi, delle sue possibilità di sopravvivenza nel momento in cui il suo ecosistema, tanto per continuare la metafora, si impoverisce.
La mappa, quindi, qui, non è – non può essere, non è mai – il territorio.
In quanto al possibile carattere reazionario di un pensare la natura, possiamo dire con un rovesciamento che dove cresce la salvezza cresce anche il pericolo: c’è ed è concreto, c’è in ogni asimmetria, in ogni polarità in cui uno dei poli sia identificato come dominante a scapito dell’altro. Qualsiasi natura ci sembri di esperire, non può non essere culturale, ogni natura è storia. Qui in Europa, lo sono persino i boschi che attraversiamo nella realtà, le specie vegetali che li abitano sono state profondamente influenzate, modificate dalla presenza umana. Non esiste, oggi, una presenza, una specie o un luogo che sia non contattato, non nel senso assoluto del termine.

MM: Infatti, mi fa sorridere spesso chi crede, uscendo semplicemente dalla città, di avventurarsi nella “natura incontaminata”, come se la semplice presenza di un paesaggio verde fosse una garanzia di spontaneità. E peraltro spesso la natura spontanea – o per lo meno più spontanea di un campo coltivato o di un bosco ceduo – si trova nell’aiuola abbandonata sotto casa. Se riportiamo il discorso alla letteratura, l’ideologia (perché di questo si tratta) dell’autentico e dello spontaneo è ancora piuttosto diffusa, anche in forme più ingannevoli e insidiose, anche in alcune zone dell’autofiction, dove vale l’equazione tra la mancanza di una trama inventata e l’autenticità del narrato.
Per quanto riguarda la forma del tuo libro, più che un saggio lo considero un ibrido, perché spesso sembra assumere la forma del diario in pubblico, perciò hai ragione tu quando dici che ha l’andamento di un pensiero che si cerca. Io aggiungerei che il libro dà l’idea di un flusso di pensiero, di un pensiero che sta cercando la propria forma.

LP: Siamo necessariamente nell’ibrido? È un tema che è emerso con molta nettezza anche in un recente incontro a Parma, nel ciclo Poesia ed ecologia organizzato da Italo Testa, con Niccolò Scaffai. Quanto scrivi adesso mi fa venire in mente la questione dell’autenticità del linguaggio, del linguaggio ricevuto che deve essere necessariamente attraversato per poter essere restituito alla comunità. In primo luogo siamo parlati, e allo stesso tempo, potremmo dire, “siamo visti”: per riuscire a parlare e a vedere con una misura, sempre imperfetta, di verità – nel senso umano di questa parola, senza assoluti – è necessario uno sforzo.
Verità artistica, se non assoluta, quindi attraverso comunque una forma di bellezza, quale che sia la declinazione e percezione di questa parola. Preferisco non usare autenticità perché in qualche modo si ricollega all’idea di io, di espressione dell’io: il che in certa misura è inevitabile essendo soggetti, ma può essere un orizzonte lontano.
Nel saggio – misteriosamente sommario nella pars costruens, che a un certo punto si affida addirittura a altrettanto sommari disegni, per dire fino a che punto siamo nel “non mappato” – L’Alternativa ambiente (Quodlibet, 2015), sempre Gilles Clément, che a un certo punto in In territorio selvaggio cito in merito al Terzo paesaggio come possibile immagine e analogia per la poesia di oggi, analizza la parola environment/environnement come i dintorni: ciò che sta intorno, ma intorno a chi? Sempre un soggetto umano. Come l’io, questo soggetto umano è ovunque, e per noi è probabilmente in certa misura inevitabile che sia così, perché è così che percepiamo il mondo. Ma ciò che è interessante è lavorare ai confini: della percezione, dello straniamento, del sentimento, della lingua. È il lavoro della poesia, che va portato dentro il resto: il saggio, l’azione, la prosa, direi lo stare al mondo. Quell’opera richiedeva quella vita? Ma anche, quella vita richiede quell’opera. Che opera è richiesta adesso?

MM: Sono un fautore degli ibridi, soprattutto ora che siamo in tempi in cui si rivendica una presunta purezza (su questo, molto sarebbe da dire, rifacendosi a quanto Furio Jesi ha scritto giusto quarant’anni fa in Cultura di destra), proprio perché – e in questo caso si percepisce quanto il campo merceologico abbia invaso quello letterario – il richiamo “pubblico” ai limiti e ai generi è costante. Naturalmente il fenomeno è ancora più evidente se si guarda oltre l’orizzonte della letteratura. Ed essendo inoltre contrario all’ideologia dell’identità, e qui mi dichiaro seguace di Francesco Remotti, non posso non accogliere con favore i testi che contro l’identità lavorano, sia sul piano dell’identità di genere (il dibattito sulle differenze tra poesia e prosa, per esempio, tende ad annoiarmi, e so che probabilmente si tratta di una posizione snobistica), sia su quello dell’identità intesa come costruzione di un soggetto definito e monolitico. Ecco, se pensassimo il soggetto umano come un soggetto mutevole e non definito una volta per sempre – a volte penso che Gadda, per dirne solo uno, sia passato invano –, sarebbe più comprensibile l’idea di una scrittura che non necessariamente si dà come espressione di qualcuno, ma al massimo di una determinata temporalità.
La metafora che utilizzi tu, quella del terzo paesaggio, rimanda alla spazialità, circostanza che trova molte consonanze con tante esperienze odierne (e anche con le mie preferenze personali, che però qua non rilevano). Il terzo paesaggio si può interpretare, in una certa misura, come il nostro cronotopo, quindi non soltanto quale allegoria della poesia contemporanea?
Quando chiedi che opera è richiesta adesso, poni una domanda cruciale, perché in sostanza ti interroghi su cosa è necessario per essere assolutamente contemporanei. Credo che ciò che indichi, cioè i confini, sia l’orizzonte giusto.

LP: Che ancora si riesca a pensare al soggetto come qualcosa di definito per sempre, di sostanzialmente astorico – e neanche biologico, sappiamo che anche la biologia cambia – mi sorprende sempre. Credo che qualcosa che possiamo chiamare soggetto in noi esista, la questione della coscienza è non risolta e infinitamente affascinante: ma è mutevole, forse intermittente, va a lampi e oscurità. (O vogliamo dire che è solo questione di attriti? non lo direi, ma comunque sul piano inclinato, forse per un proprio clinamen, si fa attrito sempre negli stessi punti. Magari ci sono lenti spostamenti, oppure scavi, oppure cicatrici.) Non ho mai fatto poesia dell’io, in tanti anni che scrivo, volutamente, questa parola l’avrò fatta affiorare due o tre volte, il che non vuol dire che sia assente, spesso è in posizione mobile, nella posizione del tu. Per definizione in posizione mobile: del resto il tu è ciò e chi viene riconosciuto, ognuno riconosce i suoi.
Perché, traslando la tua domanda, il terzo paesaggio è oggi percepito – sentito – come un tu da tanti? e il terzo paesaggio è doppio, è allo stesso tempo l’incolto e l’abbandonato, residui e insiemi primari. Il residuo vuole tornare a essere insieme primario, la metafora – è una metafora, ricordiamolo – può capovolgersi in se stessa?

MM: È curioso che uno spazio abbandonato – provo a leggere così, piuttosto grossolanamente – qual è il terzo paesaggio possa diventare la metafora di un’apertura verso il futuro. E per tornare alla poesia e provare a sciogliere la tua metafora, gli spazi abbandonati dal mainstream letterario, che spesso ma non necessariamente corrisponde al romanzo, costituiscono oggi gli spazi di sopravvivenza della scrittura poetica stessa. Cioè il luogo di un residuo, dunque costitutivamente legato al passato, diventa un luogo vitale, dove nonostante tutto brulicano le attività. E allora mi chiedo, e ti chiedo, se proprio la poesia non sia, se non addirittura un’attività residuale, non “contemporanea”, almeno l’unico spazio letterario in cui il tempo è visibile nella sua doppia direzione, verso il passato e verso il futuro. Perché il romanzo, spesso, mi dà la sensazione che esista solamente il presente. Mi viene in mente quella che in Benjamin è l’immagine dialettica, in cui appunto presente e passato si incontrano; la poesia è oggi questo?

LP: È interessante provare a seguire questo ragionamento. Paradossalmente in questo senso oggi tutta la poesia è avanguardia, non nel senso classicamente attribuito a questo termine, diciamo molto largamente di innovazione formale, rottura degli schemi, contestazione, etc. etc.: una metafora bellica per un tempo che combatteva guerre fisicamente sul proprio territorio. Nel senso, invece, di un avventurarsi, di esplorazione in uno spaziotempo non mappato, altro, che è quello in cui ci si trova quando si è espulsi dal luogo onnipresente che è il mercato. Tutto questo in senso asintotico, chiaramente, ma è più o meno quello che è accaduto per la poesia, e che sta accadendo per la prosa letteraria, che a poco a poco viene allontanata dagli spazi letterari più visibili. È così che questi “luoghi” diventano/sono residui? (fare sempre attenzione alla metafora, che la mappa non diventi il territorio). Se una scrittrice, o uno scrittore, pratica poesia e prosa, attraversa questi mondi diversi, distanti, nota le loro differenze, ma è sempre più raro, come se i confini di questi territori non si toccassero.
Allo stesso tempo, in poesia, chi fa libri, registra con sempre maggiore frequenza due fenomeni: raccolte che dialogano con l’immagine, la fotografia soprattutto, includendo brandelli di visibile con uno statuto che però è ancora tutto da indagare, in cui si ibridano volontà di ricerca ma anche asimmetrie e soggezioni; e testi che, pure con sempre maggiore frequenza, e in modo sempre più ampio includono lacerti o strati di prosa (e poesia in prosa, e “prosa in prosa”), anche qui con uno statuto misto, nel senso in cui dicevo prima. Come se la poesia non bastasse? Il residuo non può fare a meno di pensarsi, di viversi come residuale? o si tratta di qualcos’altro, o entrambe le cose?

MM: Quest’ultimo fenomeno è assai visibile da anni; la risposta che mi do è duplice. Da un lato, la poesia, nel senso di un certo genere (letterario) con i suoi vincoli e le violazioni di quei vincoli, in un certo senso non basta più a sé stessa, o non si giustifica più da sola, ha bisogno di altro per sussistere, e quest’altro può essere l’immagine – ma devo ammettere che dell’immagine, negli ultimi anni, ho visto un certo abuso ingiustificato – come la parola extrapoetica. Potrebbe sembrare il sintomo di una vita residuale, ma dall’altro lato è anche il segno di una sostanziale apertura, di una disponibilità della scrittura poetica nei confronti di ciò che le sta fuori, che la attornia (e torniamo ancora una volta ai dintorni). Qui vale ancora la tua metafora del terzo paesaggio, abbandonato ma disponibile, appunto, a un riuso.
Lo sfruttamento intensivo che il mercato editoriale ha compiuto nei confronti del romanzo ci ha condotti a una situazione curiosa: un tempo era infatti il romanzo il genere aperto alle sollecitazioni esterne, era il romanzo il genere senza forma, capace di adattarsi e di dare una configurazione letteraria al cronotopo, mentre la poesia appariva come un sistema chiuso. Oggi direi che ci troviamo a parti invertite, con il romanzo, almeno nella gran parte della sua produzione, che non riesce a sfuggire alla mimesi, alla pura e semplice rappresentazione, mentre la poesia può permettersi di tutto, anche di dialogare con l’altro da sé.

LP: È inevitabile che questo dialogo non finisca, ma si fermi, e poi magari riprenda, su una questione aperta. Molte questioni aperte. Cos’è questo non bastare a se stessi, un aprirsi al mondo da una posizione di forza, com’è stato a un certo punto per il romanzo, o un aver bisogno di, un cercare giustificazioni di sé e a sé altrove, da una posizione di debolezza? È un potersi permettere o un chiedere permesso? Cosa accade, in quegli spazi-metafora, che poi sono anche tempi-metafora, sono la stessa cosa, del terzo paesaggio visto sotto la specie della poesia? Mi piacerebbe che a partire da qui, da qualche parte, una conversazione – una serie di conversazioni continuasse.

 

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andrea raos ha pubblicato discendere il fiume calmo, nel quinto quaderno italiano (milano, crocetti, 1996, a c. di franco buffoni), aspettami, dice. poesie 1992-2002 (roma, pieraldo, 2003), luna velata (marsiglia, cipM – les comptoirs de la nouvelle b.s., 2003), le api migratori (salerno, oèdipus – collana liquid, 2007), AAVV, prosa in prosa (firenze, le lettere, 2009), AAVV, la fisica delle cose. dieci riscritture da lucrezio (roma, giulio perrone editore, 2010), i cani dello chott el-jerid (milano, arcipelago, 2010), lettere nere (milano, effigie, 2013), le avventure dell'allegro leprotto e altre storie inospitali (osimo - an, arcipelago itaca, 2017) e o!h (pavia, blonk, 2020). è presente nel volume àkusma. forme della poesia contemporanea (metauro, 2000). ha curato le antologie chijô no utagoe – il coro temporaneo (tokyo, shichôsha, 2001) e contemporary italian poetry (freeverse editions, 2013). con andrea inglese ha curato le antologie azioni poetiche. nouveaux poètes italiens, in «action poétique», (sett. 2004) e le macchine liriche. sei poeti francesi della contemporaneità, in «nuovi argomenti» (ott.-dic. 2005). sue poesie sono apparse in traduzione francese sulle riviste «le cahier du réfuge» (2002), «if» (2003), «action poétique» (2005), «exit» (2005) e "nioques" (2015); altre, in traduzioni inglese, in "the new review of literature" (vol. 5 no. 2 / spring 2008), "aufgabe" (no. 7, 2008), poetry international, free verse e la rubrica "in translation" della rivista "brooklyn rail". in volume ha tradotto joe ross, strati (con marco giovenale, la camera verde, 2007), ryoko sekiguchi, apparizione (la camera verde, 2009), giuliano mesa (con eric suchere, action poetique, 2010), stephen rodefer, dormendo con la luce accesa (nazione indiana / murene, 2010) e charles reznikoff, olocausto (benway series, 2014). in rivista ha tradotto, tra gli altri, yoshioka minoru, gherasim luca, liliane giraudon, valere novarina, danielle collobert, nanni balestrini, kathleen fraser, robert lax, peter gizzi, bob perelman, antoine volodine, franco fortini e murasaki shikibu.
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