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Flavio Ermini: Edeniche

Tre poesie, con una nota critica di Antonio Delogu

 

 

il crinale pietroso

 

nell’attestare con l’inchiostro quanto altrove svanisce

testimonia il mortale l’interminabilità del cadere

incessantemente manifestandosi come verbale presenza

nell’imperfetta sua aderenza al pietroso crinale

per un altissimo grado di estraneità alle tenebre

 

 

 

l’illusoria compiutezza

 

per tutti i sentieri discende

dal crinale del sacro recinto

l’umana figura destinata

dalla sua collocazione fra le cose

a coprire per intero il cammino

che porta a una grazia illusoria

definita com’è dal dolore

connesso all’albale cecità del corpo

 

 

gli alberi fioriti per errore

 

sono elementi sfuggiti all’indistinto

le relazioni che espongono i giusti all’aurora

in quel fragile grado d’intendere consentito

così come per celarsi sfuggono al cielo i viventi

che si portano agli stadi iniziali dell’esistere

guidati dalla creatura insensibile al tatto

se non più fioriscono gli alberi per errore

 

***

 

Dove c’è ragionamento, ha detto Benedetto Croce, non c’è poesia. Si tratta, evidentemente, del ragionamento che si svolge per deduzione, per logica concatenazione di concetti. Vi è, però, anche il ragionamento poetico che, coniugando passione e ragione, intuizione, immaginazione, pensiero riflessivo, è vera e propria tessitura del venire al mondo degli esseri e delle cose, cioè fedele descrizione del senso originario del mondo. Perciò nella poesia accade il miracolo dell’unione di suono e senso, di ritmo musicale e respiro metafisico capaci di restituirci la tonalità del nostro originario essere al mondo.

Le  Edeniche di Flavio Ermini, la cui trama è  filosofica non per dottrina o sistema ma per straordinaria descrizione/narrazione, ci parlano degli “ stadi iniziali dell’esistere ( p. 69 )  della “ scena aurorale di una “ terra mattinale”,  in cui l’armoniosa primordialità del Tutto precede il “ frastagliarsi in tanti margini dell’unità primordiale” ( p. 86 ).

La tensione metafisica della poesia erminiana, per dirla con i mirabili versi di Borges: “ apre il cancello del giardino [ il giardino è metafora ricorrente nelle Edeniche ] con la docilità della pagina/ che una frequente devozione interroga”.

Questa esperienza poetica  si dà come umana esperienza di riverenza verso tutte le cose. Tutt’altro, dunque,dalla poesia ideologica di cui non pochi sono gli esempi nella seconda metà del Novecento letterario italiano. La traccia del percorso poetico è dichiarata nella Premessa: “ Edeniche ci narra della separazione degli esseri dalla sostanza indistinta e illimitata, in quanto destinati – quali esseri finiti e molteplici – alla contesa e al contrasto subentrato là dov’era armonia”. Il riferimento esplicito è al pensiero di Anassimandro: l’Infinito/Indefinito è il Principio illimitato ed eterno da cui nascono il finito, il divenire, il tempo, la molteplicità degli esseri, e, con essi, la differenza e la contraddizione.

Nella sapiente composizione di uno stile intensamente incisivo si dispiega la descrizione del come le cose, perso l’unitario, aurorale splendore, vivono nella disgregata e disgregante opacità della molteplicità. L’esito nella poesia narrativa e riflessiva delle Edeniche, esemplare per purezza formale e pacata fluidità di ritmo,   è lo spaesante deserto: “ Non c’è guida ai nostri passi (…) né c’è scampo nell’esodo che si rivela senza fine” ( p. 101 ) per i “ condannati al naufragio” ( p. 125).

Riscopriamo così il pensiero degli Ionici, in particolare di Anassimandro: l’ápeiron, l’aurorale unità del Tutto ha in sé potenzialmente  il processo di separazione così che “ tutti gli esseri”, “ devono”, afferma Anassimandro, “ secondo l’ordine del tempo, pagare gli uni agli altri il fio della loro ingiustizia”, cioè dell’offesa, dell’insulto, della umiliazione che vengono ad evidenza nel rapporto tra esseri e cose. Il valore dell’armoniosa unità originaria contiene in potenza  il disvalore della disarmonica molteplicità.

L’approdo cui si  giunge nella lontananza dall’ouverture del mondo è la “ valle pietrosa entro cui si rifugiano le umane creature che “ nell’incerto cammino”, nel divenire che “ implacabilmente ci aggredisce” sono “ ignare della fine”, opponendo, tuttavia, “ contro la morte/ strenua resistenza” ( pp. 45, 46 ).

Dunque, allo splendore originario della Natura seguono il tempo, il divenire, la caducità delle cose. Ma il suo permanere, dicono le Edeniche, è sotteso a questo divenire. Perciò la poesia si dà, in sostanza, come un appello al proprio tempo in quanto la Natura Originaria non è  un tempo mitico o remoto,  l’ Età dell’Oro, l’Eden per sempre perduto, ma  Permanenza  e Perennità.

Il passaggio dalla poesia metafisica alla poesia esistenziale è pressoché obbligato. Infatti, la riflessione metafisica si risolve in  meditazione sul senso originario dell’umana esistenza: meditazione non come fuga dal proprio tempo ma come presa d’atto del dovere di viverlo con acuta consapevolezza  della posta in gioco.

L’armonia originaria, anteriore a ogni vissuto, può essere nostalgia di un Bene perduto per sempre? Il discorso poetico che “ schiude il permanere che si trova a fondamento di tutto il divenire” ( p. 9 ) annuncia la salvezza possibile o il naufragio inevitabile? Il passaggio dal “ darsi iniziale” del mondo all’affronto della separazione che le cose e gli esseri subiscono come ingiuria o ingiustizia, in che senso parla di svelamento di una possibile, rinnovata esperienza della “ terra mattinale”? Se il tempo implacabilmente ci aggredisce  col suo “ devastante potere di annientamento” ( p. 46 ), se “ nessun medicamento può essere apportato” ( p. 55 ) alle ferite del tempo, della differenza e del contrasto, come pensare alla “ salvezza cui ci può affidare “ la luce originaria”? ( p. 21).

Si sa che il testo poetico, come quello letterario o filosofico, giunto al suo compimento, è più del lettore che dell’autore. Senza il lettore sarebbe come lo spartito a cui manca il musicista: corpo privo di vita, di suono, muto, insomma. Perciò Il lettore è, in qualche modo o misura, il co-autore: la fortuna della scrittura, che conferma la sua valenza poetica, è, in definitiva, nella lettura. Se l’opera poetica, giunta al suo compimento, appartiene al lettore più che all’autore poiché la sua vita continua  nell’animo e nella mente di chi legge, possiamo dire che l’infinito/indefinito originariamente armonioso cui si volge il desiderio del poeta nel richiamarsi al pensiero di Anassimandro, è la metafora di ciò che è lo strato profondo, perenne, universale da cui nasce il mondo della vita, dell’originaria intersoggettività o ontologica relazionalità tra io e mondo.

Il desiderio di infinito  è desiderio della Natura allo stato nascente, del contatto con il mondo primordiale  di cui non lo scienziato che oggettiva per separazione ma il pittore o il poeta che descrivono per relazione percettiva la unitaria tonalità, la originaria relazionalità delle cose ci danno fedele testimonianza. La pittura di Cézanne, di cui Merleau-Ponty ha dato una mirabile quanto memorabile lettura, ci porta al di quà della distinzione di vista e tatto, allo strato da cui nascono le cose, allo stato nascente così che “ noi vediamo la profondità, il vellutato, la morbidezza, la durezza delle cose, perfino il loro odore.[1] Di questo innocente stato del mondo della vita le Edeniche ci comunicano esperienza.

Dunque, qual’è il loro senso profondo? Leggerle, diciamo, come un appello poiché  “ l’errare è ricerca di un rifugio” ( p. 33 ).

Nel passaggio dalla metafisica della Sostanza  o filosofia essenzialistica ( prima parte ) all’ontologia  del mondo vissuto o, husserlianamente, del mondo della vita ( seconda parte ) la Natura originaria si dà non come irraggiungibile lontananza ma come presenza che esige impegno fattivo, intellettuale e morale, per ridare l’originario senso al nostro essere al mondo. Ci troviamo dentro i percorsi del pensiero contemporaneo più avvertiti della esigenza di una filosofia all’altezza dei problemi esistenzialmente più impegnativi.  Ne riproponiamo tre la cui la ricerca converge sul sostrato originario e unitario degli esseri e delle cose del mondo: Maurice Merleau-Ponty, Gilbert Simondon, Alfred North Whitehead. Sono filosofi non sovrapponibili: la fluidità delle descrizioni del mondo della vita di Merleau-Ponty si discosta dalla tecnica narrativa di Simondon;  entrambe non soffrono delle approssimazioni del pensiero di Whitehead  oscillante tra  Cosmologia e  mondo della vita. Qui conta, però, ciò che li accomuna non ciò che li divide.

La fenomenologia merleau-pontiana descrive lo strato originario o Natura come “ carne” o “membratura” in cui non vi è la separazione di soggetto e oggetto di cui parla il pensiero riflessivo o predicativo: pensiero di sorvolo, dice Merleau-Ponty.

La Lebenswelt è nella fenomenologia merleaupontiana il sostrato primordiale in cui vi è ambiguità di soggetto e oggetto, di immanenza e trascendenza, cioè unione preriflessiva, precategoriale tra interno ed esterno, quindi, originaria inerenza della coscienza al mondo.

Il soggetto, non come Kӧrper o corpo oggetto ma come Leib o corpo proprio, come corpo percettivo non come corpo pensato o oggettivato, è in radicale, ineliminabile  relazione con il mondo che lo circonda: “ l’interiore e l’esteriore sono inseparabili. Il mondo è tutto dentro e io sono tutto fuori di me”.  L’intercorporeità è intersoggettività. L’intreccio di io e mondo  o chiasma si mostra a evidenza nell’essere il corpo che io sono ( non il corpo che ho, cioè il corpo oggetto ) sensibile e senziente, visibile e vedente, toccato e toccante. Il corpo può vedersi come vedente/visibile in virtù della sua inerenza a ciò che guarda e che lo ri-guarda, cioè della sua  radicale apertura al mondo preindividuale.

Del sostrato originario nel mondo vissuto o mondo della vita parla anche Gilbert Simondon, filosofo vicino alle posizioni merleaupontiane della Fenomenologia della percezione come testimonia la pregevole opera  L’individualizzazione alla luce delle nozioni di forma e informazione ( 1957 ).

Il problema della individualità ha la sua genesi nel pensiero presocratico, dice Simondon. Ciò però non ci induce a una semplice esegesi della filosofia anassimandrea, quanto a una lettura della realtà o Natura in cui siamo immersi e da cui emergiamo. L’individuo è nel potere di generazione dello strato primordiale, preriflessivo, antepredicativo della Natura. Anche per Simondon i processi di individuazione, gli individui, le cose, le persone emergono da un unitario sostrato primordiale.

Non si può ignorare, in questa prospettiva conoscitiva, il pensiero di Whitehead il cui  Concetto di natura descrive lo scambio originario tra mentale e fisico: la Natura originaria, Unità primordiale di forme potenziali, è armonia  di individualità connesse nell’unità di un Fondamento.

 Peraltro, intellettuali impegnati in diversi campi culturali ( pittori, scrittori ) guardano allo strato primordiale, unitario e unificante del mondo vissuto. Nel campo dell’arte pittorica, per esempio, Malevič ci propone un’opera esemplare: “ Il quadrato bianco su fondo bianco è come l’aurora del disvelamento dell’Essere che sale lentamente dal fondo del suo abisso; e inabissarsi sul bianco è immergersi nell’infinito”.[2]

Le Edeniche sono il cammino descrittivo-argomentativo che conduce alla primordiale simbiosi tra interiorità e esteriorità, tra soggetto e natura, a quello strato aurorale in cui l’uno non è distinguibile dall’altro; sono l’insopprimibile esigenza di riscoprire la primitività del mondo che permane nel nostro vissuto percettivo o precategoriale sotteso alle contraddizioni, ai contrasti, alle conflittuali “ ingiustizie” del vissuto quotidiano.

La poesia di Ermini, perciò, ci riporta entro le cose stesse con parola profondamente evocativa di uno stato mattinale “ capace di minare ogni nostra persuasione” ( pp. 20-21 ) rendendoci consapevoli della verità che già nel III secolo d.c. Cipriano di Cartagine diceva  riguardo al declino del mondo, alla sua decadenza causata dagli uomini.

Le Edeniche ci mettono in riascolto della ouverture del mondo, del preludio della storicità o divenire; ouverture la cui armonia resta sottesa al ritmo del tempo: armonia originaria che non è l’ordine di cui parlano la fisica, la matematica, la biologia, ma la consonanza di cui parlano la poesia e la filosofia sensibili all’originario ritmo del mondo, di cui si perde memoria ed esperienza nella distratta e distraente quotidiana abitudinarietà del vivere.

A ben vedere come stanno veramente le cose, esse ci ricordano che lo strato ontologico del nostro essere al mondo è la nostra inerenza, poiché le cose del mondo della vita non sono oggetti a sé stanti: esse, dice Merleau-Ponty, sono fatte della medesima stoffa del mio corpo. Gli altri mi abitano nel mentre che, al contempo, io li abito.[3] Il corpo che io sono, non quello che io ho, cioè la corporeità non è una porzione di spazio né un fascio di funzioni, ma un intreccio di visione e di movimento.[4] In definitiva, l’individuo è un campo intersoggettivo di cui il linguaggio è la manifestazione e l’evidente conferma: io parlo ma sono, al contempo, parlato: se la parole è il mio parlare, la langue è il mio essere parlato.

L’intreccio preriflessivo da cui nascono le mie stesse idee è lo strato sorgivo del mio essere al mondo, in cui non ha senso parlare di separazione/distinzione di soggetto e oggetto: è l’intreccio di cui il poeta e il pittore esprimono il senso e il valore: “ Ho sentito, in una foresta”, ha detto il pittore André Marchant, “ che non ero io a guardare la foresta, erano gli alberi che mi guardavano, che mi parlavano”.[5] Il paesaggio si pensa in me, diceva Cézanne.

La poesia, confermano le Edeniche, è capace di sottrarci al pensiero riflessivo che oggettiva il mondo, a ridarci ciò da cui ci allontana: l’esperienza del nostro originario essere al mondo, della ontologica relazione che precede ogni sapere oggettivante. Perciò, la poesia è l’uscita dal prosaico grigiore della conflittuale abitudinarietà quotidiana, l’apertura al mondo precategoriale che è questione di preriflessiva percezione in cui le cose e l’io si danno come inestricabile intreccio.

Il naufragio metafisico cioè la morte è assolutamente inevitabile: in nessun modo possiamo eliminarlo dal nostro orizzonte di vita. Può essere, invece, evitato, per dovere morale e intellettuale di vigilanza critica riconquistata con rinnovata sensibilità, il naufragio esistenziale prodotto dallo sradicamento dal sostrato intersoggettivo della nostra essenziale relazionalità con le cose e gli esseri; dallo spaesamento, insomma, nel deserto dei disvalori che confliggono con l’originaria cioè preriflessiva, precategoriale, percettiva, valoriale armonia dell’intercorporeità o intersoggettività,

Non è forse questo il salvifico messaggio del bel libro di Flavio Ermini la cui sapientemente misurata fertilità del verso non è data da comunicazione dotta o erudita ma da desiderio di conoscenza evidente nella esemplare sobrietà formale del ritmo poetico?

Flavio Ermini, Edeniche. Configurazioni del principio, Moretti&Vitali, Bergamo 2019

[1] M. Merleau-Ponty, Senso e non senso, Milano, Il Saggiatore, 1962, p. 34.

[2] J. Brun, Les rivages du monde, Paris, Descleès, 1979, p. 167.

[3] M. Merleau-Ponty, L’Occhio e lo Spirito, Milano, Edizioni SE, 1989, p. 15.

[4] Ibidem, p.17.

[5] Cit., in Ibidem, p. 26.

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