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Soundscapes, di Vincenzo Bagnoli

(Di Soundscapes mi colpisce il controllo di un codice che ha campionato insieme il verso più classico della metrica italiana, l’endecasillabo, permeato di visioni allucinate, e l’atmosfera dark e new wave degli anni Settanta e Ottanta, quelli del coming of age dell’autore, con l’euforia di una musica che liberava finalmente tutta l’angoscia del nostro perenne – occidentale – stare sull’orlo della dissoluzione. I testi di Soundscapes difatti formano una sorta di concept album verbale, con espliciti riferimenti all’immaginario musicale privilegiato: gli Who, i Genesis, i Marillion, Jesus and Mary Chain e altri, fino al visionario vertice di Bowie e al suo strano astronauta alla deriva nello spazio. È il contraltare dell’essere persi quaggiù sulla terra, nel teatro della città, che rigenera regalando l’anonimato, ma non rilascia, imprigionando nella solitudine. La città, dunque, Bologna, costituisce la scena che autorizza l’incontro tra tradizione poetica classica italiana e universale e musica moderna transnazionale, consentendo di accogliere gli estremi di una meditazione inquieta negli spazi sconcertati, pieni e vuoti, della vecchia cittadina provincialotta e “sognata” ora grande centro rinnovato e alienante, dove si avvicendano controllo e dispersione. Scrive Vincenzo Frungillo nell’introduzione: “L’ingegnere della parola deve costruire lo spazio in cui la vita, il bios, torni a sé stesso, non si perda in mille rivoli, in codici indistinti; così facendo la poesia diventa appropriazione del vissuto con altri mezzi.” (8) E, aggiungerei, si riappropria della possibilità di interrogare la presa di parola: cosa sono la protesta, il grido, lo sdegno, il manifesto in uno spaziotempo in cui ciascuno può parlare, esporre la parola, scambiarsela, senza mai sentirsi rappresentato? Le ansie e le contraddizioni del sentire sempre quella “nota dominante, il tonfo sordo inumano, il basso pulsante e continuo dello slogan” accompagnano l’impulso a parlare la poesia persino su paesaggi irriconoscibili, l’andare cieco e mezzo disastrato di una polis sfiduciata. Bagnoli trova in questa miscela la chiave per sondare, lontano dalle prediche, lo stare in relazione. Considera e squaderna davanti a noi un futuro storico temibile, quasi inguardabile, le calamità presunte ‘naturali’ fin troppo ‘culturali’, la promiscuità non rassicurante degli aggregati verbali e umani contro cui si collide fortuitamente, continuamente, senza via di scampo, le loro subitanee rivelazioni, quelle coincidenze cosmiche che sembrerebbero nutrire la speranza della cara, vecchia, logora comunicazione, gli strati di passato che si avvicendano e non sempre si fanno memoria servibile, il tessuto di testi non sopprimibile, la matrix in cui siamo forgiati, l’interrogare come possiamo noi parlare non dico con purezza, ma con fiducia politica, l’afflato ancora innocente di quando potrai trovare ‘il tuo’, “quando giri per il centro insieme a un adulto e vedi le cose diventare racconto, senso, storia, ti chiedi quando potrai tu stesso raccontarti la tua forma del mondo, trovare le strade che portano dove vuoi arrivare, con i tuoi passi, con le tue parole” (20). Nella forma geniale che ha escogitato Bagnoli abbiamo ancora lo spazio per chiedercelo. rm)

 

da Soundscapes, di Vincenzo Bagnoli

 

Winter Shades 1973

(forma e mutamento)

All’inizio c’è la luce pallida di un cielo velato, lattiginoso, bianco opalino. E dopo il buio. Bianco e nero che poi si compongono nei tratti di un volto. Ci sono quindi i profili di un paesaggio: da una parte le colline, dall’altro una distesa di tetti fino all’orizzonte. Sempre bianco e nero, a quanto pare. È la luce dell’inverno che appiattisce tutti i colori nel grigiore della bassa, o è uno scherzo della memoria che riversa i ricordi più lontani su una pellicola antiquata? C’è poi il colore dei tramonti, l’ombra grigia e violetta su quell’orizzonte, un volo rapido e obliquo attraverso il riquadro della finestra. C’è la luce tagliata a strisce e impolverata sulla facciata di case invecchiate. E la luce, nel ricordo, è sempre quella di orizzonti velati di foschia, del pomeriggio declinante, dominata dal grigiore invernale della città «fosca turrita» o dalle tonalità del rosso: del rosso mattone, del vermiglio, del ruggine di un binario annegato nell’asfalto nella zona industriale, del rosso fuoco, del rosso delle tegole, del rosso Bologna. La poesia è solo il battito delle ciglia che spezza le iridescenze di colori e sfumature in semplici sequenze di ombre e luci.

 

Un lungo lamento sull’orizzonte
nel vuoto dei tramonti di novembre,
le sfumature di grigio e violetto
fra ombra e luce, ancora sospeso
il peso languido delle distanze,
colori alterni in sincronia veloce

 

Le successive immagini sono consegnate alle livide albe di novembre, mai sospettate prima; albe in cui, sopra distese di gelida brina, una nebbia che sembra cancellare tutto “piovigginando sale”. E tu dentro l’aula, stordito ancora per il freddo, senti i versi descrivere quello che hai appena conosciuto fuori, come se ti si dispiegasse davanti un’altra volta e finalmente chiaro, come se con gli occhi di un altro rivedessi il te stesso di prima di là dalla finestra: è l’unica nitida traccia che puoi afferrare di un mondo altrimenti sospeso e nascosto dalla distanza fra la girandola di colori dei racconti e la cortina uniforme della foschia. E ti impressiona questa coerenza, questa solidarietà fra la «pronuncia» e il «mondo» (quella che un altro poeta – come avresti scoperto tanti anni dopo – chiamava «l’angelo della realtà»), proprio lì, in uno di quegli edifici di cemento tirati su in fretta in mezzo allo sfasciume di terra di riporto, macerie, reti, rottami, orti intossicati, recinti di lamiera, distese di fanghiglia più che prati; in mezzo a un nulla cieco e privo di relazioni, insomma un nulla reso più simile al niente da quella nebbia che cancella l’orizzonte. Ancora non si chiamavano non luoghi, questi territori, perché un tentativo di fare luogo c’era: un progetto, pareva. Lo senti attraversare l’aria nelle parole che donne e uomini si scambiano, così come senti la fiducia nelle loro voci.

 

Luce polare di giorni su giorni,
sei l’orizzonte di questa città,
di ogni città, il bordo di foschia
nebbia che sale all’orlo del cielo,
tutti gli autunni che sono passati

(luce violetta che attraversa gli occhi)

 

Ma la prospettiva è un’altra, lì sul bordo, in quella zona obliqua descritta dalle diagonali che attraversano solo i contorni della città, dove si forma l’informe, dove agisce la disorientante regola della rovina, la logica della frana, nascosta e rivelata nella storia; lo sfascio, la disfatta che si assesta nella crescita a vista dei detriti sul perimetro all’orlo dello scavo. Su questo bordo cominciano a sorgere poi i gelidi grattacieli, immobili nel cielo della sera come implausibili, estranee elevazioni: valori astratti sospesi al di sopra di tutti… E in questa prospettiva anche il ritmo di quei versi ha un suono falso, come le merlature di Rubbiani sui palazzi antichi del centro e come i tracciati di alcune vie, ma va bene così: la prosodia solenne, studiata, artificiosa, e il susseguirsi delle colonne nella penombra dei portici sono comunque costruzione, sviluppo, progetto; sembrano avere un senso e portano a qualcosa, per chi ha poco cammino alle spalle e viene da quella periferia dove tutto – campagna e città, storia e forma – è confuso e cancellato, dove le strade si fanno viottoli in terra battuta e finiscono sull’orlo di acque stagnanti, inquinate dagli oli di qualche officina.

 

Il freddo chiarore del cielo ghiacciato
cancella il sordo peso dei palazzi
di grigia pietra, di cupo mattone;
presenza e assenza mi scavano dentro
il furore di un pogrom silenzioso,
lama sottile di mille cristalli
di acqua gelata sospesi nell’aria
sottili come il mi cantino, un bisturi
che incide sulla nostra pelle il vuoto,
cosa vogliamo e cosa ci serve,
il malumore e questa tristezza:
un ottocento di vecchi richiami
i canti degli uccelli nel grigiore

 

Questa è l’«origine», per i «poeti di sette anni», quello che c’era prima (non certo la natura); questa la forma del bordo, quindi il contorno, il profilo della città che hai davanti agli occhi. E quando giri per il centro insieme a un adulto e vedi le cose diventare racconto, senso, storia, ti chiedi quando potrai tu stesso raccontarti la tua forma del mondo, trovare le strade che portano dove vuoi arrivare, con i tuoi passi, con le tue parole. L’idea te la dà un libro, le Filastrocche in cielo e in terra, che parla delle cose scritte anche nei sussidiari, ma in un modo che sembra cambiarle, farle sentire più vicine e distanti insieme, come se le guardassi con gli occhi di chi ha visto più di te e più lontano, e che perciò ha visto anche te stesso. Per quanto strano sia, ti ricordano un altro libro che hai trovato in casa, un lungo libro, in tre volumi, che hai provato leggere senza però capirlo, incuriosito perché sembrava parlare del mondo tutto intero, anche di ciò che non vedevi, ben oltre l’orizzonte (e ti piaceva moltissimo l’astronomia, infatti). Presto scopri, nel giro di pochi anni, che la stessa città antica può essere anche diversa da come si è mostrata, come se quel racconto e quella storia d’un tratto fossero a loro volta interrotti, rimessi in discussione; come se con i fumogeni fosse calata anche tra i portici la cortina di un grigiore che cancella le prospettive e il senso del percorso. L’apparizione dei cortei e dei carri armati nelle vie del centro, prima dal vero poi in televisione, come in un riflesso bizzarro, ti colpisce, ma in un modo del tutto differente dai versi ascoltati a scuola: la loro immagine ripetuta non ti lascia nessuna coerenza, ma sembra quasi sfumare nell’urbanistica confusa dei sogni il tuo racconto della città, ancora labile e fluido. E poi c’è la ferita di edifici cancellati e di voci azzittite, che completa una severa lezione: ciò che è detto, è detto per restare, e viene detto con forza per farlo durare, fino alla violenza; e d’altronde servono forza e violenza se si vuole rimuovere quello che è stato detto prima. Scopri allora che le parole possono avere un altro ritmo e un’altra urgenza, quella dell’urlo, ma anche dello slogan, e devi stare attento a distinguerne la cadenza.

 

Le nostre parallele solitudini
similitudini fra specchi opachi
toccati dalla polvere si guardano
sospesi ai margini del mondo e intanto
l’inverno ha già sorriso chiaramente
soltanto da una stella nell’azzurro:
tu ridi nitida stella dall’alto,
la mia stanchezza galleggia su acque
senza fondo di notti sterminate
dove non troveranno le mie ossa

 

Ci sono anni duri e crudi: la città non è più solo città sognata e ci sono cicatrici, macerie (quelle che l’«angelo della storia» guarda) che segnano per sempre una topografia concreta, inamovibile, non più sospesa e fluttuante. La nebbia plumbea scesa accanto ai muri rossi come una fredda barriera, una transenna di metallo, non sale più, e accanto a quella impari ad ascoltare il dolore da altre voci, nelle canzoni: quelle cantate dalla gente che protesta e quelle che invece parlano proprio a te, ti sembra. E nell’assedio del no future, tra minaccia nucleare e catastrofe ambientale, tra le menzogne di una storia scritta al di sopra e le bugie del consumo come unica consolazione, ti sembra di sentire quello che sente un’intera generazione: cresciuta con la televisione, espropriata del passato e condannata a vite di plastica, accantonata dentro ai casamenti e tra le mura dei monolocali nell’esilio penitente dei quartieri dormitorio, sepolta nell’architettura del grigio, nella solitudine popolare dell’alveare, negli scorci spenti sempre uguali, nei prismi di antracite (i titani nell’epoca moderna li chiamava Le Corbusier), nel deserto dei muri definiti dal buio, compatti come lapidi accese inutilmente di piccole luci votive. Ti sembra di dovere continuare a guardare queste outlandos d’amour senza capire: rampe di highways nel sole morente o nella luce dolciastra dei neon, nel sonno spento di ferro e cemento, i sospiri condensati e ricaduti in sogni senza occhi che scorrono in rivoli e rigagnoli sotto le case.

 

Nei tratti più grigi del calendario
il vento passa ma non muove nulla
nella compatta muraglia dei giorni.
Ora si è aperto un cortile di sole,
rettangolo bianco contro la tempia,
l’aria serena, respiro più largo:
vorrei addormentarmi in altre notti
lontano da tutto tranne dal raggio
che cade sul muro dopo sei mesi

 

Le mattine continuano ad avere il medesimo colore, lo stesso che hanno sempre le poesie sui libri di scuola; ma dove altro trovarne di diverse, che abbiano altri toni, lasciate da parte ormai le filastrocche? Appaiono a tratti in quelle canzoni che continui ad ascoltare perché sembra che parlino di te; le scrivi sui diari, insieme ad alcuni dei versi che trovi nelle antologie, come una guida pratica per orizzontarti: ma non è che guardandoti attorno, proprio lì in mezzo alle strade di Bologna, tu riesca a ritrovarti con quelle mappe, non più di tanto. Sono un fatto tuo, e finiscono lì, all’orlo del corpo, sulla pelle che si limitano a sfiorare con le loro tinte d’acquerello e i loro tiepidi disagi: si fermano al derma di asfalto e strade selciate, alle mucose di case popolari, al reticolo di vie senza sbocco come vene azzurre. Ma la muscolatura della città e delle paure è troppo robusta: troppo pesante l’ansia delle ossa, l’urto dei muri, l’incontro impietoso di aspro cemento e liscio epitelio. A volte le poesie appaiono nel mezzo di una delle riviste a fumetti che leggi, e sono poesie che serbano in un certo senso l’eco di quell’urlo, di quell’urgenza: dicono le cose in un altro modo, un altro ancora rispetto ai libri di scuola, ti lasciano perplesso, ti fanno pensare. Lo stesso succede a volte (di rado) durante qualche ora di lezione. Quante? Poche. Ma puoi ricordare almeno quelle sul libro misterioso, che ti viene finalmente spiegato, sulle ragioni di Lucrezio e Leopardi, su Enea, sulla Terra desolata, su Aleksandr Nevskij. Poche cose, ma ti lasciano il sospetto che non sia tutto lì, solo una reliquia dietro i grigi tendaggi del passato o un fatto privato con i colori di una favola raccontata d’altri e già conclusa dietro copertine patinate.

 

Aghi di ghiaccio in quota attorno
al sole pallido, l’aria pungente
della corsa veloce da lontano
nei rapidi respiri affannati,
intanto il gelo incalza da vicino
con i rumori fiochi dell’inverno,
tra i rami secchi il suono dell’azzurro
apre la rete di cieli più vasti
e tutto, i passi di fretta, le svolte,
vedi, non è che vento vuoto e vano
e freddo, il vento dei giorni sereni
proprio all’inizio della primavera
venuto alle spalle dall’inverno

 

Sai che hai ancora tanto da ascoltare (ne avrai sempre), ma cominci a sapere che non basta: se resti in silenzio, non c’è più spazio per l’onda della vita e tutto quello che senti alla fine prende un’unica cadenza, quella della nota dominante, il tonfo sordo inumano, il basso pulsante e continuo dello slogan. Devi parlare, ogni tanto; non in inutili monologhi, ma quando interroghi con gli occhi le pagine scritte, perché la loro stessa parola si animi, esca dalla griglia, dalla sequenza e si sciolga in un dialogo lungo il ritmo del respiro delle donne e degli uomini che sono vissuti. E devi ancora parlare, per orizzontarti e trovare il tuo posto fra le donne e gli uomini che vivono nei grandi deserti delle strade suburbane, nello spettacolo degli alti palazzi e delle centinaia di finestre illuminate attraverso la città: una comunità silenziosa e distante (ben diversa da quelle sussurranti e contigue dei libri, delle canzoni o del salotto entro le mura, che hanno una loro storia raccontarsi ancora e ancora e ancora…). Perché ci dev’essere una poesia per quest’anonima forza che senti nel paesaggio della moderna edilizia popolare, nelle scuole nelle case nelle palestre dove si cresce insieme, e ci deve essere un colore diverso, che abbia i toni dell’urgenza e della coerenza, la «pronuncia del mondo», la sostanza del tuo tempo e del qui.

 

Qui dove si fonde principio e fine,
e tutto e parte, dove tutto forse
si mescola e confonde e poi rinasce
in parti uguali sparse tra i disegni,
tra libri, e giornali e copertine,
qui tutto si confonde, il racconto
si mescola al sonno sopra la testa,
si stempera il colore nell’intrico
di carta patinata e di parole,
di tutto lo spazio bianco e del vuoto;
anche il disegno, tra pagine e gabbie,
grafica e dorsi male allineati,
non rifiorisce, senza bellezza
resta la stanca rassegna illustrata
agli occhi indifferenti del bambino
che non legge quasi mai ciò che scritto
nel bianco E nel vuoto delle nuvole
poi entra Tristano e dice: ecco il giorno.

*

Vincenzo Bagnoli, Soundscapes – 33 giri extended play (Carteggi letterari 2019)

 

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Renata Morresi scrive poesia e saggistica, e traduce. In poesia ha pubblicato le raccolte Terzo paesaggio (Aragno, 2019), Bagnanti (Perrone 2013), La signora W. (Camera verde 2013), Cuore comune (peQuod 2010); altri testi sono apparsi su antologie e riviste, anche in traduzione inglese, francese e spagnola. Nel 2014 ha vinto il premio Marazza per la prima traduzione italiana di Rachel Blau DuPlessis (Dieci bozze, Vydia 2012) e nel 2015 il premio del Ministero dei Beni Culturali per la traduzione di poeti americani moderni e post-moderni. Cura la collana di poesia “Lacustrine” per Arcipelago Itaca Edizioni. E' ricercatrice di letteratura anglo-americana all'università di Padova.
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