‘e riavulille

di Maria Lenti

Chi è il diavoletto (riavulille) del romanzo di Tullio Bugari? Dove agisce? Come? Quando? Con quali armi, strumenti, compagni e amici?

Chi ha vissuto gli anni Settanta del Novecento lo riconosce subito. È lo spirito dei giovani di quel periodo. Fabbriche da difendere e da far proprie, comunicati stampa, volantinaggi, radio private, scioperi contro i decreti Malfatti, amori più o meno effimeri, risvegli in promiscuità (con abbracci non si sa se compiuti a fondo), sesso solitario interrotto da visitatori improvvisi per porte sempre aperte, vacanze separate, la musica e il sax, manifestazioni politiche raggiunte con automobili scassate e sgangherate, “orgoglio” nell’usare parole della quotidianità corporale (Porci con le ali è un capisaldo nominato in una pagina), il sostegno a Basaglia per la chiusura dei manicomi, un po’ o molta difficoltà nell’isolare, dentro la confusione delle riunioni tanto necessarie quanto ogni volta da aggiornare, l’obiettivo da raggiungere e i mezzi con cui ottenere un risultato. Una conquista, o conquiste lì a due passi mai piene nelle mani.

Periodo di fervori, di spinta verso…, di tensioni dentro un’atmosfera di libertà persino impaurente o impaurita. L’egida: ideali e utopie. E la sorpresa-soprassalto di fronte a tragedie vere, come l’uccisione di Giorgiana Masi a Roma, di Francesco Lo Russo a Bologna, del ragazzo bruciato vivo a Torino.

Chi c’era, per aver letto cronache lontane, commenti relativi, per essere attivo in qualche partito, per aver condiviso la militanza in provincia, nelle vicende vicine, giornaliere, dai risvolti non drammaticamente letali, sa e ricorda.

Tullio Bugari affronta di petto questo vissuto. Distende nella scrittura il doppio registro della invenzione e della testimonianza diretta stralciata da documenti d’epoca (testate, cronache sindacali, discorsi parlamentari) e da alcuni commenti a posteriori, narrando in amalgama, con qualche “dente” o scarto talora stridente, le diverse materie. Nel complesso rende un quadro in cui prevale la cronaca-fatta-divenuta storia e non il giudizio, mentre i tratti di ironia, sparsi non a iosa ma presenti come riavulille, valgono da deterrente a ribadire le velleità pur generose di Aura, Arianna, Febo, Cafiero, Nemesi, i protagonisti. Velleità scambiate, allora, per possibilità davvero imminenti, per ideali irrinunciabili, per radiosità al di fuori di partiti (anche di sinistra) e sindacati.

Velleità, infatti: la fabbrica, alla fine del romanzo – chiuso  all’incirca prima dell’esplodere del terrorismo più terribile e inquietante -, è ancora in forse sulla dismissione definitiva o sul proseguimento magari trasformato (e, qui, varrebbe probabilmente allacciarsi alla vicenda dallo scrittore jesino descritta in Simeide, Seri, 2019, sulla Sima della sua città); i protagonisti, giovani di entrambi i sessi, cercano e trovano, o si convincono obtorto collo  di aver trovato, una loro strada – chi si mette in una coppia, chi resta nella propria unione già collaudata, chi sotterra una pistola di dubbio utilizzo pregresso, chi continua il proprio lavoro sempre in lotta con la proprietà rimuginando sui consigli di fabbrica, chi tenta una comune in campagna, chi si vota alla docenza, chi intensifica la presenza femminista, ecc. -. Si ritrovano però tutti insieme, a farsi incantare se non travolgere dalla luminosità del paesaggio marchigiano, sulla collina. (Reminiscenza pavesiana, forse, reiterata in più passaggi e in clausola).

Hanno scherzato, quei diavoletti, oppure erano consapevoli delle loro giornate in campagna (nascosti o rifugiati), in fabbrica, alla radio, nei cortei? La domanda è di chi legge. Chi scrive li descrive molto “presi” dal movimento, questo sì: un affannarsi da un luogo all’altro, arrancante la Cinquecento, da una situazione all’altra, da un discorso (infinito, da cerchio alla testa) alla sempre mancata conclusione, da una precarietà esistenziale al desiderio di una soluzione a breve.

Una materia narrativa non incandescente. Neppure di lieve entità. Tenuta in piedi dall’esergo all’ultima pagina con perizia da un protagonista di quegli anni. Il quale, a me sembra, ha non soltanto percepiti – dal bordo della strada, da un margine, leggermente sorridente – quei frangenti, ma li ha attraversati, soffermandocisi parzialmente discosto (forse fotografo alla Helmut Newton trasferito nel romanzo), un poco convinto un poco scettico, sentendoli vivi dentro e fuori.

Protagonista-autore, percorre quegli anni e li ripassa. E sembra chiedersi: è stato un sogno o è stata una realtà? L’una e l’altro. La realtà (i documenti riportati o citati) supporta il sogno di una cosa che realtà non è diventata: questo appare, semiserio fin dal titolo, ’e riavulille di Tullio Bugari.

 

Tullio Bugari, ’e riavulille, Camerano, Gwynplaine 2018

 

L’immagine è di Alfredo Tabocchini: Festa del 1° maggio 1976. Acquedotto di Villa Potenza – MC

 

 

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Renata Morresi scrive poesia e saggistica, e traduce. In poesia ha pubblicato le raccolte Terzo paesaggio (Aragno, 2019), Bagnanti (Perrone 2013), La signora W. (Camera verde 2013), Cuore comune (peQuod 2010); altri testi sono apparsi su antologie e riviste, anche in traduzione inglese, francese e spagnola. Nel 2014 ha vinto il premio Marazza per la prima traduzione italiana di Rachel Blau DuPlessis (Dieci bozze, Vydia 2012) e nel 2015 il premio del Ministero dei Beni Culturali per la traduzione di poeti americani moderni e post-moderni. Cura la collana di poesia “Lacustrine” per Arcipelago Itaca Edizioni. E' ricercatrice di letteratura anglo-americana all'università di Padova.
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