Sguardi incrociati

 

 

di

Lisa Ginzburg

 

Nel 1956, dopo sette lunghi anni trascorsi lontana, a Londra, Doris Lessing torna in Africa. Torna in Rhodesia (attuale Zimbabwe) lì dove dopo un primo trasferimento dalla nativa Persia (attuale Iran) ha trascorso infanzia e prima giovinezza. Non sta tornando per desiderio, ma perché costretta; non osserva il paesaggio in una condizione di felicità, con occhio infine ricompensato, bensì abitata da una strana euforia impastata di delusione. Preda di simili sentimenti misti attraversa i paesaggi del deserto del Karroo, a lei ben noti. Going home: quel breve ritorno lo ha voluto la vita, non lei; lei lo subisce. Lei che infelice e convinta di ritornare per sempre (non sarà così) si prepara a riabitare quegli stessi luoghi che faranno da sfondo a tante pagine della sua autobiografia.

Come si scrive se si torna, o invece si parte, o invece se si viaggia, si è in transito? Quali traiettorie controverse e ambivalenti legano l’ispirazione letteraria a sentimenti di appartenenza o non appartenenza a un luogo?

Stato d’animo dominante può essere la stizza, una rabbia incollerita nei confronti di “casa propria” e più forte di qualsiasi incantamento. Litigare con le proprie radici: quanto di più facile. Al contrario, si può guardare e scrivere entusiasti, pervasi da una meraviglia di “neofiti” stranieri. Quando i luoghi non sono le nostre radici, eppure belli tanto da farci preda di un innamoramento per il lontano – ora vicino – che acuisce le percezioni rendendole dicibili (dove il contesto straniero fa da stimolo per impressioni che già il solo scrivere fa sentire “a casa”).

Le traiettorie si intersecano: rotte di sguardi di viaggiatori, di ritornanti, di autoesiliati, di stranieri per necessità o invece per libero volere e desiderio proprio. Diverse anche le prospettive generate: c’è la visione di chi ritorna, quella di chi va via, e c’è lo sguardo di chi arriva in visita – occhi questi ultimi ammaliati dal luogo estraneo, una terra cui non si appartiene realmente e che invece per misteriose ragioni viene scelta come la più importante, la più intima, un posto nuovo ma che inspiegabilmente è nostro – parrebbe –  da sempre.

La “patria dell’anima” che per Gogol è stata l’Italia, tanto per intenderci. Gogol che a Roma si entusiasma, lavora come un pazzo a Le anime morte; Gogol che tra i paesaggi italiani trova un se stesso del quale non aveva la più lontana idea. Gogol che in Italia si sente a casa come mai gli era accaduto in Russia. Non così diverso lo sguardo, questo anche straniero ed entusiasta, di Pavel Muratov, delle cui Immagini dell’Italia Adelphi pubblica il primo volume (a cura di Rita Giuliani, traduzioni di Alessandro Romano e Valentina Parisi, pp. 465). Cronaca di viaggio culturale, saggio di storia dell’arte, ode alla forza ispiratrice dello straniamento, esempio illuminante di quella particolare lucidità che è di una visuale di straniero il cui prisma ottico venga trasfigurato dall’arte.

Perché se uno scrittore osserva i luoghi considerandone non solo la bellezza, anche lo stimolo creativo che quegli stessi luoghi esercitano sul suo scrivere, l’occhio dello storico dell’arte partorisce invece un’altra forma di racconto. Le descrizioni di paesaggi e città italiani in Muratov prendono forma a partire dalle loro rappresentazioni in figura: dai quadri. Dove raffigurabilità è sinonimo di dicibilità: per essere stati magnificamente dipinti, ora quei paesaggi possono venire restituiti sulla pagina scritta con una prosa di meravigliose eleganza e bellezza. La grande passione per la laguna di Venezia arriva a Pavel Muratov da Giovanni Bellini, dal San Giorgio di Carpaccio, da Tintoretto, ed è utilizzando come bussola l’arte di questi pittori che lo studioso russo viaggia, esplora, rendiconta, infiamma il lettore di tutto quanto dell’Italia ha infiammato lui come visitatore. Tintoretto è “ultimo grande artista del Rinascimento italiano”, colui il cui sguardo appare a Muratov come il più limpido, simbolico di quanto lui come viaggiatore va scoprendo e amando. Il procedimento narrativo funziona per raffigurazioni successive, e ogni stile e maniera di dipingere si espande sino a includere (e narrare) il tempo storico in cui quelle tecniche sono maturate. La Venezia del Settecento dipinta da Pietro Longhi, in un’epoca in cui “la maschera è autorizzata e protetta dalla Repubblica” – ed ecco la Commedia dell’arte, ecco Tiepolo, Francesco Guardi, prima ancora la Toscana di Giotto che sarà poi l’altra, successiva, quella dipinta da Donatello e Masaccio. Oppure Padova, “dove si sta bene solo di sera dopo aver passato la giornata in compagnia di Giotto e Mantegna”.

Anni di studi e limpido osservare assumono così forma di memorie, e le immagini evocate si trasformano da tele in pietre miliari di ricordo: dietro la mirabile cronaca di quadri, di città, di paesaggi, sempre appostato c’è il Muratov autentico “spatriato”, che tutto annota e nel mentre scruta ogni particolare indaga se stesso. Perché ciascuna opera d’arte parla allo scrittore di qualcosa che va ben oltre quel che rappresenta; la raffigurazione si fa passaggio chiave di una profonda esperienza di spettatore/narratore. In un’osmosi tra sguardo e oggetto, fusionale come può essere per un artista di fronte a un materiale sublime, ecco il Rinascimento narrato da un rinascimentale, e l’Italia descritta da un aspirante italiano.

Al centro c’è la realtà, ben più dei suoi pittori, per quanto lo sguardo di Pavel Muratov sa moltiplicarsi fondendosi con gli occhi di grandi artisti del passato. Diffrazione indotta, senza che il risultato in termini di resa sia meno potente; l’entusiasmo del coltissimo ricercatore è contagioso, tanto quanto inaspettato ed enorme fu il successo di Immagini dell’Italia. Libro “culto” negli ambienti degli emigrati russi (nella postfazione Rita Giuliani dice della grande ammirazione che per Muratov nutriva Joseph Brodskij). Una lezione di sguardo, e di sguardi incrociati. La visione di uno studioso d’arte si interseca con quella dei pittori, il guardare di chi scopre e s’innamora di un paese nuovo quasi si sovrappone a quello di chi ritorna là dove si è svolto il passato. Punto medio di ciascuna traiettoria, la nostalgia. Un moto illogico quanto del tutto poetico: dove il rammarico di poter solo ipotizzare un tempo raffigurato dall’arte converge con la nostalgia di un passato amato e odiato – quando si torna “a casa”, anche se per poco, e mai si sarebbe voluti tornare.

La nostalgia: che orienta gli sguardi e ne legittima l’intersezione, creando un effetto strabico, come strabico è l’osservare sia di chi veda il mondo attraverso le lenti delle sue raffigurazioni, preda della passione per nuove radici auto-attribuite, sia di chi, impaziente di volgersi al futuro, torni a visitare paesaggi che pensava salutati per sempre. Prospettive distorte come distorce i ricordi il sentimento, eppure vigili: punti di vista attenti a cogliere dettagli, gli occhi lucidi per quella febbre del racconto di cui certi sguardi incrociati sanno far ammalare.

 

 

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3 Commenti

  1. Lessing di passata…..in realtá é l’Italia il centro o l’epicentro dei richiami dell’esilio….a cominciare dal pio Enea….E i fondali che restituiscono improvvisamente nel mare di Riace i bronzi impefettibili….Riace? Il piede dello Stivale che vorrebbe dare un calcio ai negri che fortunosamente approdano….Altra culla del mondo il Mediterraneo e quindi l’Italia cosí bene rappresentata da Doris Origo. Insomma brava Lisa Ginzburg che in poche righe….

  2. Reggio Emilia è la mia attuale residenza, una città che vivo come un «transito», perché la mia vera patria – quella che ha dato i natali ai miei genitori e ai miei zii e ai miei nonni; quella dove mi sono sempre sentito a casa; quella che ho sempre amato e in cui sogno di vivere per sempre, nonostante sia nato a Catania e vissuto a La Spezia e Parma, prima di giungere alla città del Tricolore – è la Sardegna. La cosa assurda è che io in Sardegna non ho mai vissuto con continuità come nelle altre città – eppure mi sono sentito molto più legato ai suoi paesi agricoli, alla sua cultura e gli stessi sardi mi considerano uno di loro, soprattutto al paese di mio padre, Ales (dove nacque Antonio Gramsci) – «Ma tu sei nipote di Mundiccu», mi dicono in lingua campidanese, ricordandomi il soprannome di mio nonno Raimondo Palmas; e la risposta affermativa mi trasforma in un ospite di riguardo, in un appartenente della cerchia di quel borgo millenario, in uno di loro: non era mai capitato da nessuna altra parte, né a La Spezia dove ho vissuto otto anni, né a Parma dove ho vissuto per ben venti anni.

    Il richiamo delle radici è per me un tema fondamentale – ho progettato una quadrilogia di romanzi al riguardo, dove la Sardegna rappresenta l’ovvio sfondo dell’affresco umano che voglio realizzare – sebbene l’opera alla quale stia lavorando dal 2016 sia un romanzo di tutt’altro tipo (e di difficile inquadramento come genere, ma sicuramente di narrativa).

    Leggendo quest’articolo stimolante, mi sono chiesto anch’io quanto incida nella mia narrativa il fatto di vivere in una città «di transito»: la brama di vivere per sempre in Sardegna aumenta sempre più, mi spinge a lavorare sempre più ore (a costo di perdere sonno e sacrificare un po’ la famiglia), mi sprona a finire il mio primo romanzo e a fare ricerche per i prossimi (lavoro a più idee contemporaneamente, di solito: ogni giorno, in base a riflessioni, considerazioni o grazie a ispirazioni, aggiungo tasselli alla struttura di un romanzo, oppure annoto un’idea di uno nuovo, o perfeziono quella di un altro, e così via).

    È ironico, a mio avviso, che la mia esperienza di vita più lunga (a Parma), nella quale non mi sono mai sentito «a casa mia», mi abbia ispirato soltanto un romanzo: forse proprio la mia natura di eradicato mi ha spinto a scrivere come prima opera una storia in un mondo futuro, inventato, decisamente migliore di quello in cui ho vissuto; di certo, quella terra ancora lontana, che io chiamo patria, la Sardegna, mi ispira molto di più.

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lisa ginzburg
lisa ginzburg
Lisa Ginzburg ha scritto i romanzi Desiderava la bufera (Feltrinelli 2002), Per amore (Marsilio 2016, Au pays qui te ressemble, Verdier 2019), Cara pace (Ponte alle Grazie 2020, candidato al Premio Strega), le raccolte di racconti Colpi d'ala (Feltrinelli 2006, Premio Teramo 2007) e Spietati i mansueti (Gaffi 2016, Premio Renato Fucini 2017), i mémoir Malìa Bahia (Laterza 2007), Buongiorno mezzanotte, torno a casa (Italo Svevo 2017) e Pura invenzione. Dodici variazioni su Frankenstein di Mary Shelley (Marsilio 2018). Collabora con Avvenire.
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