Tu: la letteratura che nasce dalle prigioni kurde

Giuseppe Acconcia

I lunghi anni di detenzione di Salahettin Demirtas e Figen Yuksekdag, co-leader del partito democratico dei Popoli (Hdp), ci ricordano che il popolo kurdo, in Siria, Turchia e Iraq, è abituato alla quotidianità del carcere. L’esempio più eclatante viene da Abdullah Ocalan, leader del partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), costretto all’isolamento nel carcere di Imrali. Eppure il merito di Mehmed Uzun, come di altri grandi poeti kurdi e non solo, pensiamo a “Il luogo stretto” del siriano Faraj Bayrakdar, è di trasformare in “Tu” (a cura di Francesco Marilungo, Ismeo, 2019, 214 pp, 20 euro) la cella in un luogo dove scrivere. Il suo merito è addirittura doppio perché l’autore crea così, nel 1984, la letteratura kurda contemporanea in kurmanji, fino a quel momento relegata alle diaspore e alla sola oralità.

L’autore trova l’espediente letterario dell’insetto umanizzato, rispetto alla demonizzazione del carceriere turco, per iniziare il suo racconto di prigionia. Come spiega Francesco Marilungo nell’introduzione, mentre Uzun cresceva libri e riviste in kurdo non esistevano o erano proibiti, e così lo scrittore ha dovuto “creare ex novo una tradizione letteraria moderna”. Uzun ha imparato a leggere e scrivere in kurdo quando si sono aperte per lui le porte del carcere nel 1971, insieme ad altri intellettuali kurdi in prigione, come Musa Anter. L’autore, tra i fondatori della rivista, Rizgari (Liberazione), verrà arrestato di nuovo nel 1976, e al suo rilascio decide di abbandonare il paese e trasferirsi in Svezia, dove resterà fino al 2007 prima di morire dopo il suo rientro a Diyarbakir, nel Kurdistan turco.

E così negli anni Ottanta e Novanta è la Svezia la vera patria della letteratura kurda, da lì nasceranno i maestri che ispireranno di più i giovani scrittori kurdi. In Svezia la diaspora kurda ha ricostruito la sua memoria e Uzun, tradotto in turco, ha potuto far emergere un’impronta multiculturalista inclusiva di enorme rilievo. In altre parole Uzun ha avuto il merito di fronteggiare la sistematica cancellazione dell’identità kurda perpetrata dallo Stato turco. Il compito dello scrittore è stato di salvare la tradizione orale dall’oblio attraverso la scrittura.

Uzun lo ha fatto seguendo tre strade. La prima, come dicevamo, è il racconto della prigionia. Il carcere è il luogo della tortura, da dove nasce il mito della vittimizzazione del popolo kurdo. In prigione è nato anche il Pkk. In altre parole la repressione turca ha fatto germogliare la resistenza letteraria e politica kurda più di ogni altra cosa. La prigione è un luogo di educazione mentre lo spazio esterno diventa la vera prigione. L’altro elemento cardine è la natura da cui partono i racconti di infanzia dell’autore. Il popolo kurdo ha un legame speciale con le montagne, pensiamo ai combattenti a Qandil per esempio. La natura è l’ultimo rifugio: il luogo in cui nessuno, neppure il più atroce degli attacchi, potrà mai davvero scovare la resistenza. E poi c’è Diyarbakir, che con Kobane e Sanandaj, è il cuore del Kurdistan, la città da cui, come per Parigi la letteratura francese, parte la letteratura in kurdo. Diyarbakir inizialmente è raccontata come una città occupata, colonizzata dal nemico, ma poi, nei testi successivi di Uzun, diventerà una città multiculturale, mantenendo sempre le sue due anime, quella dell’oppressione turca e quella dell’identità kurda.

Tu è un romanzo storico che incarna tutti gli elementi del nazionalismo kurdo a partire dalla condivisione con i “compagni” di una condizione di repressione che coinvolge un intero popolo. Il testo racchiude poi una prima descrizione rivoluzionaria del ruolo femminile nella difesa della causa kurda. Le donne sono già la “difesa da ogni decadimento”, come sarà poi chiaro dalla partecipazione diretta nella guerra civile siriana delle combattenti kurde impegnate nelle Unità di protezione femminili (Ypj). I racconti di Uzun continuano a mantenere un piede nella tradizione, come ricordano le hadith pronunciate in gioventù, insieme ai libri di Cechov. Il testo fornisce così una narrativa straordinaria degli eventi che hanno attraversato il Kurdistan turco con gli occhi dei kurdi. Incredibili sono le descrizioni minuziose del momento dell’arresto e delle torture subite in cella. Eppure la violenza del carcere si innesta sempre in racconti fantastici di infanzia che ridanno vita anche agli spiriti (jin) della tradizione orale, fino all’invocazione della salvezza che viene dall’eroe, come Meme Alan.

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giuseppe acconcia
giuseppe acconcia
Giuseppe Acconcia è giornalista professionista e docente di Geopolitica del Medio Oriente all'Università di Padova. Dottore di ricerca in Scienze Politiche all'Università di Londra, è stato Visiting Scholar all'Università della California (UCLA – Centro Studi per il Vicino Oriente), docente all'Università Bocconi e all'Università Cattolica di Milano (Aseri). Si occupa di movimenti sociali e giovanili, Studi iraniani e curdi, Stato e trasformazione in Medio Oriente. Si è laureato alla School of Oriental and African Studies di Londra, è stato corrispondente dal Medio Oriente per testate italiane, inglesi ed egiziane (Il Manifesto, The Independent, Al-Ahram), vincitore del premio Giornalisti del Mediterraneo (2013), autore del documentario radiofonico per Radio 3 Rai “Il Cairo dalle strade della rivoluzione”. Intervistato dai principali media mainstream internazionali (New York Times, al-Jazeera, Rai), è autore de Migrazioni nel Mediterraneo (FrancoAngeli, 2019), The Great Iran (Padova University Press, 2018), Liberi tutti (Oedipus, 2015), Egitto. Democrazia militare (Exorma, 2014) e La primavera egiziana (Infinito, 2012). Ha pubblicato tra gli altri per International Sociology, Global Environmental Politics, MERIP, Zapruder, Il Mulino, Chicago University Press, Le Monde diplomatique, Social Movement Studies, Carnegie Endowment for International Peace, Policy Press, Edward Elgar, Limes e Palgrave.
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