Vittoriano Masciullo: Dicembre dall’alto o del desiderio del crollo

di Luciano Mazziotta

È dicembre, forse, il mese più crudele dell’anno, non Aprile, se è vero che Petrarca colloca la morte della sua Laura il giorno di natale, ed è sempre il 25 dicembre, il giorno in cui uno degli eroi fondatori della modernità, Werther, decide di spararsi con la rivoltella presa in prestito dalla mano della sua Lotte. Si aggiunga che, se hanno ragione le statistiche, il periodo natalizio è quello in cui si conta il maggior numero di suicidi. Dicembre, dunque, che per il giovane Werther è stato un mese vissuto (o morto) in pieno, quello che ha avvolto e soffocato il protagonista nella sua miseria di lutto e declino, in Dicembre dall’alto di Vittoriano Masciullo è il mese in cui il bilancio, la retorica della fine è contemplata dall’alto, a distanza, ma non senza coinvolgimento emotivo. “Tutto è presente, è qui”, chiosa non a torto Cecilia Bello Minciacchi nella postfazione.
Strutturato in tre sezioni – Inaspettata, Ueno, Nessuno spiega Chirone, già dal titolo della prima il libro ci mette in guardia su ciò che vi troveremo all’interno. Si tratta di un continuo movimento di inatteso e sorpresa, come quell’atteggiamento speculativo di chi, guardando dall’alto, in realtà non fa che aspettare il crollo. Ma come scrive Winnicot, nel momento in cui nel soggetto si verifica la paura del crollo, il crollo è già avvenuto. E qui, in Dicembre dall’alto, l’altezza sembra desiderio di caduta a capofitto nei luoghi amati e nella storia, forse per scomparire.
L’inaspettato è, insomma, inscritto nella dialettica tra desiderio e paura di caduta, come, del resto, reso in modo magistrale nella versificazione. Si possono leggere, infatti, versi singhiozzanti, troncati, dove le ellissi assumono una molteplicità di significati, non ultimo quello di rappresentare sintatticamente il salto dal pieno al vuoto. Ogni verso è una conquista, ma anche un ulteriore tentativo di suicidio o di morte che non si realizza mai completamente, come la parabola degli eroi senecani.
Però si nasconde dell’altro dietro queste cadute: talvolta il procedere dei versi, la sottrazione delle parole, la sospensione subito dopo le preposizioni, sembrano non tanto “togliere”, quanto riprodurre poeticamente il fatto che, nel percorso a ritroso della propria memoria, alcune parole siano andate perse o, più precisamente, non si vogliano pronunciare. E non si vogliono dire sia per evitare semplificazioni del verso (in almeno un caso l’autore ci fa immaginare soltanto la rima, senza dichiararla), sia perché “rimosse” e “dolorose”, come quei non detti nel corso di una seduta analitica.
E di percorso analitico, di tanto in tanto, possiamo parlare per Dicembre dall’alto, specie quando nella silloge sembra che qualcuno dia del lei al soggetto: cosa inusuale per un libro di poesia, serio ma non serioso, tragico, e molto più tipico di diverse forme apparentemente autoironiche come quelle di Giovanni Giudici. Qui il lei sembra proprio quello pronunciato da un analista al paziente, mentre, per esempio, lo spinge a riconoscere che tutti i morti sognati non sono nient’altro che le varie frammentazioni dell’io disperse nell’universo («ma non è lei che piangeva/non è lei che muore dice/ma tutti suoi sé/che l’aspettano nell’universo»).
Tra analisi e racconto, così, tra analisi della realtà e racconto di sé, si susseguono le pagine, come in un “diario di guerra”, della guerra storica e privata che l’autore cerca invano di possedere.
La diaristica, tuttavia, è cosa ben differente da un libro di poesie: altrimenti a che sarebbe servito pubblicare la silloge, se fosse stata soltanto un diario privato?
Masciullo si pone continuamente il dubbio dell’utilità della scrittura, di tutto ciò che esiste e consiste, della analisi stessa che porta avanti, mettendo in crisi o abbassando sia la sua voce autoriale, sia la veridicità stessa della ricostruzione. «A che serve?», «Altrimenti a che serve?», «Salva, salva, altrimenti a che serve», ripete spesso il poeta come una sorta di refrain in testi dispiegati omogeneamente in tutte le tre sezioni della silloge.
Seppure apparentemente il discorso possa sembrare sfumato nell’ideale e nell’irreale, è bene specificare che in questa raccolta esistono continui appigli alla realtà circostante; e il non detto, sebbene resti non detto, viene comunque temporalmente e spazialmente collocato. Una conferma è offerta dal continuo rimando alla toponomastica, a vie e quartieri vicini e lontani. Se poche città vengono citate esplicitamente, il libro è tuttavia cosparso di nomi ben definiti, di date, di riferimenti a mesi precisi, oltre a dicembre, che ne collocano chiaramente il lasso temporale e il rapporto tra soggetto e storia.
Il movimento, così, è quello di una “visione” che da distante si fa sempre più vicina: dalla visione allegorica di un quartiere lontano, alle vie della città in cui l’autore vive, Bologna.
Se, del resto, la seconda sezione prende il nome da un quartiere di Tokyo, Ueno, il libro è ricco di nomi di vie riconoscibili a chiunque viva o attraversi Bologna anche per una sola volta: in sequenza troviamo via Rialto, via san Vitale, via san Michele, via Barontini, piazza Aldrovandi. Un esempio tra tutti valga il verso in cui incontriamo l’io lirico piangere da «via rialto sino alla fine della fine», un procedimento versuale che da una parte colloca precisamente l’autore in uno spazio ben determinato e dall’altro, invece, lo sfuma fino a disperdere ogni tipo di coordinata, in una schizofrenia che non lascia scampo alla risoluzione dei conflitti (storici e individuali). Ma le vie non sono vie il cui significato è soltanto privato, ovvero: non si tratta di vie in cui possiamo tracciare soltanto i confini dell’esperienza dell’io-lirico. Da una parte, infatti, c’è Ueno, la sezione in cui il quartiere giapponese è osservato dall’alto e in cui sembra non si atterri mai, dove si passa senza “disfare le valigie” e non si scatta nemmeno una foto, come se non si potesse né si dovesse fermare l’immagine nella memoria. Dall’altra parte, però, quando ci si avvicina ai luoghi familiari, nell’esperienza immanente e non passeggera, subentra con forza e distruzione anche la storia della Bologna che ha visto sia il tracollo delle esperienze degli anni Settanta, sia il barbaro omicidio di Aldrovandi.
Dopo il viaggio in aereo sulle luci del quartiere di Tokyo, ci immettiamo subito nel ritorno dettato dall’ultima sezione, Nessuno spiega Chirone, lungo la quale il conflitto è portato all’ennesima potenza, quando tutte le certezze e i dati sembrano esplodere. Chiamarlo “ritorno”, tuttavia, sarebbe consolatorio. Il termine ha necessità di essere più marcato: chiamiamo ritorno qualcosa che ricompone, che ricongiunge, nel bene e nel male. A ogni modo, si tratterebbe di un percorso a ritroso che implica un livello di maturazione e consapevolezza. Al contrario Masciullo non vuole suggerire né maturazione né consapevolezza. Questo suo libro non è un romanzo di formazione in versi al termine del quale si giunge a un qualche barlume di verità. Qui, per indicare il senso del viaggio, ci viene in soccorso il poeta stesso, suggerendo la parola adatta: ritirata.
È una ritirata quella tematizzata in Nessuno spiega Chirone, termine posto a suggerire non solo che il viaggio non è servito a niente, ma persino che il tentativo di presa di coscienza di sé non è andato a buon fine. Così come non sono andati a buon fine i tentativi di spiegare e razionalizzare la storia degli ultimi quarant’anni da Aldrovandi a Cucchi.
In questa epica al contrario, in questo semi nostos, l’autore teme soltanto i lapsus, le cadute, anche se talvolta pare che la memoria storica possa essere un piccolo conforto persino per la sfera personale. Se niente è servito a niente, almeno ci resta la possibilità di ricordare, «altrimenti a che serve aver scritto prima di». Ma il buio cosmico è sempre vicino, sempre a un passo, perché «morire […] è quando gli occhi diventano palpebre/e niente» e, nonostante tutti gli sforzi, conclude lapidariamente l’autore: «nessuno//rimane//comunque».

 

 

da Vittoriano Masciullo, Dicembre dall’alto, (L’Arcolaio 2018)

 

 

*
e continua ricordi
se riesce quel ragazzo sul lago
qualcosa mi dice era già precipitato
prima cosa se riesce e dice guardi
stia attento un filo porta da questa seconda
lettera spuria dell’alfabeto ai capricci di bregenz
e poi verso zurich e munich e
ai malori di lexington di al hoceima
e poi dove ha
nascosto il primo momento
l’attimo in cui implode madre
siderale per cui ha pianto da
via rialto sino alla fine della fine
ma non è lei che piangeva
non è lei che muore dice
ma tutti i suoi sé
che l’aspettano nell’universo

 

 

 

*
ultima preghiera nel tempio di asakusa
so per chi cosa devi
piove rientri così scrivi
ma col tempo sai anche
questi senza fine giorni
irripetibili più feroci delle spine
infragiliti dalla tosse
col tempo sai la morsa del palmo
in silenzio formicolio che non si
più al buio di quella
delle analisi del sangue o
linfa da parte terrei ti servisse
ma cresciuta non più libera
dalla luce suicida
col tempo sai
(vicino i fiori galleggiano
presto verso il bianco
che qui è l’addio)

 

 

 

*
spegni la luce tutto trova la sua lingua
anche al buio parla trova tempo
cambia il tempo delle
cose cambia infinite cose
imparare la pace dai senza pace
tornare dai viaggi dai libri
bisogna imparare altrimenti
dalle macerie di piazza dal
perdere la guerra vincendo la ritirata
anni e che parola ora dopo venti
(venti come niente) asettici
nel bere nel celare
opportune distanze ma
ricorda la sopravvivenza dei cani
il pericolo dall’alto (erano le parole di
francesca woodman o i superotto in sala
da pranzo le capriole sul prato
dicembre dall’alto) ricorda o
cosa infinisce ricordate come io
ricordo nel rizoma delle nostre
o cosa è memoria
ovunque siate

 

 

 

*
l’elioterapia degli occhi azzurrissimi
selce nel cambia la lingua al buio
delle cose finite cambia le
cose infinite senza pace
imparando a tornare
da e col tempo i suoi occhi
malatissimi nel dirmi io qui senza te penso
(e ci voleva molto a scrivermi
cose così per forza l’esperienza della
malattia in età adulta) ma elena
stanca che per tutti è penelope e tacita non
ma soprattutto queste parole adesso
foglie innervate dal sapore nostro
vedi la bicicletta il giardino davanti casa
la salvezza a portata il non odore
insegui non interrompere
ora nessun infarto il
nebivololo ogni mattina
aspettala rispettala
chiamala con le parole migliori
nella sola lingua rimasta (la prima lingua
madre) perdici la vita
nei suoi azzurrissimi
e niente.
*

Nell’immagine: Blatt Grün, di Miriam Hüning

 

 

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