Amore e repressione

Hong Kong 18 novembre 2019 ore 23:12

di Alessandro Malaterra  1

Hong Kong, 28 Luglio 2019
In memoriam Liu Xiaobo

Zhao ed io siamo scappati dai lacrimogeni tirati su Des Voeux Road. Era la prima volta per entrambi. Un manifestante mi ha visto mentre mi sciacquavo gli occhi in un bagno pubblico e mi ha dato del tè freddo. Usa questo, mi ha detto. E’ meglio dell’acqua. Aveva ragione. Mi ha lasciato la bottiglia ed è andato ad affrontare la polizia. Avrà pensato che sono un pivello. Prima correvamo con gli altri, ora la situazione è più tranquilla e stiamo camminando. I poliziotti avanzano poco a poco, a strappi. Tirano i lacrimogeni per disperdere i manifestanti, poi caricano. Picchiano e arrestano quelli che resistono. I manifestanti si muovono in tutte le direzioni: alcuni vanno ad affrontare i poliziotti, o portano ombrelli, caschi, bevande, materiali per il primo soccorso; altri si ritirano, come Zhao ed io, verso il centro di Hong Kong.
Come stai, chiedo a Zhao. Sta bene. Solo arrabbiata.
Andiamo a Chater Garden, dico. Lì la manifestazione è autorizzata e forse ci lasceranno in pace.
Zhao è d’accordo. L’ho dovuta portare via dalle barricate quasi a forza. D’altronde, questa è la sua battaglia molto più della mia.

Un manifesto appeso durante la marcia del 29 settembre per protestare contro la graduale assimilazione di Hong Kong al sistema del resto della Cina

Il ragazzo era in una strada della sterminata periferia di Pechino, indistinguibile da migliaia di altre. La contornano palazzoni lunghi e stretti, di cemento scolorito, anche questi tutti uguali per un occhio distratto. Il ragazzo camminava svelto e contava a ogni palazzo che si lasciava alle spalle da quando aveva imboccato la via, cinque, sei, sette… Arrivato al nono si fermò e si mise a guardare. Non si era mai spinto fino a lì, così lontano dal campus dell’Università di Pechino, e la vista di quell’edificio anonimo e sgradevole, insieme a tutti gli avvenimenti degli ultimi giorni, gli lasciò un senso di angoscia. Un vecchio usciva in quel momento dal portone. Il ragazzo ebbe un ultimo istante di indecisione, dovuto più al pudore che alla mancanza di coraggio, poi si affrettò a reggere la porta, per evitare che si chiudesse dietro le spalle del vecchio, ed entrò.
Già conosceva il piano, così prese a salire le scale senza nemmeno guardarsi intorno. Gli ascensori bastavano a terrorizzarlo, claustrofobico com’era; si chiese quanto avrebbe resistito nel vivere l’incubo di una piccola cella. Ricominciò a contare: uno, due… Era stato un altro studente dell’Università di Pechino a sussurrargli l’indirizzo. Gliene era grato: nel clima di quei giorni persino un’informazione innocente come quella poteva costare caro. Una traccia esile come il fumo di una sigaretta, ma era la sua unica speranza di capire. Tre, quattro, cinque… Una delle tante domande a cui cercava una risposta, ammesso che ci fosse, era perché non l’avessero ancora preso. Aveva marciato con gli altri nel campus, era andato con loro a lavorare nelle fabbriche, in supporto di quegli operai diffidenti e gelosi, aveva provato senza troppa convinzione a parlargli di Marx, quello vero oltre le balle che gli avevano propinato a scuola, quello che il Partito aveva tradito. Sei, Sette…
Il fato aveva stabilito che si trovasse a Vancouver quando erano entrati nell’università a prenderli tutti. Era stata la sua salvezza, ma anche la sua ignominia, non essere lì: lì a lottare a fianco dei suoi compagni, a lottare per lei… otto, sbuffò ormai senza fiato, ma non si fermò. Aveva letto la notizia sul New York Times, di nascosto per non farsi vedere dagli altri studenti che erano stati invitati come lui a Vancouver per quella conferenza inutile. Non si era permesso di sperare allora, non se lo doveva permettere adesso – la sola cosa che voleva era capire.
Quando era tornato al campus e non aveva trovato nessuno dei suoi si era sentito il cuore in gola. Malgrado si fosse ripromesso di non sperare, per un attimo aveva sperato. Come un bicchiere di cristallo schiacciato da un carro armato, quella speranza diafana era andata in frantumi alla vista delle stanze vuote che avevano ospitato i suoi amici. Non aveva osato chiedere, del resto nessuno avrebbe parlato. Solo nella sua stanza, evitato da tutti i conoscenti alla stregua di un appestato, si era abbandonato finalmente al pianto.
Nove, dieci, undici… Ma perché non l’avevano ancora preso? Forse era per la risonanza internazionale che aveva avuto l’arresto illegale degli altri studenti marxisti che avevano osato schierarsi con gli operai. O forse nessuno dei suoi compagni arrestati e – qui sentì un nodo alla bocca dello stomaco – torturati aveva fatto il suo nome. Ma nemmeno il loro eroismo avrebbe potuto salvarlo: in ogni caso, la polizia doveva già aver ricostruito suoi rapporti con gli altri dalle comunicazioni elettroniche, dalle testimonianze dei sicofanti. Forse era per il premio che aveva ricevuto a Vancouver, per il potenziale interessamento dell’università canadese? Scosse la testa. Tutto quello non aveva più importanza, ora che anche lei era stata portata via. Dodici. Si fermò e riprese fiato. Come una madre che ha perso un figlio in un incidente aereo cerca un’ultima testimonianza, per quanto povera, nella scatola nera, così la sua unica speranza di afferrare qualche frammento rimasto di quelle vite forse già spezzate era dietro a quel portone.

 


Mi sistemo la maschera sul viso. E’ quasi sera, ma l’afa di luglio a Hong Kong non lascia scampo. Tengo la maschera solo sulla bocca, per poter respirare almeno con il naso. Porto la maschera non tanto per non farmi riconoscere ma per mostrare il mio supporto alla causa. Siamo quasi arrivati a Chater Garden. Da lì potremmo andare verso Soho e poi a casa mia. Invece continuiamo a camminare per Queen’s Road, tra le boutique di lusso.
Hanno lasciato i vestiti nelle vetrine, osserva Zhao. Io dico, fossero stati i gilet gialli a Parigi avrebbero spaccato tutto.
Siamo a Chater Garden. Quello che non capisco, dico a Zhao, è perché la comunità cinese all’estero non faccia sentire la sua voce.
Quelli che riescono a emigrare, dice lei, non si preoccupano più della Cina. Altri sono addirittura patriottici. Molti hanno parenti indietro in Cina, e il regime si vendicherebbe su di loro. Quindi stanno zitti.
Io dico, è questo quello che non capisco. Durante il fascismo italiano c’era una comunità di oppositori all’estero. Stampavano e distribuivano opuscoli, facilitavano la fuga dall’Italia dei perseguitati dal regime. Neanche per loro era facile. Alcuni hanno pagato con la vita. Il regime è riuscito ad assassinarli perfino all’estero, a Parigi.
Non è la stessa cosa, dice lei. Ha ragione. Sto applicando categorie italiane a un contesto alieno. Eppure scuoto la testa, non riesco a credere che quelle categorie non valgano ovunque.

Manifesto appeso durante la marcia del 29 settembre per chiedere libertà per Hong Kong, lo Xinjiang e la Cina intera

La porta era guardata da un cancello di metallo. Lo studente suonò il campanello e attese. La porta si aprì per pochi centimetri, e la vecchia lo guardò di sbieco da lì dietro, attraverso le inferriate.
Mi riconosci, disse il ragazzo. Più che una domanda era una constatazione. La vecchia non rispose.
Fammi entrare.
L’ultima volta che l’aveva vista, la vecchia davanti a lui era solo l’inserviente che faceva le pulizie nel suo dormitorio. Una lavoratrice oppressa come tante altre, era tutto ciò che aveva pensato di lei. Ora era lui a pregarla di salvarlo, per qualche istante, dall’oppressione. In silenzio, solo con gli occhi, la pregava. La vecchia aprì del tutto la porta e poi il cancello. Il ragazzo si precipitò dentro prima che potesse ripensarci e quasi la travolse. La vecchia si scansò e gli indicò un tavolo con un gesto brusco. Il ragazzo si tolse le scarpe e andò a sedersi, mentre la vecchia sparì in un’altra stanza. Il ragazzo sentì gridare al di là del muro, un’altra voce di vecchia. Parlavano un dialetto di campagna che lui non capiva. Il piccolo salotto era povero ma pulito, la piccola soddisfazione di una vita passata a nettare le case degli altri.

 


Un gruppo di ragazzi e ragazze vestiti di nero corrono in direzione degli scontri tenendo alte alcune bandiere americane.
Andiamo anche noi, dico a Zhao. Mi segue senza esitazione. Rifacciamo al contrario la strada che abbiamo fatto prima. Stavolta la polizia deve essere molto più vicina. Camminiamo insieme ai manifestanti vestiti di nero. Alcuni sono equipaggiati per gli scontri: portano caschi e maschere antigas, hanno avvolto le braccia in una pellicola trasparente per proteggersi dagli spray urticanti. Ci sono sia ragazzi che ragazze. Sembrano tutti molto giovani. I ragazzi sono alti e magri; le ragazze, magre anche loro, hanno l’aria di pesare meno di quaranta chili. Tra di loro c’è chi porta dei tubi di ferro. Ma la maggioranza, come noi, è lì senza equipaggiamento, per opporre alla polizia nient’altro che la resistenza pacifica dei loro corpi.
Davvero anche io sono lì per resistere? Non posso farmi arrestare, penso. Ho un lavoro da cui sarei licenziato; una posizione sociale da difendere. Ho troppo da perdere per lottare. Consiste forse in questo l’essere borghesi? Posso andarmene da Hong Kong quando voglio. Nell’Italia fascista, sarei stato dalla parte degli oppositori o degli ignavi?
Inalo il gas e mi metto a tossire, a lacrimare. Sento una botta di adrenalina, è il mio corpo che crede di soffocare. Scappiamo insieme per una via laterale, Zhao ed io. Rivolgo ai poliziotti delle ridicole parolacce in Italiano, anche se non mi possono sentire e non capirebbero, né gli importerebbe.
Zhao dice, non credevo fossero così vicini. Hanno sgombrato la strada in fretta.
Massaggio gli occhi con la mano. La via lungo cui siamo scappati sale verso Soho. Da lì possiamo raggiungere casa mia in pochi minuti.
Andiamo a casa, dico.
Camminiamo insieme, in silenzio. In un’osteria ci sono alcuni manifestanti vestiti di nero, fuggiti anche loro dagli scontri. Ragazzi del liceo o forse dell’università: malgrado tutto, scherzano tra loro.
Zhao parla della sua esperienza di cinese continentale immigrata a Hong Kong. Dice che tra i suoi compagni di università si va formando una frattura tra chi supporta le ragioni dei manifestanti e chi invece vuole restarne fuori, o addirittura è più o meno d’accordo con Pechino. Una sua amica è sull’orlo del divorzio, perché il marito le ha intimato di smetterla di schierarsi a favore dei manifestanti.
Dice, è difficile per noi. Gli abitanti di Hong Kong ci vedono come dei robot senza cervello. Pensano che il Partito Comunista abbia fatto a tutti il lavaggio del cervello. Sono apertamente razzisti.
Non credevo, dico io.
Zhao dice, sono stupidi. Non capiscono che dovremmo unirci. Che combattiamo la stessa battaglia contro lo stesso nemico. Solo se la Cina diventa più aperta, più democratica, Hong Kong potrà salvarsi.
Zhao inizia a piangere.
Dice, ma ormai non spero più che le cose migliorino. Il regime ha vinto.
L’abbraccio. Dice, non ho più speranza.
Siamo in una strada secondaria vicino a Hollywood Road. E’ tranquillo qui. Possiamo restare abbracciati alcuni minuti. Le asciugo le lacrime con la manica, le faccio bere un po’ d’acqua.
Ti amo, le dico.

Manifesto appeso durante la marcia del 29 settembre per chiedere libertà per Hong Kong e per tutta la Cina

La vecchia tornò con un bricco di tè e una tazza. Si sedette, riempì la tazza fino all’orlo e la spinse verso il ragazzo.
Grazie.
La vecchia non rispose. Sembrò volersi alzare di nuovo, poi ci ripensò e riprese a guardare lo studente di traverso. Lui non si scompose. Più per pudore che per sprezzo, andò dritto al punto.
Tu c’eri.
La vecchia rimase impassibile.
Tu c’eri quando li hanno presi. Tu c’eri.
Sì, c’ero, rispose, in un Mandarino con un pesante accento.
Come è successo?
La vecchia aprì la bocca come per rispondere, poi la richiuse e lo guardò dura, quasi la sua domanda l’avesse offesa.
Il ragazzo lasciò perdere. Non aveva più importanza oramai.
Chiese, quando infine trovò il coraggio: e lei?
La vecchia fece finta di non aver sentito. Il ragazzo ripeté la domanda, impaziente.
Hanno preso anche lei?
Chi?
Il ragazzo si alzò in piedi di scatto, facendo cadere la sedia dietro di lui. Sbatté forte un pugno sul tavolo e rovesciò il tè sul pavimento.
Sai benissimo chi! Gridò. La mia ragazza!
La vecchia prese a salmodiare maledizioni nel suo dialetto, in un tono a metà tra grida e litania. L’altra vecchia apparve da dietro la porta, attirata dal baccano, e si aggiunse a quella lagna. Si assomigliavano in ogni dettaglio, considerò il ragazzo; dai vestiti alla postura gobba ai tratti del viso. Un’altra inserviente, pensò.
Rispondi! Gridò di nuovo.
La vecchia continuò a maledirlo come se parlasse da sola, poi si fermò per un attimo. Disse solo una parola in Mandarino: sì. Poi ricominciò con la sua nenia. Senza dire altro, il ragazzo si diresse verso la porta, si rinfilò le scarpe e uscì. Dietro di lui sentiva l’ininterrotto borbottare delle due vecchie. Non avrebbe sopportato di restare in quella casa per un altro istante.

 


Un giorno, dico, il regime crollerà. Nessuno a Praga negli anni ’50 si sarebbe aspettato che quaranta anni dopo sarebbe caduto il muro. E a quel punto potremo chiedere conto ai servi del Partito Comunista di tutte le porcate che hanno fatto, da Tienanmen in poi. E chissà perché mi viene in mente di mettermi a recitare, in Italiano,

Loro puntarono qui i fucili carichi
e ordinarono l’aspro sterminio;
loro trovarono qui un popolo che cantava,
un popolo per dovere e per amore riunito,
e la bambina magra cadde con la sua bandiera,
e il giovane sorridente rotolò accanto a lei ferito,
e lo stupore del popolo vide cadere i morti
con furia e con dolore.
Allora, nel sito
dove caddero gli assassinati,
si abbassarono le bandiere per bagnarsi di sangue
e per alzarsi di nuovo di fronte agli assassini.
Per questi morti, i nostri morti,
chiedo castigo.

Eccetera eccetera. Traduco la poesia di Neruda in Inglese per Zhao. Le parlo dei regimi sudamericani, dei desaparecidos. Ancora una volta, mi rifugio nelle mie categorie.

Il ragazzo uscì. Avrebbe dovuto andare a sinistra per tornare alla metro. Invece decise di andare nella direzione opposta, per quella via che non conosceva, uguale a tante altre. La libertà di andare in una direzione piuttosto che un’altra era l’unica che gli restava, e ancora per poco. Per gioco, per esercitare la mente nella libertà di una fantasticheria infantile, si mise di nuovo a contare i palazzi, uno, due… Forse, pensò, avrebbe potuto prendere il treno e nascondersi in campagna dai nonni, a seicento chilometri da Pechino; ma sapeva che era anche quello un gioco, una fantasia. Sei, sette… Era arrivato a undici quando si rese conto di essere seguito. Non si stupì, ma ebbe paura.

Camminiamo lungo Hollywood Road e siamo quasi a casa. Qui le facce iniziano a cambiare, si iniziano a vedere per lo più ragazzi occidentali. Alcuni escono dalla palestra dove vado anche io. Di manifestanti vestiti di nero se ne vedono pochi in giro, quasi nessuno si è spinto fino a qui su. Prendo il braccio a Zhao, andiamo lenti fianco a fianco. Da un locale esce una ragazza che mi sembra di conoscere, la guardo meglio: è lei. Distolgo lo sguardo ma è troppo tardi. Cazzo, mi ha visto. Mi impietrisco.

Sedici, diciassette… ancora contava i palazzi, ormai non riusciva più a smettere. Si guardò indietro: erano tre poliziotti, uno in borghese. Allungò il passo e quelli accelerarono a loro volta. Non ci sono dubbi, si disse, anche se aveva capito già da prima. Si mise a correre e i poliziotti lo inseguirono. Ventisette, ventotto. Vide una donna che entrava in un portone e corse dietro di lei. Afferrò la maniglia della porta prima che questa si chiudesse ed entrò. La donna lo guardò per un paio di secondi, senza che il suo viso formasse alcuna espressione, poi entrò nell’ascensore e chiuse la porta. Il ragazzo salì a piedi. Ora contava i gradini: non aveva avuto il tempo di vedere il palazzo da fuori, ma doveva essere come gli altri; alto trenta o quaranta piani. Non correva. Sapeva di non avere abbastanza fiato per correre fino in cima, e non sarebbe servito a niente comunque. Perse il conto dei gradini e abbandonò quello stupido gioco. Poi, si fermò. Trattenne il respiro, in ascolto. Sentiva il rimbombare di dei passi pesanti; dovevano calzare degli stivali. La situazione era allo stesso tempo paurosa e ridicola. Non sapendo che altro fare, riprese a salire.

Zhao mi guarda con aria interrogativa mentre resto lì impalato e l’altra ragazza, Jessica, mi viene incontro. Quasi corre, mi abbraccia e mi stampa un bacio al lato delle labbra, giusto perché faccio appena in tempo a scansare la testa. Prego che la mia faccia terrorizzata la porti a capire la situazione, che c’è lì Zhao, ma Jessica non sembra cogliere, forse fa apposta. Ma un bacio non me lo dai, dice. Poi mi chiede, ma allora per domenica è confermato. Balbetto qualcosa, ormai il danno è fatto. Zhao ha capito tutto, è senza parole, si incammina a grandi passi nella direzione che stavamo percorrendo prima. Provo a comportarmi come se tutto questo fosse naturale, dico a Jessica sì certo a bassa voce; Zhao è già ad alcuni metri di distanza, spero che non mi senta. Mi accomiato da Jessica e quasi corro dietro a Zhao. Lei si volta per un istante, mi vede arrivare, subito si rigira e riprende a camminare più velocemente di prima. L’affianco. Era un’amica le dico, una collega. Il passo veloce e la paura mi fanno venire il fiatone. Sbuffo. Con l’afa che c’è a Hong Kong sono sudato da fare schifo. Provo a prendere il braccio di Zhao come avevo fatto prima. Si libera con uno strattone, poi mi da una spinta con entrambe le mani e mi fa quasi perdere l’equilibrio. Vai via!, grida con quanta voce abbia in corpo, e poi corre via. Nella strada si sono girati tutti. Io resto lì, immobile, a guardarla andare via giù per Hollywood Road.

Le scale si arrestarono di fronte a una porta chiusa che doveva portare al terrazzo. Era l’ultimo piano. Provò ad aprire la porta, senza successo. Provò a forzarla con le mani, a spallate. Allora pestò a tutte le porte del piano, in successione. Solo da dietro una delle porte sentì dei rumori, ma nessuno rispose. Riprese fiato, il sudore che gli colava dai capelli fino al viso e gli bruciava gli occhi. Si calmò e si mise ad ascoltare. Il rumore dei passi era a malapena udibile, ma diventava pian piano più forte. I poliziotti non avevano fretta. Sapevano che non sarebbe andato da nessuna parte. A lui non restava che attenderli, senza più speranza.

 

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NOTE
  1. Nato a Roma nel 1992, dal 2017 vivo e lavoro a Hong Kong. Ho partecipato alle manifestazioni per la democrazia a Hong Kong, senza particolari affiliazioni, come milioni di altri cittadini e residenti. A fine aprile, pochi giorni prima che cominciassero le proteste a Hong Kong, è avvenuto un piccolo episodio di resistenza anche a Pechino, di cui si è parlato molto meno: sei studenti marxisti che avevano pianificato di passare il primo maggio a lavorare in fabbrica, in supporto degli operai di Pechino, sono stati fatti sparire.
    Ho provato a raccontare la mia esperienza in una delle manifestazioni a Hong Kong, e giustapporla con quella (che purtroppo possiamo solo immaginare) di uno degli studenti fatti sparire a Pechino.
    Mi firmo con uno pseudonimo, dato che manifestare a Hong Kong è ormai di fatto illegale e punibile con il carcere.

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