Le anime dei ragazzi a Napoli: un colloquio con Maurizio Braucci

di Mario Schiavone

Quanti grammi pesa il cuore di un ragazzo di vita a Napoli? La domanda, forse poco legittima, ma comunque necessaria, risuona nella mia mente da diverso tempo. Un interrogativo, questo, che mi ha tormentato a lungo, dopo l’uccisione del giovanissimo Davide Bifolco nel settembre 2014 al Rione Traiano a Napoli. E che torna, prepotente nella mia coscienza, dopo una nuova uccisione. Quella del giovane Ugo Russo, un ragazzo di appena 15 anni.
Fatto accaduto ancora una volta a Napoli, durante un tentativo di rapina nella notte tra il 29 Febbraio e l’uno Marzo scorso. Non lo so perché mi faccio, con ostinazione, certe domande. Però vorrei stimolare alcune riflessioni, formulate a partire dalla radice di un problema che ho a cuore. Del resto, a dirla tutta, io sono solo un commesso di libreria cresciuto al sud. Vivo in questa terra e qui si agita la mia memoria ogni volta che si parla di modelli familiari, agenzia d’aggregazione sociale, esempi di vita e altre faccende complesse di chi vive qui in questo sud ammalato e ammaliante.
Da campano e cittadino del sud non voglio stare zitto, né puntare il dito: se muoiono dei giovani che hanno desiderato di prendere in mano una pistola ( a volte un giocattolo camuffato da pistola) c’è poco da semplificare e ridurre ai minimi termini. Non posso schierarmi nella dicotomia “buoni contro cattivi” né guardare il cielo e imprecare contro l’avanzare del destino.
Con questa inchiesta a puntate, dopo aver intervistato diversi operatori sociali che vivono per lo più a contatto con giovani napoletani di ogni ceto, provenienza e fattezza, voglio cercare di comprendere meglio il mondo in cui vivo, i luoghi che frequento ogni giorno e che fanno da sfondo alla mia esistenza quotidiana. Perché sono tutti popolati da ragazzi che hanno una storia da cui provengono, un mondo in cui muoversi, un modo di fare e delle regole a cui rispondere. Forse, dopo tutte le domande che ho fatto a chi con i giovani a rischio lavora ogni giorno, mi metterò l’anima in pace. Per ora comincio da qui. Con Maurizio Braucci, napoletano doc. Scrittore, sceneggiatore ed educatore che opera nel sociale a diversi livelli di formazione. Ringrazio Maurizio per il tempo che mi ha dedicato. E ringrazio il fotografo di Succivo Salvatore Di Vilio, per le foto che ha prestato per questa mia piccola inchiesta.

Rispetto al tuo lavoro di scrittore e sceneggiatore, in qualità di operatore sociale, quanto riesci a impegnarti sul territorio napoletano oggi?

Ho scelto di restare a vivere a Napoli perché qui, oltre agli affetti e alla mia storia personale, trovo necessario dare una mano soprattutto per quanto riguarda la condizione giovanile (emblematica dell’intero Sud Italia) e per condurre le inchieste e i dibattiti per l’aumento della democrazia. Oltre quindi al mio lavoro nel cinema, che mi vede spesso a Roma, mando avanti delle esperienze socioculturali che riguardano gli adolescenti, come il progetto Arrevuoto di teatro e pedagogia con cui da 15 anni insegniamo la cultura della cooperazione e il teatro. Io provengo da esperienze di movimento, come il centro sociale Diego Armando Maradona, in cui fino al 2005 eravamo un collettivo impegnato nel quartiere e sulla città con iniziative sociali e culturali. Cerco di far tesoro delle esperienze politiche e sociali nella pratica della mia professione artistica e viceversa, è un connubio particolare ma appartiene a una tipologia che credo aumenterà sempre più tra quanti fanno cultura e portano con sé un bagaglio di esperienze nella vita sociale.

Esiste un legame tra le biografie vissute dai ragazzi a rischio che incontri e quelle che racconti nelle tue storie?

Certamente si riesce a scrivere meglio di ciò che si conosce bene e nel mio caso la città di Napoli mi ha spesso messo a confronto con storie e persone che hanno ispirato poi dei racconti. Il mio romanzo Il mare guasto e gli altri libri pubblicati certamente attingono da quelli, credo sia normale per chi scrive guardarsi intorno e io porto a volte anche nel cinema, se c’è l’occasione per farlo, queste esperienze. Film a cui ho collaborato,come Gomorra o L’intervallo, mi hanno forse dato occasione di sperimentare quanto la conoscenza della realtà renda più forte la costruzione di una sua rappresentazione. Se devi scrivere un dialogo o una scena riguardante quello che tu già conosci ecco che può venirne fuori una certa autenticità e senza documentazione. Insomma documentarsi o vivere possono darti la possibilità di raccontare meglio, dipende poi dalle tue capacità. Io però la penso un po’ come Oscar Wilde quando diceva che è la vita a copiare l’arte, nel senso che il rapporto tra significante e significato, tra reale e finzione, è una questione molto complessa.

Scrivere, pensare, mettersi in discussione: sono gesti dell’azione politica anche questi. Tu come riesci a farlo, senza diventare, in un territorio difficile come Napoli, cinico e pessimista?

Combatto il cinismo, che è una forma di autodifesa dal peso del mondo e riguardo al pessimismo credo che sia anche un modo per autoassolversi dal non agire. Credo sia una questione di animo e di forza, bisogna ascoltare l’animo e resistere alle prove e ai fallimenti. Non so dire in seguito come sarà ma per ora riesco a resistere, piuttosto mi pesa il fatto di non avere ascolto su certe tematiche che conosco, ad esempio quelle della condizione giovanile, perché spesso chi ha il potere di decidere sceglie le posizioni più convenienti o vicine al suo sentire. Chi ascolta quelli che raccontano? A chi parliamo quando portiamo fuori degli scenari poco noti? Non saprei più dirlo. Una volta credevo che se certe situazioni drammatiche si protraevano era per una inefficienza del sistema politico e sociale. Oggi, a volte, ho quasi il dubbio che invece siano volutamente prodotte o almeno mantenute. Marx scrisse che l’ignoranza non è mai servita a nessuno, io temo che invece l’ignoranza serva e purtroppo al sistema neoliberista, al Potere, così ottiene masse manipolabili e incapaci a ribellarsi.

Se si potessero raccontare storie a un ragazzo in difficoltà, pur di evitare che finisse per strada, che tipo di narrazioni sceglieresti per coinvolgerlo?

Ci provo sempre a farlo, la grande sfida della drammaturgia è di rendere il bene più appassionante del male. Si possono fare tante cose con dei ragazzi che vuoi motivare, tante, ma devono essere di qualità. Io lavoro nei progetti con i ragazzi con lo stesso impegno e la stessa volontà di ricerca che applico nella mia professione d’autore. Bisognerebbe stimolare l’immaginario, fargli rielaborare la percezione di sé e del mondo, ma allo stesso tempo potenziare certe attitudini e talenti individuati. Ad esempio, io tengo un corso di sceneggiatura nel carcere minorile di Airola, all’inizio ero scettico a farlo ma poi accettai, alla fine ho capito che insegnare le tecniche di scrittura era un modo per ragionare insieme e scoprire che i ragazzi in misura detentiva hanno una certa sensibilità per i dilemmi interiori dei personaggi. E’ chiaro, quella è la loro stessa condizione, tra colpa e desiderio di libertà, che li mette in grado di leggere meglio i conflitti interiori che servono tipicamente a uno sceneggiatore per costruire un personaggio. Da questa esperienza è nato quindi un progetto generale che in quel carcere lavora, tra cinema, teatro e musica, sulla ridiscussione dell’identità maschile come dimensione fatta anche di fragilità e di sensibilità. Ne sta venendo fuori un laboratorio in cui i partecipanti, realizzando dei cortometraggi o degli spettacoli, ridiscutono la figura virile, patriarcale e violenta che hanno adottato (che gli è stata inculcata) che è causa poi dei reati che li vede là dentro in reclusione.

Sempre a proposito del tuo impegno sul territorio, quali riscontri pensi trovino spazio nelle vite dei ragazzi che hai seguito?

In genere, quelli che all’inizio sono i più violenti e difficili tra i ragazzi, se riesci a lavorarci per un periodo giusto (tre anni ad esempio) diventano poi i tuoi migliori collaboratori. Spesso chi ha maggiore disagio ha anche grande sensibilità o intelligenza. Ho avuto da questo punto di vista buone soddisfazioni, ma non voglio cantare vittoria, le sfide continuano e poi le problematiche cambiano. Staremo a vedere alla fine e forse dovranno essere gli altri a giudicare, magari, come scriveva Walt Withman: chiedete ai miei nemici. E per farsi dei nemici basta dire quel che si pensa.

Print Friendly, PDF & Email

articoli correlati

Di quale “cancel culture” si parla in Italia?

di Bruno Montesano e Jacopo Pallagrosi
Negli Stati Uniti, a un anno da Capitol Hill, si continua a parlare di guerra civile. Questa è la dimensione materiale della cosiddetta...

L’orso di Calarsi

di Claudio Conti
«Da una parte l’Impero ottomano, dall’altra la Valacchia. In mezzo il Danubio, nero e immenso». Lara è sul fianco e ruota la testa all’indietro, verso Adrian. Rimane così per un po’, con la reminiscenza del suo profilo a sfumare sul cuscino.

Amicizia, ricerca, trauma: leggere Elena Ferrante nel contesto globale

L'opera dell'autrice che ha messo al centro l'amicizia femminile è stata anche veicolo di amicizia tra le studiose. Tiziana de Rogatis, Stiliana Milkova e Kathrin Wehling-Giorgi, le curatrici del volume speciale Elena Ferrante in A Global Context ...

Dentro o fuori

di Daniele Muriano
Un uomo faticava a sollevarsi dal letto. Un amico gli suggerì di dimenticarsi la stanza, la finestra, anche il letto – tutti gli oggetti che si trovavano lì intorno.

Un selvaggio che sa diventare uomo

di Domenico Talia Mico, Leo e Dominic Arcàdi, la storia di tre uomini. Tre vite difficili. Una vicenda che intreccia...

Soglie/ Le gemelle della Valle dei Molini

di Antonella Bragagna La più felice di tutte le vite è una solitudine affollata (Voltaire) Isabella Salerno è una mia vicina di...
helena janeczek
helena janeczek
Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: