L’esperienza (architettonica) sovietica: un passato da reinterpretare?

Intervista di Giuliano Vivaldi a Owen Hatherley

Owen Hatherley è autore di oltre dieci libri principalmente incentrati su architettura, urbanistica, politica e cultura. Ha esaminato l’architettura britannica degli ultimi anni in libri come A Guide to the New Ruins of Great Britain (2010), A New Kind of Bleak (2012) ma ha anche concentrato la sua attenzione sull’esperienza architettonica e urbanistica sovietica e post-sovietica, cui ha dedicato Landscapes of Communism (2015) e The Adventures of Owen Hatherley in the Post-Soviet Space (2018). Il suo Trans-Europe Express (Einaudi 2019) esplora varie città europee con un mix di diario di viaggio e indagine approfondita della città europea in confronto con la città britannica. Ha scritto per molte riviste e giornali su temi architettonici, culturali e politici ed è stato molto legato a intellettuali come Mark Fisher, Nina Power e altri che hanno collaborato con la casa editrice Zero Books e poi con Repeater Books. La nostra conversazione è stata principalmente un tentativo di discutere la storia sovietica, l’eredità sovietica e la realtà post-sovietica facendo riferimento ai suoi libri Landscapes of Communism e The Adventures of Owen Hatherley in the Post-Soviet Space.

 

Il tuo libro Landscapes of Communism rappresenta un efficace cambiamento rispetto alla solita maniera di rapportarsi all’esperienza sovietica da parte della sinistra britannica, e lo fa introducendo prima la storia dei tuoi nonni comunisti e immaginando come si sarebbero adattati alla realtà sovietica, guardando cioè l’esperienza vissuta dell’Unione Sovietica da un’altra prospettiva invece di analizzare se lo stato sovietico fosse uno “stato operaio degenerato” o una forma di “capitalismo di stato” ecc., com’era consueto nella sinistra inglese.

Non ho mai trovato queste etichette perspicaci. Non volevo fare il tipico gioco di un giornalista proveniente da una famiglia di tradizioni comuniste che denuncia i peccati dei suoi padri e nonni (un fenomeno abbastanza comune in Gran Bretagna, un esempio eclatante è David Aaronovitch): ciò significherebbe ignorare quello che il comunismo occidentale effettivamente è stato. In Gran Bretagna i comunisti avevano un rispetto religioso per la cultura. Lo scrittore Raphael Samuel descrive perfettamente questa comunità comunista britannica con le sue gite, l’alimentazione pesante, la passione per le cattedrali e il nord dell’Inghilterra, e la versione del socialismo alla William Morris. Volevano davvero rovesciare il capitalismo ed erano coscienti di far parte di un movimento globale. Certamente, il sistema che difendevano era molto diverso, così mi sono chiesto quali aspetti avrebbero approvato, e quali avrebbero considerato una aberrazione. Volevo prendere sul serio sia i loro sogni, sia, a confronto, la realtà che si stava producendo nel tentativo di costruire una società comunista. Non avevo alcuna intenzione di partecipare a quei dibattiti a sinistra che volevano dare una risposta alla domanda su come designare il sistema sovietico, dato che sono spesso dibattiti senza senso che cercano di costringere la realtà in definizioni troppo dogmatiche. Se era un capitalismo di stato, come si spiega il fatto che l’Unione Sovietica fosse a malapena inserita nel capitalismo mondiale fino agli anni ’70? A me interessa molto il libro di Lukasz Stanek che prende in seria considerazione l’idea di un sistema globale socialista alternativo dagli anni ’50 agli anni ’80: esso funzionava con il baratto, lo scambio delle materie prime, i doni, e seguendo questa logica di Stanek riesci a capire meglio come funzionava il sistema sovietico. Così, ho deciso di mettere assieme vari aspetti del comunismo sovietico e ricostruirne un modello, con l’esigenza di capire in che termini esso fosse differente dal capitalismo. In alcune cose era diverso, in altre no; per esempio, guardando il settore residenziale (housing sector) delle periferie di Parigi o di Vilnius negli anni ’60, si troverebbero realtà molto simili, mentre nel 1952 non era affatto così, anche se guardavi alle esperienze dei quartieri parigini amministrati dal partito comunista. Non ci deve stupire che le variazioni nel corso del periodo sovietico e le diversità geografiche fossero significative quasi quanto le diversità all’interno del sistema capitalista occidentale. Infatti la ‘storiografia borghese’ non si stupisce di fronte a questi fatti: se uno fosse andato in un dipartimento di slavistica e avesse definito la Polonia degli anni ’80 stalinista gli avrebbero riso in faccia, ma in qualsiasi incontro tra trotskisti nessuno batterebbe ciglio.

La distinzione fatta da Paperny fra Cultura I e Cultura II risulta un modello giusto per parlare di come si svilupparono le cose dagli anni ’20-’30 agli anni ’60?

Be’, la carriera di Paperny si condensa nello straordinario capovolgimento del discorso dominante nel suo primo libro, ma in seguito è riuscito ad aggiungere poco altro. Infatti, il suo libro non spiega quello che viene dopo. È un interessante esperimento mentale che fa un confronto fra il periodo 1917-1932 e il periodo 1932-1956 (e la sua teoria si potrebbe anche leggere alla rovescia nella storia russa), ma, mi domando, si tratta di Cultura I oppure di Cultura II dopo il ’56? Lui scriveva di una combinazione di Cultura I e Cultura II nell’epoca di Brèžnev, ma non puoi avere entrambe, sono totalmente in contraddizione l’una con l’altra. È una prospettiva erronea sull’architettura staliniana, quella di focalizzarsi totalmente su Mosca (ed anche fin ad un certo punto su Leningrado e Kiev). L’architettura staliniana in provincia era completamente riproducibile: è inesatto vedere ogni esempio di Cultura II come una nuova opera d’arte forgiata da un’immaginazione barocca. La teoria di Paperny è semplicemente un grandioso esperimento mentale: se prendi in considerazione architetti le cui carriere hanno attraversato diversi periodi della storia sovietica non ti verrebbe in mente che l’insieme delle loro opere sia stato progettato da uno stesso architetto. Gli architetti reagiscono a delle forze più ampie nel contesto culturale a cui sono costretti ad adattarsi. Non si tratta di un’epoca in cui gli architetti sono autonomi.

Si intravede la fine del Progetto sovietico dopo il ’68? Fino al ’68 tanti dissidenti sovietici guardavano ancora al 1917 come la loro ispirazione e a Praga esisteva lo slogan “Svegliati Lenin, Brèžnev è fuori di testa”, ma dopo Praga si capisce che le cose stanno cambiando.

Nel mio libro Landscapes of Communism scrivo di più a proposito del periodo stalinista che dura una ventina di anni nell’Unione Sovietica, ma solo otto anni nell’Europa dell’Est dove la situazione era molto più intensa perché lì si perseguitavano modernisti autentici, che fino allora progettavano dei meravigliosi edifici modernisti e poi hanno avuto ordine di fare dei Partenoni. Poi cerco di concentrarmi sugli anni dal 1966 al 1989-91 piuttosto che su quelli dal 1917 al 1932. La filosofa e scrittrice Keti Chukhrov si domanda perché i marxisti occidentali sono così fissati con gli anni della NEP in cui i rapporti capitalistici rimangono dominanti, mentre mostrano poco interesse per il periodo dal 1929 al 1991 quando, almeno in teoria, i rapporti capitalistici sono stati completamente aboliti. Certamente, il ’68 screditò il regime presso gli intellettuali. Era normale per un intellettuale polacco prendere il marxismo in seria considerazione ancora nel 1967. Per persone che vivevano fuori dall’URSS, il 1968 significava che non si poteva più immaginare che fosse possibile riformare il sistema, ma per la maggioranza che viveva all’interno del sistema valeva la convinzione che ‘questo è il meglio che ci si può aspettare’. Fuori dalla Polonia solo una minuscola minoranza si organizzò per opporsi. Nella Jugoslavia non c’è mai stata la normalizzazione e gli anni ’60 non sono stati la fine della sua storia. Anche nella Polonia le idee di Solidarnosc erano autenticamente anti-capitaliste, addirittura socialiste. Molte persone uscivano dal partito comunista per entrare in Solidarnosc, e altri ancora erano membri sia del partito comunista che di Solidarnosc. Ovviamente l’architettura è progettata dagli intellettuali ma è fatta dagli operai, ed essa è un modello interessante dato che effettivamente non esisteva un’architettura dissidente (tranne l’architettura su carta di Alexander Brodsky). L’architettura è sempre stata un’emanazione dello Stato, non segue la logica degli eventi del 1956, 1968, 1981, 1988 ecc. La Cecoslovacchia è un esempio perfetto: la sua architettura diventa molto strana nei primi anni ’60, e rimane tale (l’architettura post-68 è straordinaria e la repressione della primavera di Praga non cambia niente in questo). Gli architetti sono sempre vicini allo Stato; quella parte dell’intellighenzia non ha reagito alla caduta dell’Unione Sovietica nella stessa maniera di insegnanti, scrittori, filosofi e poeti. L’URSS era vista positivamente, e l’intellighenzia tecnica ancora credeva nel socialismo reale, nella rivoluzione scientifica e tecnologica, nell’esplorazione dello spazio, in una società più equa, mettendo anche un senso di nazionalismo nel mix. Il sistema che esisteva in realtà metteva insieme la costruzione di culture locali, la rivoluzione scientifica e tecnologica, la produzione di massa e le nazionalizzazioni della terra, e queste cose erano alla base di tutto. Puntare il dito, dicendo “ma a questo insieme di fenomeni si può applicare la legge del valore?”, non insegna niente su come questa società continuava a mantenersi in piedi. Per gli architetti il miglior periodo sono stati gli anni ’70 e ’80, perché avevano sempre più accesso a riviste occidentali e avevano carta bianca per i loro progetti, purché non lavorassero nel settore abitativo. Ricostruirono il paese su scala gigantesca. La maggior parte della gente nell’Unione Sovietica adesso vive negli alloggi costruiti in quell’epoca: mentre il sistema era in apparente declino, costruivano un continente.

Questo punto di vista sembra più vicino a quello di Yurchak.

Yurchak è più pertinente di Paperny. È stata un’epoca conformista e anche consumista –ovviamente dipende dal tipo di consumismo di cui parliamo. Se volevi calzemaglie, Tampax, o beni di consumo europei era un periodo terribile, ma se volevi una casa o una macchina era probabilmente meglio di qualsiasi periodo precedente, o anche successivo. Questa situazione si riflette in quelle commedie sovietiche degli anni ’70 dove la gente è annoiata ma mai povera (tipo le commedie di Eldar Ryazanov); l’angoscia arriva dopo. Non si tratta solo di censura ma di come la gente realmente viveva in quel periodo. Con l’arrivo della crisi petrolifera, la guerra in Afghanistan e le carenze intrinseche del sistema della pianificazione centrale, però la popolazione nuovamente faceva le file per il pane negli anni ’80. Si potrebbero delineare tre fasi del declino: una specie di periodo Kosygin dove c’è più repressione culturale rispetto al periodo di Krusciov, ma che comunque è caratterizzato da una qualche forma di avanzamento; poi c’è il periodo 1968-1982 dove non succede più nulla ma il tenore di vita migliora; e poi ci sono gli ultimi nove anni di collasso economico (Europa dell’Est, o Jugoslavia e Romania, nella loro totale diversità, hanno altre traiettorie). Nel mio libro Landscapes volevo costruire un modello e poi smontarlo pezzo per pezzo per vedere se rimanesse qualcosa.

Uno dei falsi artistici (hoaxes) più interessanti degli anni recenti è la storia della Comune Kollontai inventata dal collettivo ShTAB che, come descrivi in The Adventures of Owen Hatherley in Post-Soviet Space, molti desideravano fosse una cosa reale. Anche se leggendo il libro di Ilya Budraitskis Dissidenti Tra I Dissidenti si trovano degli esempi interessanti non molto diversi da questa storia…

Sì, c’erano queste esperienze. La Polonia, specialmente prima del ’68 abbondava di strani gruppi dissidenti communisti che comprendevano anche maoisti, così anche l’Ungheria. La storia della Comune Kollontai fu un tentativo di scrivere delle eredità del passato nel presente. È interessante come hanno assemblato testi immaginari con autentici disegni architettonici e immagini di Bishkek negli anni ’70 (quando era una città completamente modernista, in contrasto con altre capitali dell’Asia Centrale Sovietica con la loro ‘orientalizzazione fatta da sé’). Così ShTAB ha inventato una comune di sinistra immaginaria, ma ha preso in considerazione aspetti reali del Kyrgyzstan degli anni ’70, mettendo insieme tutto con una fusione di reale e immaginario. Un tentativo di prendere la storia sovietica facendone un passato utilizzabile. Michal Murawski ha detto una cosa molto importante quando, criticando Razem (il partito della nuova sinistra polacca): “perché non evidenziate il programma di edilizia popolare (housing programme), i limitati orari di lavoro, il Palazzo della Cultura e della Scienza, quando cercate di promuovere il socialismo in Polonia? La gente si ricorda ancora di questi vantaggi’’. Un argomento seduttivo: ShTAB vuole prendere frammenti della memoria viventi e farli diventare una parte del comunismo, ma sa anche che il comunismo era un’esperienza con immensi limiti, così sono stati costretti ad inventare qualcosa. Ovviamente quello che loro facevano non era storia, anche se era informato dalla realtà storica. Tornare al passato, e prendere in seria considerazione i suoi progressi è fantastico, ma si deve essere sinceri a proposito di quello che effettivamente esso era. L’URSS non era particolarmente progressista, ed è facile reagire in una maniera reazionaria, alla ‘Blue Labour’ (ala del partito laburista che vuole sposare la tesi di una politica nazionalista con rivendicazioni sociali circoscritte ad una classe operaia ‘tradizionale’, cioè bianca ed eterosessuale), dicendo che è stata una buona esperienza, che anche noi avremmo bisogno del socialismo in un paese solo, di creare nuove frontiere e alzare il ponte levatoio –  questa versione di socialismo mi è completamente aliena. Devi fare qualcos’altro col passato e dire che è stato positivo, ma che si potevano fare cose migliori. Per quanto contraddittorio possa sembrare, è così che vedo il contributo del falso artistico di ShTAB.

Cosa si può dire del passato sovietico nel periodo post-sovietico? È rimasto un qualche approccio di tipo sovietico allo spazio pubblico? Come giudichi, per esempio, l’approccio di Luzhkov e di Sobyanin a Mosca negli ultimi vent’anni?

Questo è un altro tema, riguarda le diverse scansioni temporali di architettura e altre forme artistiche. Francamente, da critico di architettura e da persona interessata alla pianificazione urbanistica (town planning), la Mosca di oggi mi pare chiaramente molto migliorata rispetto a cinque o dieci anni fa. Una cosa che noto nel mio libro The Adventures of Owen Hatherley in Post-Soviet Space è che quando la gente va a Kiev oppure Tbilisi dice “queste città hanno resistito alla terribile dittatura putiniana perché hanno le fabbriche di birra artigianale, le start-up, ed edifici all’europea progettati da architetti europei”. Ma se è quello che cerchi, guarda Mosca più che Tbilisi o Kiev, dove hanno un bilancio terribile. C’è più pianificazione europea a Mosca che in qualsiasi altra capitale post-sovietica fuori dai baltici. Quando dicono che il miglior modo di fare le cose è seguire l’esempio europeo, c’è in voga un mito dagli anni ’80 secondo cui tutto quello che è stato fatto in Europa è stato fatto con la mano invisibile del mercato. Ma la Parigi moderna è nata con Napoleone III che apriva boulevard spianando ogni cosa, facendo immensi affari con la corruzione, lui era un pianificatore armato dalla capacità di distruggere quello che voleva. Quel modello non funziona in città come Kiev o Tbilisi perché il loro capitalismo è estremamente caotico e laissez-faire (con mille interessi in competizione e uno stato enormemente indebolito), lì c’è un elemento di sregolatezza nel sistema pianificatorio. Se tu volessi che la tua città assomigliasse a Parigi o Berlino, faresti come ha fatto Mosca: procederesti con questi progetti alla Strelka sponsorizzati dallo Stato ed esproprieresti decine di migliaia di piccoli imprenditori, e creeresti così questa città fatta di bistrò, eliminando il capitalismo sregolato e informale degli anni ’90. Hanno eliminato tutto questo per creare una specie di combinazione della Mosca stalinista e della Berlino contemporanea. Se il tuo occhio è abituato a Parigi o Berlino, Mosca adesso appare più simile a esse che dieci, dodici anni fa. È interessante dal punto di vista della pianificazione e dell’architettura. Per citare Anna Shevchenko “questa è una buona cosa, ma loro rimangono dei bastardi”, che è un giudizio più ragionato che dire “non è una buona cosa perché è un tentativo di fermare le proteste della generazione Bolotnaya dandogli gelati e piazze pubbliche”. Questo è un esempio classico di come cercare di fare del centro storico, delle periferie e delle vecchie zone industriali aree più piacevoli per accumulare il capitale in un modo più efficace. La gente adopererà il trasporto pubblico, camminerà e vivrà in un settore abitativo ad alta-densità nelle città pubbliche. Il modello New York è stato importato non perché a Mosca ci sia della gente perbene che gestisce le cose, ma perché loro pensano che questo sia il futuro ed è semplicemente meglio in termini di pianificazione urbanistica e sostenibilità. Non possiamo avere illusioni riguardo agli interessi in nome dei quali si opera, ma poi non dobbiamo sempre criticare i cambiamenti dicendo che questo è stato fatto per avvantaggiare lo Stato. C’è anche qualcos’altro da dire. L’architettura e la pianificazione sono per necessità a più alta intensità di capitale e più strettamente legate allo Stato e al mondo degli affari, ma il fatto che ogni comunista sentimentale ami camminare per i boulevard del barone Haussmann ci dice che questi progetti hanno pure una seconda vita.

Per finire, volevo chiedere come è stata esplorata di recente l’architettura sovietica nella fotografia, nella storiografia…

Un effetto positivo del recente interesse è che, sebbene siano stati pubblicati tanti libri da tavolino un po’ dappertutto (stupidaggini tipo ‘maestose rovine sovietiche’), nelle librerie specializzate sull’architettura si trovano lavori molto interessanti. Una generazione più giovane di storici di quei paesi adesso possono far pubblicare le loro indagini perché è di moda. Ma, a dire il vero, trovo questo feticismo delle rovine particolarmente irritante. Vai in questi posti, a trovare queste ‘rovine di una civiltà morta’ e ci trovi un Kentucky Fried Chicken, così in effetti ti trovi in un posto che è effettivamente abitato e ampiamente utilizzato. Quindi, camminare indicando ‘queste rovine di una civiltà morta’ è offensivo. Ho intervistato la storica dell’architettura ucraina Ievgenia Gubkina recentemente. Accompagnava un gruppo di colleghi alla fabbrica dei trattori Sotsgorod a Kharkiv e qualcuno ha gridato dal balcone: ‘Questo non è uno zoo’. Questo è un grande rischio professionale quando ti occupi di storia dell’architettura del ventesimo secolo: e molti di questi libri non cercano di far realmente storia, ma hanno un atteggiamento molto esotizzante e coloniale.

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Vivo a Parigi e insegno all’Université Paris Nanterre. Ho pubblicato, anni fa, testi teatrali, racconti, romanzi (l’ultimo: I veri delinquenti, Fazi, 2005). Ho tradotto dal francese saggi e romanzi. In ambito accademico mi occupo di avanguardie/neoavanguardie, letteratura italiana ipercontemporanea, studi femminili e di genere, studi postcoloniali e della migrazione (ultima monografia: Scrivere al tempo della globalizzazione. Narrativa italiana dei primi anni Duemila, Cesati, 2019). Dirigo la rivista Narrativa (http://presses.parisnanterre.fr/?page_id=1301). Leggo i testi che ricevo via Nazione Indiana; se mi piacciono e intendo pubblicarli contatto l’autore, altrimenti no. Non me ne vogliate.
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