Milano sotto controllo. Riflessioni sparse su «Il cavallo venduto» di Giorgio Scerbanenco

di Daniele Comberiati

Ho vissuto anch’io, come quasi tutt*, momenti di preoccupazione nelle ultime settimane. Dati confusi, cifre non immediatamente comprensibili, esperti o presunti tali che si contraddicevano costantemente. E una paura (anche) irrazionale, per me stesso e per amici, amiche e familiari.

Poi, in un tempo che può essere sembrato breve o lungo rispetto alle condizioni di confinamento – ma in generale abbastanza lungo, anche per i più privilegiati – siamo passati, nella maggior parte dei paesi europei, alla “fase due”. E tutti i governi hanno iniziato a riflettere sui sistemi di tracciabilità dei propri cittadini. Che venga chiamata “Immuni” o in un altro modo, l’applicazione che dovrebbe “proteggerci” genera in molt* di noi una paura di altro tipo. Saremo sempre più controllati/e? La presunta sicurezza corroderà ulteriormente le nostre libertà? Ogni nostro spostamento sarà tracciato, registrato e in seguito, cosa che davvero mi angoscia, giudicato?

Mi rendo conto che potrei star esagerando. L’applicazione potrebbe essere non obbligatoria e al tempo stesso utile, se non necessaria. Oppure, più semplicemente, i dati potrebbero rimanere anonimi. Ma ne abbiamo davvero la certezza? D’altronde il binomio “bisogno di sicurezza/erosione delle libertà” è già attivo da tempo, non è stata certo la pandemia a provocarlo. Le leggi anti-terrorismo, i nuovi documenti di identificazione, le nuove disposizioni per i viaggi aerei dopo l’undici settembre, i messaggi commerciali “a tema” che riceviamo nelle nostre caselle di posta, persino i consigli di lettura vanno in questo senso. Non so, non posso sapere francamente che tipo di futuro avremo – a tale proposito una riflessione di Sergio Benvenuto (http://www.leparoleelecose.it/?p=38213), interessante anche se non pienamente condivisibile, mostra quanto poco abbiano inciso nel passato epidemie ancora più tragiche. So però che alcune delle ipotesi che possiamo fare sul nostro futuro sono già state immaginate. Forse conviene partire da lì per capire che mondo vogliamo – o non vogliamo – avere.

Mi è capitato di lavorare negli ultimi mesi, per un volume scritto con Simone Brioni, Ideologia e rappresentazione. Percorsi attraverso la fantascienza italiana (Mimesis 2020), sul romanzo di Giorgio Scerbanenco Il cavallo venduto. Si tratta di un’opera particolare nella bibliografia dello scrittore. Il libro viene pubblicato postumo, nel 1963, ma è lo stesso Scerbanenco, come si legge nella biografia pubblicata dalla figlia Cecilia, a considerarlo il suo romanzo prediletto. È un romanzo post-apocalittico, che ha scritto probabilmente nell’immediato dopoguerra, una volta tornato a Milano dall’esilio in Svizzera. Scerbanenco non era nuovo ad incursioni nel genere fantascientifico: per diversi anni aveva frequentato Giorgio Monicelli, fondatore della collana “Urania” da dove per primo coniò il termine “fantascienza”, e aveva già scritto Il paese senza cielo, commissionatogli da Zavattini e pensato per un pubblico giovanile. Ritornerà poi al genere con il racconto lungo L’anaconda, che racconta, in piena Guerra fredda, la contrapposizione fra due blocchi contrapposti, Okana e Ravandia, attraverso un processo che, a guerra finita, mostra i danni ambientali, sociali e di genere provocati dal conflitto.

In Il cavallo venduto Scerbanenco descrive uno scenario post-apocalittico che sembra attraversare l’intera Europa. Il mondo che conosciamo, dopo la sua distruzione, è tornato ad una fase semi-primitiva: sparuti gruppi di uomini e donne si muovono per l’Europa devastata, alla ricerca di cibo e di un posto dove essere al sicuro. L’unico luogo al mondo in cui la civiltà sembra essersi ripresa è Milano: migliaia di profughi si accalcano alle porte della città, sperando di poter entrare.

Il mondo che descrive Scerbanenco è estremamente violento e feroce, per molti versi ricorda il contesto coloniale, italiano ma non solo. Uno dei personaggi principali dichiara di venire dalla Tripolitania – l’autore sceglie volutamente l’appellazione coloniale – e racconta che in Africa si assiste ora alla stessa violenza che è in atto in Europa: i bianchi europei vengono uccisi, discriminati o perseguitati, proprio come accadeva, a parti invertite, durante il colonialismo. L’uomo in questione tra l’altro afferma di provenire da un generico “meridione”, portando il discorso su un piano estremamente attuale rispetto all’anno in cui il romanzo uscì, in pieno boom economico e durante le migrazioni interne dal sud Italia verso il nord. I piccoli insediamenti umani ancora rimasti – sorta di micro-comunità disseminate in uno spazio ampio ma in perenne movimento, tutte protese verso Milano – vengono chiamati proprio “colonie”, come se fossero avamposti per una conquista futura e le attività commerciali incessanti, per quanto paradossali, riguardano la ricerca di fucili e soprattutto di caricatori, che costituiscono la principale tipologia di scambio economico della nuova umanità.

Di fronte a tutto questo caos, Milano rappresenta apparentemente la razionalità e la speranza che dall’ordine della città la civiltà umana possa rinascere. È protetta da mura molto spesse e l’entrata è estremamente regolamentata: all’ingresso vi sono i Guardiani, che controllano dettagliatamente le persone che vogliono entrare. Se si entra, diventa quasi impossibile uscire: alle persone vengono confiscati i beni, viene tatuato un numero, assegnato un lavoro che devono accettare per forza. La città è descritta quasi esclusivamente dall’esterno: di Milano quindi si parla, nel romanzo, ma a Milano non si entra. Dal punto di vista del senso del testo, non siamo molto distanti dallo Scerbanenco giallista di I milanesi ammazzano al sabato: una città ben organizzata, all’apparenza pulita e funzionante, che però nasconde orribili segreti.

L’azione si svolge per lo più nelle sterminate tendopoli alle porte della città, fra le migliaia di persone che attendono di entrare. L’unico che ha conosciuto Milano è una sorta di bardo, un uomo che ha vissuto nella città e che, eccezionalmente, è riuscito ad uscirne. La sua conoscenza, però, è continuamente svilita: parla a persone che non hanno nessuna voglia di ascoltarlo e che hanno già preso una decisione. Racconta loro l’eco della radio che incessantemente risuona per le strade di Milano, simbolo di una propaganda che ricorda molto da vicino le trasmissioni dell’Eiar durante il fascismo. Ma soprattutto, elemento fondamentale per uno scrittore come Scerbanenco, il bardo si sofferma sulle imposizioni linguistiche a cui sono sottoposti gli abitanti di Milano: dei militari lo hanno costretto a pronunciare determinate parole nel modo in cui volevano loro, pena la morte. La normalizzazione linguistica sembra essere un’ossessione nella città: il progetto è quello di creare una lingua omologata, più povera, facilmente controllabile e manipolabile. Una versione lombarda della neo-lingua di George Orwell. Scerbanenco aveva già scritto sui rischi del controllo linguistico da parte dei governi: nel 1943, durante la sua collaborazione con il “Corriere della sera”, aveva proposto al giornale un breve testo, Lingua morta. L’articolo non venne pubblicato, ma oggi rimane un segno tangibile delle sue idee sulla lingua. È una sorta di racconto allegorico, in cui il narratore e il guardiano attraversano un cimitero, nell’autunno del 1943, girovagando per lapidi che testimoniano la morte della lingua del regime, fra sepolcri di improbabili italianismi, epitaffi di frasi fatte e pessimi latinismi, mausolei del Voi e pietre tombali del lessico fascista.

Il bardo di Il cavallo venduto mette in guardia dall’omologazione linguistica, ma la sua voce rimane inascoltata. Appare sempre più come Cassandra: all’apparenza folle, in realtà savio. A nulla servono le sue parole, che spiegano bene il titolo del romanzo e il senso del libro: “Andare a Milano è come vendere il proprio cavallo migliore per un sacco di grano guasto”. Già, perché l’unica civiltà in procinto di rigenerarsi, è in realtà proprio quella che ha causato la distruzione del pianeta. Ricostruire Milano in questo modo, quindi, significa ricostruire la società che ha creato le premesse per la propria devastazione.

Quando in questi giorni parliamo o sentiamo parlare di “ritorno alla normalità” o di “nuova normalità”, pensiamoci con calma. Qual è la normalità che abbiamo lasciato? Quali aspetti ci mancano e di quali invece possiamo/vogliamo fare a meno? Quali elementi nuovi vorremmo? Il cavallo venduto di Scerbanenco può aiutarci a riflettere: non dobbiamo “per forza” tornare al mondo di prima.

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2 Commenti

  1. Ottima riflessione. E anche un bel modo per ricordare uno Scerbanenco extragiallo, tutto da riscoprire (amo molto, per dire, l’autore di romanzi “femminili” e “sentimentali”, virgolette obbligatorie).

    • Senz’altro, anche gli altri lavori di fantascienza sono molto validi. E a me personalmente piace anche come giornalista e curatore di rubriche (e scrittore di racconti)

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Vivo a Parigi e insegno all’Université Paris Nanterre. Ho pubblicato, anni fa, testi teatrali, racconti, romanzi (l’ultimo: I veri delinquenti, Fazi, 2005). Ho tradotto dal francese saggi e romanzi. In ambito accademico mi occupo di avanguardie/neoavanguardie, letteratura italiana ipercontemporanea, studi femminili e di genere, studi postcoloniali e della migrazione (ultima monografia: Scrivere al tempo della globalizzazione. Narrativa italiana dei primi anni Duemila, Cesati, 2019). Dirigo la rivista Narrativa (http://presses.parisnanterre.fr/?page_id=1301). Leggo i testi che ricevo via Nazione Indiana; se mi piacciono e intendo pubblicarli contatto l’autore, altrimenti no. Non me ne vogliate.
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