Sinéad Morrissey: “Perdona questo rimediare”

 

di Viviana Fiorentino

 

 

Nella raccolta The state of the prisons (Lo stato delle prigioni) (Carcanet Press, 2005; vincitrice al Michael Hartnett Poetry Prize in 2005) la poeta irlandese Sinéad Morrissey declina il tema della prigionia in tutte le sue varianti di stato e di luogo: le celle di Newgate, la voce silenziata di una donna filo monarchica costretta da una mordacchia nell’Inghilterra di Cromwell, le gabbie e le limitazioni di un viaggiatore che si ritrova in una nuova cultura. Le prigioni del nostro corpo. I limiti che le percezioni pongono sulle esperienze individuali. Gli interni intimi, e claustrofobici, delle relazioni umane.

Sinéad Morrissey nasce nel 1972 a Portadown, nella contea di Armagh, Irlanda del Nord, e cresce a Belfast. Consegue la laurea e il dottorato presso il Trinity College di Dublino e, dopo anni di viaggi e insegnamento all’estero, ritorna a vivere a Belfast. Alle sue raccolte vengono assegnati molti premi, come il Patrick Kavanagh Poetry Award, il National Poetry Competition, il Forward Poetry Prize for Best Collection e il T.S. Eliot Prize. Le poesie della Morrissey racchiudono un forte senso della sua identità nord irlandese – dalla violenza di un’infanzia durante i Troubles a una Belfast vivace città moderna – ma al contempo raccontano delle lontane località internazionali, dove la poeta ha vissuto.

The state of the prisons viaggia fino alla Cina e le regioni dell’Est. Un viaggio in treno di 6.000 miglia che si trasforma in un funerale per un fratello perduto e per certi ricordi d’infanzia, mentre la scrittrice punta la “macchina fotografica / di proposito su una vasta, deserta / distesa, quindi controlla sulla schermo / se c’è qualcosa / nella sua piccola rete a occhi spalancati”. “Per un secondo non sento il bollitore bollire / e mi chiedo: se l’Iraq ha estratto il sale anziché il petrolio?”. Le illuminazioni arrivano dai mondi dell’anatomia della vita, dalla biosfera e persino dalla politica del sale. “Sono uno straniero e un pellegrino qui”, i confini si offuscano con il viaggio; e ciò non è solo una nuova prospettiva esistenziale, è anche occasione per innovazioni formali, tematiche, immaginarie e linguistiche. I paesaggi domestici entrano in dialogo con nuovi spazi e con altre culture. La casa diventa una molteplicità spaziale, un dialogo tra partenza e ritorno immaginati dalle prigionie che ci vengono imposte o che noi stessi creiamo. Forma e contenuto, nonché personale e politico, si fondono in questa collezione attraverso un’immaginazione sempre pronta a sorprendere: la raccolta si conclude con un lungo poema in prima persona sulla missione umanitaria del riformatore del XVII secolo John Howard, che si occupò di risanare le carceri inglesi.

“… Insegna loro a chiedere perdono

Possono così emergere dalla solitudine come farfalle da una crisalide.

Conducili al muro della scoperta del sé

Su cui sanguineranno, prima di vedere il loro stesso volto…”

Una sorta di tenerezza percorre i versi della raccolta, come ha descritto Paul Batchelor sul The Guardian, “l’intimità dei segreti sussurrati” e allo stesso tempo la bizzarria delle immagini e della forma; come la stessa Morrissey scrive, vi è una certa liberazione che si ottiene dall’esplorazione della “forma e articolazione della forma”.

Dice di sé: “È semplicemente come scrivo. (…) Scrivere una poesia sull’invasione della Prussia orientale da parte dell’Armata Rossa nel gennaio 1945, seguita da un’altra poesia sull’osservazione di una pioggia di meteoriti con mio figlio, non mi sembra particolarmente incongrua. La poesia può essere intellettualmente complessa e difficile, ma può essere portata con maggiore forza al pubblico attraverso il suono, i sentimenti e la comprensione dei contesti.”

E poi ancora, “Concordo pienamente sul fatto che creiamo i nostri precursori: abbiamo un disperato bisogno di quella conversazione. L’idea di influenza è troppo passiva. (…) Adoro Mayakovsky per la sua esuberanza tagliente, la sua audace rottura, per avermi mostrato il tipo di cose che lo spazio bianco può consentire in una poesia.”

Una delle prigioni della raccolta è quella dell’uomo rispetto alla natura. “Era nero come la costa scivolosa e intontita del Kuwait / sul Belfast Lough …” una risonanza cinematica capace di attraversare le mura delle prigioni e riconnettere longitudini opposte. La relazione tra uomo e natura non umana, nella poesia “Pilote”, viene raccontata attraverso l’arrivo di un gruppo di balene pilota nel Lough di Belfast. Il loro pericolo, la spettacolarizzazione del loro comportamento e poi l’incapacità umana di comprendere il messaggio che gli animali stanno tentando di trasmettere. Cinquanta balene pilota – Globicephala melaena, specifica la poeta – si sono spinte nel Lough, un’insenatura marittima intercotidale che termina nel porto di Belfast. Le narrazioni si sovrappongono per cercare di spiegare l’inaspettato arrivo: lo sfruttamento economico delle balene, la vulnerabilità dei corpi animali, l’estinzione delle specie, l’incapacità dell’uomo nel cogliere la dimensione del problema ambientale. L’avidità umana incapace di alcuna sensibilità di fronte alla vulnerabilità animale.

Il corpo come prigione. Quello animale e quello umano. E quello genetico, come nella poesia Genetics. Uno spazio liminale nel quale si incontrano universi diversi e concomitanti, uno spazio di  contraddizioni insanabili. Il corpo è il luogo privilegiato d’incontro che definisce e allo stesso tempo smantella le costruzioni sociali di ciò che è umano, di ciò che è naturale, di ciò che è culturale.

Lo stato delle carceri delinea, infatti, una natura umana che è manifestazione nel corpo; come nelle poesie “The Yellow Emperor’s Classic”, “The Second Lesson of Anatomists” e “Migraine”. La raccolta ci ricorda anche che i piaceri che riceviamo in qualsiasi forma d’arte, o anche nell’indagine scientifica, non provengono tanto da ciò che viene creato e da cosa significa, piuttosto da quanto bene qualcosa è fatto, o come fatto e poi disfatto, armeggiato, plasmato, giocato. Del resto, sensualità e giocosità linguistica, economia, serietà, classicismo sono i segni della Morrissey e di tutta una generazione di poeti nordirlandesi a lei contemporanei. Tuttavia, questo fare della scrittura proviene da una manipolazione corporea. È, infatti, a partire dall’esperienza fisica, corporea, dei Troubles per esempio, che Sinéad Morrissey, come anche Ciaran Carson, affronta le varie nozioni di alterità: divisione e frammentazione del territorio, estraneità e stranezze nell’ambiente della casa e della famiglia, esilio, tensione tra il qui e l’altrove, silenzio e violenza del e contro il corpo.

 

Pilots

 

It was black as the slick-stunned coast of Kuwait
over Belfast Lough when the whales came up
(bar the eyelights of aeroplanes, angling in into the airport
out of the east, like Venus on a kitestring being reeled
to earth). All night they surfaced and swam
among the detritus of Sellafield and the panic
of godwits and redshanks.

By morning
we’d counted fifty (species Globicephala melaena)
and Radio Ulster was construing a history. They’d left a sister rotting
on a Cornish beach, and then come here, to this dim
smoke-throated cistern, where the emptying tide leaves a scum
of musselshell and the smell of landfill and drains.
To mourn? Or to warn? Day drummed its thumbs
on their globular foreheads.

Neither due,
nor quarry, nor necessary, nor asked for, nor understood
upon arrival – what did we reckon to dress them in?
Nothing would fit. Not the man in oilskin working in the warehouse
of a whale, from the film of Sir Shackleton’s blasted Endeavour,
as though a hill had opened onto fairytale measures
of blubber and baleen, and this was the money-
god’s recompense;

Not the huge Blue
seen from the sky, its own floating eco-system, furred
at the edges with surf; nor the unbridgeable flick
of its three-storey tail, bidding goodbye to this angular world
before barrelling under. We remembered a kind of singing,
or rather our take on it: some dismal chorus of want and
wistfulness
resounding around the planet, alarmed and prophetic,
with all the foresight we lack –

though not one of us
heard it from where we stood on the beaches and car-parks
and cycle-tracks skirting the water. What had they come for?
From Carrickfergus to Helen’s Bay, birdwatchers with binoculars
held sway while the city sat empty. The whales grew frenzied.
Children sighed when they dived, then clapped as they rose
again, Christ-like and shining, from the sea, though they could
have been
dying out there,

smack bang
in the middle of the ferries’ trajectory, for all we knew.
Or attempting to die. These were Newfoundland whales,
radically adrift from their feeding grounds, but we took them
as a gift: as if our own lost magnificent ship
had re-entered the Lough, transformed and triumphant,
to visit us. As if those runaway fires on the spines of the hills
had been somehow extinguished….

For now,
they were here. And there was nothing whatsoever to be said.
New islands in the water between Eden and Holywood.

 

 

 

Pilote

 

Era nero come la costa scivolosa e intontita del Kuwait

su Belfast Lough quando arrivarono le balene

(vietati gli occhi luminosi degli aeroplani, che si inclinano verso l’aeroporto

da est, come Venere sul filo di un aquilone richiamato

a terra). Per tutta la notte emersero e nuotarono

tra i detriti di Sellafield e il panico

di pittime e pettegole.

 

Al mattino

ne avevamo contate cinquanta (specie Globicephala melaena)

e Radio Ulster stava ipotizzando una storia. Avevano lasciato una sorella marcire

su una spiaggia della Cornovaglia, e poi venute qua, in questa cisterna gola di fumi

nebbiosi, dove la marea in ritirata lascia cozze a ristagnare e odore di discarica e scoli.

Compiangere? O avvertire? Il giorno batté i suoi pollici

sulle loro fronti globose.

 

Né dovuto,

né cercato, né necessario, né richiesto, né compreso

all’arrivo – Con che cosa abbiamo pensato di vestirle?

Niente si adatterebbe. Non l’uomo in tela cerata che lavora nel magazzino

di una balena, dal film sull’Endeavour schiaffata di Sir Shackleton,

come se una collina si fosse aperta su misure fiabesche

di grasso e fanone, e questo fosse il guadagno –

ricompensa di Dio;

 

Non l’enorme Blu

visto dal cielo, il suo ecosistema galleggiante, incrostato

ai bordi dalla schiuma; né il guizzo incolmabile

della sua coda a tre strati, che dice addio a questo mondo squadrato

prima di fiondarsi sotto. Ricordammo una specie di canto,

o meglio il nostro incarico su di esso: un lugubre coro di mancanza e

malinconia

risonante in tutto il pianeta, allarmato e profetico,

con tutta la lungimiranza che ci manca –

 

anche se nessuno di noi

lo sentì da dove ci trovavamo dalle spiagge e dai parcheggi

e dalle piste ciclabili che costeggiano l’acqua. Per cosa erano venute?

Da Carrickfergus a Helen’s Bay, i birdwatcher dominavano

con i binocoli mentre la città sedeva vuota. Le balene divennero frenetiche.

I bambini sospirarono quando si rituffarono, poi applaudirono non appena riemersero

ancora, come Cristo e splendenti, dal mare, sebbene avrebbero potuto

morire là giù,

 

proprio

nel mezzo della traiettoria dei traghetti, per quanto ne sapevamo.

O un tentativo di morire. Erano le balene di Terranova,

Del tutto alla deriva dai loro luoghi di alimentazione, ma le accogliemmo

come un regalo: come se la nostra magnifica nave perduta

fosse rientrata nel Lough, trasformata e trionfante,

per farci visita. Come se quei fuochi sfuggiti sui dorsi delle colline

fossero stati in qualche modo spenti…

 

Per il momento,

erano qui. E non c’era proprio niente da dire.

Nuove isole nell’acqua tra Eden e Holywood.

 

 

 

Genetics

 

My father’s in my fingers, but my mother’s in my palms.
I lift them up and look at them with pleasure –
I know my parents made me by my hands.

They may have been repelled to separate lands,
to separate hemispheres, may sleep with other lovers,
but in me they touch where fingers link to palms.

With nothing left of their togetherness but friends
who quarry for their image by a river,
at least I know their marriage by my hands.

I shape a chapel where a steeple stands.
And when I turn it over,
my father’s by my fingers, my mother’s by my palms

demure before a priest reciting psalms.
My body is their marriage register.
I re-enact their wedding with my hands.

So take me with you, take up the skin’s demands
for mirroring in bodies of the future.
I’ll bequeath my fingers, if you bequeath your palms.
We know our parents make us by our hands.

 

 

 

Genetica

 

Mio padre è nelle mie dita, ma mia madre è nei miei palmi.

Li alzo e li guardo con soddisfazione –

che i miei genitori mi hanno fatto lo so dalle mie mani.

 

Potrebbero essere stati scacciati in terre disunite,

disuniti emisferi, dormire potrebbero con altri amanti,

ma in me si toccano dove le dita si uniscono ai palmi.

 

Nulla della loro unione rimane se non amici

che scavano alla ricerca di una loro immagine vicino a un fiume,

almeno lo apprendo il loro matrimonio dalle mie mani.

 

Formo una cappella e lì si erge una guglia.

E quando la giro,

mio padre è tra le mie dita, mia madre tra i miei palmi

 

umile davanti a un prete che recita i salmi.

Il registro del loro matrimonio è il mio corpo.

Ricreo le loro nozze con le mie mani.

 

Dunque portami con te, accogli le richieste della pelle

per rispecchiarsi nei corpi del futuro.

Lascerò le mie dita in eredità, se tu lascerai i tuoi palmi.

Sappiamo che i nostri genitori ci fanno dalle nostre mani.

 

 

 

Migraine

And it’s happening yet again:
vandals set loose in the tapestry room
with pin-sharp knives. Such lovely scenes
as this day’s scrubbed-white clouds
and shock of scarlet blooms
across the wasteground

looking abruptly damaged —
stabbed-through from the back
so that a dozen shining pin-sized
holes appear at random. Then widen.
Soon even the grass has been unpicked,
the gorse hacked open.

I can no longer see your face.
Posed in unravelling sleeves
and disappearing lace,
I have given up all hope for what was whole —
the monkey under the orange tree,
the tatterdemalion nightingale.

 

 

 

Emicrania

 

E accade ancora di nuovo:

vandali lasciati liberi nella sala degli arazzi

con coltelli affilati. Quale scena adorabile

come le nuvole di oggi bianco sfregate

e le masse di fioriture scarlatte

sui terreni incolti

 

all’improvviso danneggiate —

accoltellate alle spalle

tanto da far apparire a caso una dozzina di fori luccicanti

della dimensione di uno spillo. Poi si allargano.

Poco tempo e persino l’erba rimane non colta,

la ginestra spinosa a pezzi aperta.

 

Più non riesco a vedere il tuo viso.

In posa con le maniche srotolate

e un merletto che scompare,

Ho rinunciato a qualsiasi speranza d’interezza —

scimmia sotto l’albero d’arancio,

usignolo cencioso.

 

 

 

Polar

after Brecht

 

My darling, lest you vanish back

to the vast frontier you fled from

once its darkness

failed to break –

baying for bathwater, bedlinen, me –

without a further word,

allow these gifts:

 

six pairs of pearl-stitch knitted socks,

an Aran with a fingered ridge, a scarf

to trap a boulder in.

for even though you’re lean

and craven, I’d rather have you

round and down and rollable.

I want to hap you up

 

so that you stagger off, surrounded

by my warmth, on your journey

North. I want to wrap

your delectable backside

(which I chew on so immoderately

when I’m out of my right mind)

in all the wool of Scotland.

 

Forgive me this redress. Forgive

the need to staunch my loneliness

on your enormous absence.

Even the furniture sags without you.

I invent a war to send you

off to, but it’s only a war

with nature. They say it’s winter

 

when you’re up there

nine months of the year

(the solstice dragging its feet

with the weight of the planet);

that the sky is merely on fire

with its own futility; and the snow geese –

inconsequential company.

 

 

 

Polo

dopo Brecht

 

Mio caro, affinché tu non svanisca di nuovo

Verso la frontiera immensa da cui sei fuggito

Quella volta che la sua oscurità

Non riuscì a terminare –

Strillando per l’acqua del bagno, la biancheria da letto, me –

Senza aggiungere altro,

consentimi questi doni:

 

sei paia di calze lavorate a punto selcio,

un Aran con una costa come mani, una sciarpa

per intrappolare un macigno dentro.

Perché anche se sei magro

e vigliacco, preferirei averti

tondo e in fondo e rotolabile.

Voglio tirarti su così

 

Così che te ne barcolli via, circondato

dal mio calore, nel tuo viaggio

verso Nord. Voglio avvolgere

il tuo delizioso didietro

(quanto smoderata lo mordicchio

quando vado fuori di testa)

in tutta la lana della Scozia.

 

Perdona questo rimediare. Perdona

la necessità di tamponare la mia solitudine

sulla tua enorme assenza.

Sprofondano persino i mobili senza di te.

Invento una guerra per mandarti

via, ma è solo una guerra

con la natura. Dicono che è inverno

 

quando sei lassù

nove mesi dell’anno

(mentre il solstizio trascina i suoi piedi

con il peso del pianeta);

con il cielo che è semplicemente in fiamme

con tutta la sua futilità; e le oche delle nevi –

irrilevante compagnia.

 

 

 

On Omitting the Word ‘Just’ from my Vocabulary

 

And here I am in a room I don’t recognise, being
angular and contemporary, with its own
unabashed light source and the table clear.

I must be somewhere Scandinavian.
Where weather is decisively one way
or the other, and summer,

or winter, will not brook contradiction.
Even the ornaments (such as they are)
are purposeful: a stone dog stares into the fireplace

as though pitting itself against fire
for the next quarter-century.
(How you cannot say ‘just’ and ‘pregnancy’.)

There is a fissure in store for me here.
There are no wall hangings. Or rugs.
The door is locked against me.

My own audacity in coming here
astounds me. Yet I step purposefully.
I swell uncontrollably.

Beyond in the hallway
the tongue of a bell is banging against its shell.
It sounds like a coffin lid,

or as definitive.
It is marking the hours until I break into two
and loose/gain everything.

 

 

 

Su l’omettere la parola “soltanto” dal mio vocabolario

 

Ed eccomi qui in una stanza che non riconosco, perché

squadrata e contemporanea, con le sue

spudorate sorgenti di luce e il tavolo vuoto.

 

Sarà che sono in qualche parte scandinava.

Dove il tempo è solo in un modo

o in un altro, l’estate,

 

o l’inverno, non tollererà alcuna contraddizione.

Persino gli ornamenti (per come sono)

sono intenzionali: un cane di pietra fissa il camino

 

come se contrapposto al fuoco

per il prossimo quarto di secolo.

(Come non saper dire “soltanto” e “gravidanza”.)

 

C’è una fessura in serbo qui per me.

Non ci sono arazzi. O tappeti.

La porta è contro di me chiusa.

 

Il mio stesso sprezzo del pericolo nel venire qui

mi sorprende. Eppure entro di proposito.

Ingrandisco senza alcun controllo.

 

Oltre nel corridoio

il martello della campana batte contro il suo guscio.

Come il coperchio di una bara,

 

o come definitivo. Segna le ore finché in due io rompo e lascio/ottengo ogni cosa.

 

 

 

 

 

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Giorgiomaria Cornelio è nato a Macerata nel 1997. E’ poeta, regista, curatore del progetto “Edizioni volatili” e redattore di “Nazione indiana”. Ha co-diretto insieme a Lucamatteo Rossi la “Trilogia dei viandanti” (2016-2020), presentata in numerosi festival cinematografici e spazi espositivi. Suoi interventi sono apparsi su «L’indiscreto», «Doppiozero», «Antinomie», «Il Tascabile Treccani» e altri. Ha pubblicato "La consegna delle braci" (Luca Sossella editore, Premio Fondazione Primoli, Premio Bologna in Lettere) e "La specie storta" (Tlon edizioni, Premio Montano, Premio Gozzano Under 30). Ha preso parte al progetto “Civitonia” (NERO Editions). Per Argolibri, ha curato "La radice dell'inchiostro. Dialoghi sulla poesia". La traduzione di Moira Egan di alcune sue poesie scelte ha vinto la RaizissDe Palchi Fellowship della Academy of American Poets. È il direttore artistico della festa “I fumi della fornace”. È laureato al Trinity College di Dublino.
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