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La moltiplicazione del Signor Distruggere

di Helena Janeczek
Abbiamo un problema, un problema culturale e politico.
L’onnipresenza del linguaggio misogino (misogino e non più solo maschilista) che nello spazio dei media (social e tradizionali) è diventato da tempo la norma della violenza verbale.
Normale il tweet di Massimiliano Parente – l’ennesimo – che usa come sinonimo di “minchia” il cognome di Michela Murgia, mentre a lei pare cosa di un altro mondo che una rivista americana la difenda da un troll fascistoide. O Marco Gervasoni che, qualche settimana prima, commentava la copertina dedicata a Elly Schlein con “ma questa è n’omo?”
Lo “scandalo” della modella Armine Harutyunyan scoppiato a un anno dalla sfilata di Gucci e divampato solo in Italia. Le valanghe di veleno su Greta Thunberg, ricorrenti come le anomalie meteorologiche causate dal cambiamento climatico.

Ogni volta che Vittorio Sgarbi urla “troia, puttana” a favore delle telecamere, con i video che poi diventano virali perché un sacco di ragazzi lo trova divertente, come se fosse un rapper blastatore o il “Signor Distruggere” con il suo milione di seguaci.
Ecco, il problema è la moltiplicazione – metaforica e reale – dei “Signor Distruggere”.
Il fatto che le sparate di uno scrittore o di un docente universitario mirino a una visibilità equiparabile a quella del personaggio social, per non dire a quella di Sgarbi, Feltri, Cruciani.
E che quindi sarebbe doppiamente raccomandabile che la donna sotto attacco non rispondesse: per non concedere la visibilità cercata all’attaccabrighe e, oltretutto, perché le donne non dovrebbero mai abbassarsi a certi toni.
Le donne dovrebbero stare salde come le querce nelle tempeste di shitstorm, ringraziare se gli tocca solo qualche “cessa”, rispondere semmai con pacatezza e pazienza dialogante.
Cosa che, in realtà, non le mette al riparo. Si è visto recentemente con le polemiche intorno a Vera Gheno, la sociolinguistica da cui il presidente dell’Accademia della Crusca, addirittura, si è sentito in dovere di dissociarsi. Vera Gheno ha spiegato fino alla nausea che non pensa affatto di imporre dall’alto lo “shwa” inclusivo perché non si cambia così una lingua e la cultura che veicola. Eppure si è beccata una marea di insulti e dileggi sessisti, reazione incomparabile alle critiche riservate, per esempio, a Federico Faloppa che si occupa di simili tematiche.
Per Vera Gheno, oltretutto, non vale neppure che a scatenare l’aggressività sia stata “l’iperesposizione” che rende tutti più appetibili per gli odiatori. Con le donne, appunto, scatta anche se non sei “mediatica”. In tutti casi, comunque, le donne non vengono prese di mira per ciò che sterotipicamente rappresentano in base alle proprie scelte (buonista, sinistrato, radical-chic ecc.) ma per ciò che non hanno scelto di essere, riducendole a corpi e emotività “uterina”.
In un contesto del genere è fallace concentrare l’attenzione sul caso del giorno, far valere simpatie, antipatie, scusanti, distinguo. Questi attacchi possono toccare a qualunque donna dica o faccia – anche inconsapevolmente – qualcosa di “sbagliato” o, se siete uomini, alle vostre sorelle, madri, figlie, compagne, colleghe, amiche.
Infine si tratta di dinamiche che investono la spazio pubblico, la polis virtuale che non è il bar sotto casa, anche se fa di tutto per somigliarvi. Una dimensione dove non c’entra nulla il giudizio sul valore letterario (o accademico) di ciò che hanno pubblicato i contendenti, né le relazioni private tra le persone.

ps. Non linkare tweet, video e pagine criticate è naturalmente una mia scelta.

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5 Commenti

  1. 1) La sociolinguistica è una disciplina. La Gheno è semmai una sociolinguista.
    2) Se sei scemo, ti dico scemo. Se sei scema, ti dico scema. Essere donna non tutela dall’essere imbecilli (vedi la Murgia o la sparata sullo shwa).
    3) Il linguaggio dei social media quello è. Con tutti. Se il gioco non ti piace, non giocare (io, infatti, non ci gioco da 7 anni).

    • “Sociolinguistica” al posto di “sociolinguista” è un banale refuso. Non è neanche l’unico: anche “*la spazio pubblico” lo è.
      Invece *shwa è un errore, e vedo che tu lo ripeti, segno che non sai di cosa parli. Si scrive schwa.

    • Be’, Cullà, per essere uno che non gioca da 7 anni all’Ironico Commentatore Anonimo, vedo che non hai saputo resistere a venir qui a fare la punta alle matite. A dimostrazione che nel tuo caso l’essere imbecilli ti tuteli dall’essere uomo, attentissimo a spostare l’attenzione su cose risibili piuttosto che approfondire i temi davvero cogenti espressi da Helena, che probabilmente per te ha il difetto di essere donna e per me il pregio di essere una delle migliori menti in circolazione.

  2. Trovo artificioso usare una desinenza indecidibile per non dover privilegiare il femminile o il maschile. Ci sono altri sistemi per non assorbire il f. nel m/n. Uno consiste nella ripetizione: signore e signori, bambini e bambine, eccetera. Un altro è, in un insieme di soggetti, mettere per ultimo quello femminile in modo da poter aggettivare al femminile “in assemblea musicisti, pittori e pittrici, ballerine classiche, si sono ritrovate a discutere…”. Alcuni, con fierezza e coraggio (dico alcuni non alcune), aggettivano i plurali al femminile, e pace!

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Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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