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F come Frankenstein Filibustiere

Un racconto di Mario Schiavone
Ettore Filibustiere, a dispetto del suo cognome, non era un uomo molto sveglio. Questa sua forma di pigrizia mentale gli aveva fatto perdere il lavoro presso la farmacia di paese, dove era stato assunto come aiuto-magazziniere. Proprio nello stesso piccolo negozio in cui dopo alcuni anni di (poco) onorato lavoro avevano assunto un giovane dalle braccia più veloci delle sue. Un operaio capace di essere anche più puntuale sul lavoro ben prima del momento in cui bisognava timbrare il cartellino e dare inizio alla giornata di lavoro. Eppure lui, Ettore, ogni giorno si alzava dal letto; per fare la sua parte. Guardandosi allo specchio diceva a se stesso frasi a effetto sentite dalla bocca del prete di paese. Parole che suonavano più o meno così:
-Devo trovare il mio posto nel mondo.
Ettore quelle parole le aveva sentite dal prete, ma non erano del tutto parole nate e pronunciate solo in chiesa. Don Remigio, prima di dirle durante una messa, le aveva sentite uscire dal televisore di casa sua, osservando con attenzione lo schermo che ritraeva un imbonitore televisivo invitato a parlare in un talk-show.
Ettore aveva una famiglia composta dalla moglie Silvana, dal figlio Pino, dalla figlia Tina e dall’anziana madre Carmela. Vivevano tutti e cinque in una delle palazzine che s’innalzavano di fronte all’area in cui stava una ditta locale consorziata, impegnata nella gestione dell’appalto che prevedeva lo smaltimento dei rifiuti. Marito e moglie, ogni giorno dalla finestra del loro appartamento situato al secondo piano del condominio di case popolari tenevano d’occhio i camion di spazzatura. Seguivano con attenzione sia quelli in partenza verso la discarica regionale che quelli in arrivo a seguito del ritiro cittadino della spazzatura differenziata.
Ettore e Silvana, aiutati dai loro figli, s’erano inventati un traffico utile a impegnare il tempo e a ricavare – quando si presentava la possibilità – qualche soldo. I due non avendo un lavoro vero si erano auto-impiegati – così come spiegavano ad amici e parenti per vantarsi del loro operato – nel riciclo gli scarti solidi urbani di cui la gente di paese non aveva più bisogno. In parole povere trafficavano con la monnezza dei loro concittadini, per crearne oggetti da rivendere ai mercatini artigianali.
Tutto quello che marito e moglie non riuscivano a procacciarsi ai fini della sopravvivenza, era garantito dalla sicura pensione sociale riscossa dall’anziana madre di Ettore ogni mese: nonna Carmela. L’anziana donna, quando era avvilita per quel vivere così precario, ripeteva sempre la stessa frase:
-Ai miei tempi si mangiava di meno, ma si era più felici. Altro che oggi. Scemo era mio marito, e ancor più scemo è mio figlio Ettore. Ma come devo fare io?
A dimostrazione di quella dedizione verso il riciclo di monnezza, i Filibustiere dentro casa loro tenevano cura di alcuni oggetti d’arredo a dir poco bizzarri realizzati con gli scarti. Ettore, riciclando la scatola di legno e vetro di un vecchio televisore privo di tubo catodico, aveva ricavato un acquario rudimentale nel quale pinneggiavano alcuni pesci rossi, malaticci per la mancanza quotidiana di sole. Ogni mese dava al gatto di nonna Carmela una coppia di pesci ormai desquamati e bianchicci; il gatto Ciccio (che non andava per il sottile) mangiava i pesciolini senza perdere tempo.
Ettore lo guardava e gli diceva:
-Mangi meglio di noi, ricevendo pesce almeno una volta al mese. Che vita comoda la tua!
Subito dopo quel sacrificio andava a comprare un’altra coppia di pesci rossi al vicino negozio di animali, situato sulla strada principale. Nonostante tutti quei pesci morti, Ettore a ogni visitatore di casa sua mostrava con orgoglio quello che lui chiamava il suo tele-acquario.
La moglie di Ettore, Silvana, aveva lavorato a lungo in una piccola azienda che la impiegava per incappucciare penne biro di vari colori. Veniva pagata a cottimo, da una succursale italiana della casa madre cinese. Ci aveva lavorato così tanti anni da perdere parte della vista e anche un bel po’ di pazienza: il giorno in cui non ci vide più dalla rabbia diede davvero i numeri, e gettò un quantitativo di mille penne biro cinesi nell’acqua del fiume che scorreva dietro la finestra del deposito in cui lavorava. Prima di chiamare i carabinieri per denunciarla, Franco suo compaesano e responsabile del magazzino tuonò parole di minaccia dicendo:
-La pagherai, oh sì se la pagherai cara stavolta.
Al maresciallo dei carabinieri che la convocò in caserma per interrogarla sul fatto, Silvana dichiarò solo:
-Volevo essere certa che tutte quelle biro fossero buone almeno a galleggiare, perché a scrivere secondo me non servivano. Tutto qui.
Dopo il licenziamento Silvana si ritirò a vita familiare privata, uscendo di casa solo per andare a fare la spesa alimentare e comprare abiti usati, esposti in malo modo sulle bancarelle del mercato cittadino. Il resto del tempo lo trascorreva manipolando a mani nude fogli di cartone e pezzi di vetro che rubava di notte, portandoli via dai contenitori dell’azienda di rifiuti che a suo parere avrebbe potuto “in mano ad altra gente di livello dirigenziale, creare un ottimo indotto lavorativo per tutti”. Silvana aveva i polpastrelli delle dita di entrambe le mani consumati e anneriti, per via dei tagli causati dalle schegge di vetro delle lastre che lavorava insieme ai cartoni. Però in cuor suo andava fiera di quei segni sulle dita. Quando periodicamente partecipava ai mercatini dell’artigianato della sua città, metteva in vendita sul banchetto piccole cornici realizzate con tasselli di vetro incollati sui fogli di cartone pressato. Poi declamava ad alta voce, verso i potenziali clienti, il suo impegno e la sua applicazione manuali. Non le capitava spesso di riuscire a vendere molte delle sue creazioni; e se piazzava una piccola cornice pensava subito a darle un numero progressivo e a firmarla sul retro con un pennarello nero. Lo scopo, spiegava al cliente, era quello di rendere unico quel pezzo artigianale: “nato come scarto e divenuto pregiato oggetto da compagnia domestica, grazie a queste mie mani”.
Pino e Tina, fratelli gemelli, avevano con fatica conseguito il diploma in una scuola superiore professionale. Tra quelle mura di scuola si erano impegnati per studiare con attenzione le nozioni di elettrotecnica e alcuni rudimenti di elettronica avanzata. Stando alla promessa d’aiuto offerto da parte del padre, lo scopo di entrambi i fratelli, era quello di studiare fino al diploma e poi aprire un laboratorio-negozio in cui aggiustare e rivendere piccoli elettrodomestici. I due fratelli gemelli, pur non mostrando elevate facoltà intellettive, avevano seguito le dritte (e la buonafede) del padre, andando a scuola e studiando ogni giorno con costanza, fino al diploma del quinto anno.
Quando si trattava di aggiustare un componente elettrico in casa, ad esempio una lampada che perdeva la luce o il telecomando del televisore che non lanciava i suoi impulsi, i due fratelli indossavano due vecchi camici bianchi e logori e sull’asse da stiro messo in piedi nella loro cameretta allestivano un piccolo banco d’emergenza utile a eseguire le riparazioni.
– Anche questo pezzo tornerà a vita nuova.
Diceva Pino.
-Funzionerà meglio di prima, solo grazie al nostro impegno.
Replicava Tina verso il fratello.

Quando la banca aveva rifiutato la richiesta di erogazione di un prestito finanziario avviata da Ettore per conto dei figli, Pino e Tina non si erano persi d’animo. Per rimanere allenati i due gemelli ci davano dentro con le riparazioni: Pino assemblava quadri elettronici per i comandi delle lavatrici, e Tina ridava vita a vecchi asciugacapelli e forni a microonde in apparenza destinati all’isola ecologica dello smaltimento rifiuti. Così anche i due fratelli seguivano l’esempio dei genitori, riqualificando materia prima recuperata presso l’isola ecologica di rifiuti speciali che stava di fronte il condominio in cui abitavano.
In paese, tutti i componenti di quella stramba famiglia, non erano benvisti e il loro vivere in maniera arrangiata era sulla bocca di tanti paesani, diventando oggetto di presa in giro e gag comiche davanti ai bar del paese. Eppure, nonostante questo, i componenti della famiglia Filibustiere credevano fermamente che un giorno sarebbe arrivata l’occasione d’oro; un momento di visibilità totale grazie al quale come famiglia unita avrebbero dimostrato a tutti i compaesani che loro erano davvero delle persone in gamba. Ettore lo diceva quasi ogni giorno a pranzo, ai suoi familiari, faceva discorsi in cui esordiva con queste parole:
-Vedrete che recuperata la giusta fiducia nei confronti di chi ci circonda, anche la banca dovrà darci ascolto e prestarci quei soldi. Non può andare in altro modo.
Il quinto componente della famiglia, la silenziosa e anziana nonna Carmela, se ne stava seduta su una poltrona dalle assi sfondate, avvolta tutto l’anno in abiti pesanti e scuri, in compagnia del gatto Ciccio, un vivace gatto nero che amava farsi coccolare dall’anziana in cambio di vibranti fusa.
L’anziana donna era sempre indaffarata, a sferruzzare con i ferri della lana o a lavorare i cartamodelli di abiti da uomo sproporzionati nelle misure. Creava maglioni di lana fuori formato, che nessuno avrebbe mai indossato, oppure cuciva giacche e pantaloni che avrebbe potuto indossare un uomo alto due metri e pesante più di un quintale. Nessuno della famiglia aveva il coraggio di dirle che il tempo impegnato in quel modo era del tutto perso, così lei sferruzzava e cuciva creando vestiti per amici speciali che abitavano solo nella sua fantasia. Infatti nello sgabuzzino di casa Filibustiere, i cartoni colmi di abiti fuori misura si accumulavano di anno in anno. L’anziana donna, che fin da giovane aveva sempre vissuto in campagna con il marito, dopo la morte del suo compagno di vita aveva smesso di occuparsi dei terreni agricoli. Così aveva venduto quei terreni destinati al solo uso agricolo, per permettere a Ettore di riscattare l’appartamento nelle palazzine popolari. Subito dopo si era trasferita in città, a casa del figlio portando con sé Ciccio il gatto nero e una piccola pianta di noci che cresceva in un vaso di maiolica. Quando non bagnava d’acqua la pianta di noci né lavorava con ago e filo, se ne stava in disparte a sussurrare nell’orecchio del suo gatto frasi in dialetto cilentano. Cosa si dicessero lei e il gatto, era davvero un mistero. Perché neanche Ettore, ormai adulto, riconosceva il dialetto parlato dalla madre anziana. Del resto Ettore era rimasto lontano dal Cilento per troppi anni.
La vita di quella famiglia scorreva tranquilla ora dopo ora, nei giorni e negli anni. Poi, un giorno, proprio una settimana prima di Halloween, i Filibustiere ricevettero la visita di un giovane impiegato del comune addetto alla raccolta dati familiari di famiglie indigenti, per conto dei servizi sociali. L’impiegato, su ordine del sindaco e degli assistenti sociali municipali, con la scusa di coinvolgerli in un evento importante doveva osservare da vicino la famiglia Filibustiere e produrre una dettagliata relazione. L’obiettivo finale, secondo gli assistenti sociali, era quello di cogliere i Filibustiere con le mani nel sacco in pieno furto di monnezza, col fine di reindirizzarli a una vita che molti avrebbero definito corretta, civile e sana.
Il giovane Gioacchino, vestito di tutto punto portava nel taschino diverse penne nere e sotto il braccio un grande blocco di fogli, fissato su una cartellina di ecopelle fornitagli dagli assistenti sociali. Quando il 23 ottobre di quell’anno bussò alla porta della famiglia Filibustiere era in corso una riunione familiare interna, per stabilire quali fiori e quanti lumini portare al cimitero nell’imminente giorno dei defunti che sarebbe caduto da lì a poco.
Per Ettore, la moglie e i gemelli contava andare trovare i parenti e gli amici ormai defunti da tempo. Perché i componenti della famiglia Filibustiere ignoravano la festa di Halloween da sempre, pur avendone sentito parlare ogni anno in televisione o tra la gente del mercato di paese. Tutti loro tranne la nonna Carmela che ogni anno andava al mercato ortofrutticolo, a comprare una zucca tonda come quelle che i bambini di paese talvolta amavano intagliare, per festeggiare il ritorno dei morti nella notte più terrificante dell’anno.
L’impiegato comunale Gioacchino bussò alla porta due volte, poi si presentò ad alta voce:
-Mi chiamo Gioacchino Mormile, sono un addetto ai servizi sociali. Mi manda il sindaco in persona. Vengo a trovarvi per sapere come state, e per proporvi di partecipare a una… diciamo… una gara cittadina. In palio ci sono dei buoni da spendere in un nuovo supermercato, così potrete fare spese gratuita almeno per un mese. Lasciatemi entrare e vi spiegherò come fare.
Ci fu del silenzio iniziale, ma Gioacchino attese una risposta con pazienza, senza scoraggiarsi.
-Buoni per fare la spesa alimentare di ogni tipo? Domandò Ettore dall’interno della casa, accovacciato dietro la porta di casa.
-Certo, proprio quelli. Replicò Gioacchino.
-E in cambio di cosa?
-Poco, un impegno minimo. Basterà costruire un’opera da donare al sindaco. Andrà bene anche una statua per i giardinetti comunali. Inoltre, ai piedi dell’opera verrà affissa una targa con il nome della famiglia donatrice.
Quando Ettore Filibustiere sentì parlare dei buoni di spesa alimentare, nonchè del riconoscimento pubblico da parte del sindaco, aprì frettolosamente la porta e disse:
– Lei è il benvenuto a casa Filibustiere, si accomodi subito!
Gioacchino entrò, salutò ogni componente della famiglia con un veloce buongiorno a tutti voi signori e signore, e si accomodò al tavolo del piccolo soggiorno. Parlò per diversi minuti, evidenziando con parole precise come dalla sinergia tra municipio locale e società americana Nicks (titolare della neonata linea di supermercati alimentari Nicks Franchising) fosse nata l’idea per una gara creativa da organizzare nel giorno di halloween, alla fine della quale i cittadini più dotati d’inventiva avrebbero ricevuto dei buoni di spesa alimentare pari ad un mese di compere. A Ettore brillarono gli occhi, guardò sua moglie e i suoi figli e raccogliendo i loro piccoli cenni d’intesa capì che non poteva lasciarsi perdere quell’occasione. Preso dalla gioia offrì subito a Gioacchino un buon bicchiere di orzata annacquata con acqua di rubinetto. Poi, prima che si alzasse da tavola alla fine del suo discorso preparò anche un caffè solubile, diluito in acqua calda riscaldata con un vecchio pentolino macchiato di calcare da tempo. Alla fine dell’incontro Ettore non stava più nella pelle dall’emozione, così strinse forte la mano dell’impiegato comunale e si sentì, in cuor suo, felice per quella visita miracolosa. Durante l’incontro, quando si era trattato di apporre una firma per la scheda di partecipazione dell’evento, Ettore aveva firmato i due moduli senza farsi pregare. Voleva guadagnare tempo, perché mancavano poche ore all’inizio della settimana di lavori utili a consegnare la loro opera artigianale costruita a mano.
Dopo i saluti dell’impiegato, nonna Carmela, che durante la conversazione tra Ettore e Gioacchino aveva trafficato con una matita e alcuni fogli di carta modello vicino al camino di casa, aveva presentato un disegno al figlio dicendogli:
-Secondo me questo disegno per l’opera che dobbiamo costruire potrebbe esserci utile, che ne pensi?
Ettore aveva preso quel foglio tra le mani con scetticismo, poi guardando la sagoma disegnata si era convinto che poteva fare al caso loro: l’immagine somigliava tanto al famoso mostro creato dal Dottor Frankenstein, quello del film che aveva visto in bianco e nero da piccolo nel cinema di paese in compagnia di suo padre.
Il 24 e il 25 ottobre furono due giorni di attività frenetiche per Ettore e Silvana, che grazie al disegno di nonna Carmela riuscirono a costruire prima uno scheletro di rete metallica sagomata del mostro che avevano in mente. Ottenuta la sagoma rinforzarono braccia, gambe e torace del mostro con delle barre di ferro rettangolari. Poi mescolarono fogli di giornale stampati a piombo e polvere di gesso pura miscelata ad acqua, per irrobustire la creatura alta ben due metri. Tra una manipolazione e l’altra degli arti del mostro, lasciarono piccole cavità nelle attaccature di collo, braccia e gambe. In quelle snodature c’erano degli interstizi in cui i gemelli intervenirono inserendo dei componenti elettronici, capaci di rendere fluidi i movimenti del mostro radiocomandato.
Infatti, dal 26 ottobre e per tutto il giorno 27, non appena toccò a Pino e Tina darsi da fare con la loro praticità manuale utile a montare e rendere funzionanti piccoli motorini elettrici capaci di far alzare muovere braccia e gambe del mostro, attraverso un efficace sistema radiocomandato che permetteva di gestire i movimenti a distanza con un piccolo telecomando. Il tutto avveniva grazie agli impulsi che il mostro riceveva per mezzo dell’antenna estraibile, posta sul retro della testa.
In quei pochi giorni di attento e duro lavoro la famiglia aveva ben definito il mostro alto due metri e somigliante, grazie a delle bende di lattice poste bianche bagnate nel colorante verde, nei punti della testa e delle giunture del corpo a un vero e proprio Frankenstein.
Quando ci fu bisogno del vestito utile a definire l’aspetto finale del mostro, nonna Carmela estrasse fuori dalle scatole il miglior abito da uomo, con cui rivestire il Frankenstein di famiglia per dargli un aspetto a tratti umano. L’ultimo tocco, quello che rese il mostro immortale, vide le mani di Ettore pennellare ogni parte della creatura alta due metri di paraffina liquida utile a impermeabilizzare totalmente la loro creatura.
Di fretta e di furia, come in una vera commessa lavorativa che si rispetti, i Filibustiere arrivarono alla mattina del 31 ottobre. Le ultime ore di lavoro videro nonna Carmela deliziare tutti con un pranzo a base di zuppa di zucca altre verdure. Poco prima della fine del pranzo, andando nella stanza di lavoro (la cameretta dei gemelli riconvertita ormai a laboratorio) nonna Carmela chiese di rimanere da sola col mostro coricato sul letto dei gemelli. Appena si ritrovò sola con il Frankenstein gli infilò nel retro della testa un piccolo cervello di gomma, recuperato dalla busta degli scherzi di carnevale dei gemelli. Fatto questo, sussurrò a bassa voce verso la testa del mostro parole antiche che solo lei conosceva.
Calato il buio e arrivata la sera, Ettore andò a chiamare Nicola il suo vicino di casa. Abituato a usare la sua ape piaggio a tre ruote per i traslochi aiutò i Filibustiere a caricare la pedana con la statua segreta e coperta. Ettore e Nicola arrivarono fuori la piazzetta antistante il municipio, per scaricare una piccola pedana di legno su cui si ergeva il mostro avvolto da una vecchia incerata rossa da cucina. Poi, parlando di cimiteri e cibo, attesero l’ora dell’appuntamento col sindaco.

Verso le 21, come da manifesti affissi in città e da passaparola dato dagli uomini del sindaco, il sindaco e l’imprenditore Nicks si ritrovarono sul piccolo palco allestito per l’occasione. Una piccola folla di partecipanti si era riunita incuriosita, per assistere all’evento serale. La famiglia Filibustiere attendeva speranzosa fuori al municipio. Ettore poco prima della consegna si era avviato a casa lasciando il mostro in custodia a Nicola. Ci teneva a vestirsi di tutto punto, così aveva indossato un nuovissimo frac recuperato da un amico che si era sposato di recente. Silvana aveva messo un abito da sera, di quelli con spacco usati per ballare il tango. Gliel’aveva prestato una sua amica, ex-ballerina di danze da sala. I gemelli erano vestiti in modo casual, ma si erano preoccupati di indossare due camici bianchi da laboratorio, come a dire che gli inventori veri della creatura erano loro. I due avevano ancora gli occhi stanchi e le mani sporche di residui di scarti di colla e frammenti di lattice.
-Concittadini e amici, siamo qui riuniti stasera in compagnia del nostro cittadino onorario, l’imprenditore Nicks. Il signor Nicks ha voluto sponsorizzare questo evento speciale. Abbiamo esteso l’invito a tante famiglie, ma come è noto ai vostri occhi qui in piazza è pervenuta una sola opera realizzata in maniera artigianale dalla famiglia che premieremo.
L’usciere del sindaco si avvicinò al telo che copriva l’opera e fissando il sindaco attese il segnale convenuto, per scoprire la statua donata alla cittadinanza. Il sindaco sorrideva, l’imprenditore Nicks aveva occhi curiosi e felici come un bambino che stava per incontrare di persona – proprio la sera di halloween – un mostro unico e speciale. Ormai era cosa certa, Ettore ne aveva consapevolezza e gongolava in cuor suo, poiché nessuno aveva partecipato alla gara. Stando le cose in quel modo ai Filibustiere d’ufficio andavano consegnati premio finale e riconoscimenti ufficiali.
Mentre veniva scoperto il mostro, tra lo stupore della folla a un tratto si udì un grido. Un uomo infagottato che camminava in un cappotto scuro portava una lunga ascia nella mano destra. Avanza con falcate lunghe e strattonava con la mano libera tutti quelli che si frapponevano sul suo cammino. Uno dei cittadini, riconoscendolo, gridò il suo nome:
-È Franco, il capo magazziniere della fabbrica di penne cinesi. Ha un’ascia in mano, fermatelo!
Per risparmiare sugli stipendi il sindaco, senza pensarci due volte, non aveva pagato lo straordinario agli agenti di polizia municipale. La folla intimorita dall’uomo non ebbe il coraggio di intervenire. Nessuno se la sentì di fare qualcosa per fermare Franco armato d’ascia.
-Il vostro lavoro! Lo devo distruggere, devo fracassare ogni cosa con questa accetta prima, e poi con le mie stesse mani.
Gridava quelle parole Franco, come un ossesso.
Sferrò un primo colpo al Frankenstein che perse un braccio, poi toccò alle gambe che cedettero nelle giunture articolate. Il mostro cadde al suolo davanti a tutti i presenti che erano stupidi e sconvolti per il gesto, ma poco dopo accadde qualcosa d’inimmaginabile.
Cominciarono a suonare le campane, ogni rintocco per una delle ore che cadevano. Era come se in quell’avanzare dei rintocchi, il tempo si fosse fermato agli occhi dei cittadini presenti.
Franco ghignava felice, mentre Ettore che si trovava a pochi metri da lui bestemmiava frasi pronunciate a metà e storpiate da un dialetto incomprensibile. La moglie Silvana era ormai svenuta, mentre i figli gemelli l’assistevano standole vicino. Proprio al decimo rintocco quando stavano per scoccare le dieci in punto, secondo la campana dell’orologio comunale, il cielo emise un boato. D’improvviso un fulmine cadde dal cielo e colpì in pieno l’antenna posta sul retro della testa del Frankenstein. Il mostro, come colpito da un impulso vitale, riprese a muoversi prima con fare lento, poi con una maggiore agilità. I suoi occhi brillavano di elettricità, ormai la creatura aveva ripreso vita e stava riassemblando gli arti mancanti al suo corpo per riacquisire la sua forma originaria. Grazie a un solo braccio ancora attaccato al busto aveva rimesso a posto tutti gli arti recisi dai colpi d’ascia del folle arrivato sul luogo a sorpresa.
I gemelli lasciarono la madre per muovere le leve del telecomando e provare a gestire il la loro creatura radiocomandata.
-Tina, non risponde ai comandi. Disse Pino a bassa voce alla sorella.
Franco, ormai incredulo, provò a colpire il mostro alto due metri. Il Frankenstein dei Filibustiere rispose con un pugno alla testa che lo tramortì mandandolo al suolo senza possibilità di recupero. Il sindaco approfitto del momento e provando a parlare disse:

-Da non credere, incredibile tutto questo.
L’imprenditore Nicks aggiunse solo:
-Amazing! Beautiful! Amazing!
In un angolo, lontano dalla folla e seduta su un blocco di pietra che circondava la fontanella comunale, nonna Carmela sorrideva. Era l’unica a sapere che la sua pozione dona-vita aveva funzionato, restituendo una quantità di vita utile al loro mostro fatto in casa, obbligandolo a rimettersi in sesto davanti ai presenti. Il mostro aveva anche accennato un inchino che in apparenza sembrava indirizzato alla folla presente, ma che in realtà voleva ringraziare colei che gli aveva donato l’afflato di vita. Il Frankenstein, rimessosi in piedi, era andato a sedersi lì al centro dei giardinetti dove lentamente aveva congelato ogni suo movimento. Fino a diventare una statua immobile incastrata nell’aria e nel tempo. Il tutto era accaduto a pochi metri dal palco allestito per l’occasione. La gente affollata presente, guardando i gemelli smanettare con il radiocomando, aveva creduto nell’invenzione scientifica adottata per l’occasione e assisteva all’evento come se quanto accaduto fosse frutto di un effetto meccanico unito all’ingegno elettronico.
Ci fu un cittadino che disse: -Bravi, bravi davvero!
Poi si sentirono applausi forti e un vocio di approvazione. Invece tutto era accaduto grazie alla forza spontanea di quella creatura, dotata per magia di un soffio di vita stregato. Dei tanti presenti nessuno poteva immaginare chi fosse l’artefice di quanto accaduto. Nessuno seppe mai che a pochi metri da loro, nonna Carmela nonostante la sua età si era sentita ancora abile, capace di usare un antichissimo rimedio di stregoneria, servendosi di quella magia antica che conosceva lei e poche altre ancora in vita. Lei che apparteneva a una vecchia stirpe di streghe cilentane dimenticate da molti, ma pur sempre esistite.

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1 commento

  1. Ringrazio lo scrittore Mario Schiavone per questo suo splendido racconto, un po’ sospeso, un po’ magico, ma anche così vivo vero e autentico, come le emozioni che ho provato nel leggerlo. Grazie di cuore
    @natalia.cosi

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Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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