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22 frammenti di testo e immagini per una cronaca casuale

di Filippo Polenchi (testo) e Andrea Biancalani (immagini)

#1
Sono dieci anni che non lo vedo. Levi entra nell’ufficio. Sto scrivendo una lettera commerciale con un’offerta, da inviare via mail. Ho la giacca e la cravatta, i pantaloni neri comprati all’Oviesse che mi stringono al cavallo. Sento i bottoni della camicia tendersi in corrispondenza dello stomaco. Sto mettendo su peso. La sera mi lamento con Teresa perché sono convinto che questo modo di vestirmi mi stia facendo perdere anche i capelli, oltreché ingrassare. Levi imbocca la porta: ha quasi trent’anni, adesso, come me del resto; ha la barba lunga e folta, i capelli con un taglio da studente. Indossa una giacca di velluto a costine, una camicia bianca e jeans sdruciti. Sono convinto che sia diventato un professore universitario. La sua sola presenza in ufficio mi rende nervoso, polverizza gli ultimi anni di costruzioni e sacrifici per avere quello che ho. La sua perfezione animalesca mi ricorda a quanto ho mancato. Mi fa pensare di aver desiderato qualcosa, un giorno, ma di non avercela fatta. Per lui è diverso: dove finisce il suo polpastrello inizia il fatto compiuto. Levi – lo chiamavano Lev a scuola? Ricordo qualcosa in proposito, il Lev del «Newton», il Lev impegnato in politica, come il famoso nonno partigiano e poi dirigente della socialdemocrazia cittadina – Lev guarda i faldoni, le pratiche degli assicurati, i loro sinistri, le loro polizze, i premi, la storia delle loro collisioni, le volte che le carrozzerie delle loro auto si sono scontrate con quelle di altri, le volte in cui la faccenda si è chiusa con una firma sul cofano dell’auto e le volte in cui, invece, qualche paramedico ha sparso segatura sul sangue versato.

Il padre di Teresa mi dice che faccio un lavoro rispettabile, che sono un lavoratore rispettabile, che ho buoni orari e dei benefit. Ogni estate riesco ad avere tre settimane di ferie. Lavoro abbastanza vicino a casa.

Spero che Levi non chieda di stipulare una nuova polizza o che voglia parlare con qualcuno dell’Area Commerciale. Cerco in anagrafico il suo nome, ma non lo trovo. Poi Lev scarta lontano dalla mia postazione. Ficco lo sguardo al di là della parete e lo vedo accolto dal direttore. Ritorno al mio loculo; la camicia bianca che sale sul monte della pancia.

#2
I margini dello stradone sono giardini di erbacce e polvere. Piante infestanti, rampicanti, quando ci cammino accanto si fanno adesive ai pantaloni. Si attorcigliano intorno al polpaccio, a toccarle sono urticanti e umide, come spugne repellenti. Non so che piante siano, ma sono certo figure della nostra estinzione. Sono residuali, sopravvissute. Si comportano come polipi vegetali, tramano in silenzio reticoli di colonizzazione. È un mondo di mostri di ruggine e ferrame, di metallo smanioso e riccioli di polvere e peli di animali scorticati dagli attacchi dei predatori notturni; agguati agli accessi delle fognature, terrori oscuri di bestialità. L’autobus mi scarica in un punto di nessun valore da qualche parte dello stradone. Ci sono insediamenti con villette strette a grappolo, ex terreni poderali che scavalcano nel grande campo incolto – ettari su ettari di sterpaglie e qualche baracca, che costeggia il raccordo autostradale. Le case sono perlopiù le vecchie cascine del contado riadattate a ville di lusso, a tre, quattro piani. In questa terra irredenta non si deve vivere poi così male. Alle 8 del mattino è già caldo. Dai campi le folate di aria umida accrescono l’afa di giugno. I vestiti si appiccicano addosso; la camicia a righe, il suo tessuto sintetico fabbricato in Cina o in Vietnam, comprato al mercato delle Cascine prima di Pasqua, aderisce in una larga pozza sulla schiena. Sento le cosce sfregarsi poco sotto lo scroto raccolto nelle mutande. Pacchetto da 6, 10 €, ma di una taglia troppo stretta. Man mano che mi avvicino all’ufficio le ville dei signori si trasformano in palazzi di quattro piani, geometrie grigio scuro o color ruggine, imponenti e periferici, spiegati in lunghezza, come autobus di cemento. Hanno finestre aperte e chiuse, avvolgibili abbassati e alzati, ammiccano strabici e con le ciglia di tappeti o dei lenzuoli immobili nella bonaccia. Da una finestra arriva una musica, un cha-cha-cha. Qualcuno che fa le pulizie, o qualcuno che sta bevendo e ballando, che ha sovvertito le regole del lavoro. Forse questo sconosciuto vive nella canottiera a righe sottili, il ventre acuto dal baricentro basso, i capelli unti di brillantina e una bottiglia di Nastro Azzurro in mano, la moglie fuori di casa, a fare le pulizie da qualche signora in centro o in collina. E mentre la moglie è fuori e i ragazzini sono a scuola, lui si scola la Nastro Azzurro e ascolta ad alto volume il cha-cha-cha. Prepara baccanali nella sua spelonca de-coniugalizzata. Invita signore e le accompagna nel centro caldo della danza con la sua canottiera al traguardo, offre birra tiepida in bottiglia.

Tutto qui attorno odora di cialda abbruciacchiata: dev’essere per colpa dell’incontrastato reame dello scarto che va fabbricando la propria regione giorno dopo giorno, lotta dopo lotta, nel misero spazio di un canaletto di scolo. Ci sono anche fiori che sbocciano sulle maglie dell’erba parassitaria; fiori di colori malarici, abbagliano per l’eccessivo pallore febbricitante. Non c’è niente per strada. Ci sono case ai lati, cassonetti, giardini con cani che abbaiano al passaggio, accompagnandomi, ma non c’è niente. Ci sono indicazioni, una vetreria, un parcheggio di ambulanze, un cartello che devia le auto verso una piscina comunale. Però non c’è niente. Non c’è aria in quest’estate. È una canicola continua, offuscante, senza respiro. Attraverso le giornate senza forza, senza cognizione del mondo. Sono una fotocopia passata di mano in mano. Mi siedo alla postazione, lascio cadere lo zaino per terra. Accendo il computer, guardo il muro. Sul muro c’è un cartello: Forza e coraggio, il male è di passaggio. Il male dell’afa, della cappa di umido e di caldo che maledice questa terra nella ripetizione dei secoli. Non c’è un solo spacco nel cemento che sostiene questi palazzi, queste costruzioni che sia libero dalla polvere, che sia capace di respirare. Tutto è bloccato, costretto, tutto è un bolo che rimane indigesto perché qualcuno lo sta sognando altrove. Apro il programma gestionale, indosso le cuffie. La giornata ha inizio.

Guardo i fuochi d’artificio dalla sponda del fiume, seduto su un telo da spiaggia, sopra l’erba secca e schiacciata dai nostri culi. Siamo tutti seduti con le ginocchia al petto, in un terreno che sarebbe più adatto ai grossi ratti che hanno fatto la storia dell’Arno. Tutti quanti a vedere il cielo che fa sbocciare fiori di fuoco nel nero come in una notte di bombardamenti. Dopo i primi botti alcune camionette dei vigili del fuoco attraversano il ponte, proprio come in emergenza. Dal nero grafite del cielo non comparirà il sacro. Più che altro siamo di fronte a una sorta di illustrazione stellare del bilancio comunale: tutto quello che è stato speso per i fuochi, gli introiti dei chioschi ambulanti che vendono il panino con la porchetta, con la salsiccia grigliata, le birre in formato 66 cl, anche se non si potrebbe, la ZTL del centro. È solo un modo come un altro per non perdere la giornata di lavoro, visto che per tutto il giorno la città si è fermata. I ratti d’Arno, dunque, se ne stanno al riparo: rosicchiano dai loro sogni la visione mistica di un’apocalisse imminente. Finisce lo spettacolo: risaliamo il costone di terra ed erba. Non mi fermo a bere, a godermi il fresco notturno, a scacciare gli ultimi fantasmi prima del rientro a lavoro l’indomani. Torno a casa a piedi. M’incammino nella notte e i neon separano l’abbaglio dalla tenebra, come l’olio nell’acqua.

#4
Erano passati altri tre anni dall’ultima volta che l’avevo visto, in agenzia: mi ero divorziato, tenevo i capelli rasati quasi a zero. Avevo un cranio ispido e una barba rada sulle guance sode: non avevo un lavoro, ero in uno dei miei intervalli: un amico mi aveva consigliato di donare il sangue, non per ricevere soldi o una colazione gratuita, ma come gesto simbolico. Un talismano. E poi mi avrebbero fatto esami del sangue con l’esenzione. In sala d’attesa avevo riconosciuto subito Giovanni Levi: aveva lo stesso stile della mattinata all’Unipol, anche se era pieno inverno e sopra la giacca portava un parka verde militare. Aveva i capelli più lunghi e appena un po’ ingrigiti. Mi aveva riconosciuto lui: gli avevo parlato brevemente del mio divorzio con Teresa (che non era un divorzio ufficiale, ma una separazione tra persone che erano rimaste amiche, che il tempo aveva messo davanti alla propria distanza), poi gli avevo chiesto di cosa si occupasse lui. Stava scrivendo per riviste culturali on-line. Si occupava di cultura e società. Erano i margini del suo interesse, il perimetro nel quale, diceva, poteva fare qualcosa. Parlava di possibilità, sulle sedie di plastica rossa, scomode e deformi. Diceva che scrivendo quegli articoli – dei lunghi pezzi, nei quali partiva dal racconto di una storia sociologica di solito marginale e poi estendeva il suo sguardo a questioni più complesse – lui poteva agire in qualche modo sul contesto, su questo mondo in frantumi. Ripeteva le parole «possibilità» in alcune varianti, «le nostre possibilità», «le possibilità della nostra generazione».

#5
Le ellissi tra un lavoro e l’altro non erano mai disperate; ero perseguitato dalla maledizione di trovare lavoro in continuazione, ma uno peggio dell’altro. Se non mi licenziavano loro me ne andavo io. Allora riducevo la mia quota vitale, le norme della mia esistenza. Tutto si faceva più sottile, ma anche meno necessario e meno velenoso. I rapporti sociali, così ridotti, divenivano meno pressanti e la solita guerra di tutti-contro-tutti entrava in una fase meno acuta, mi dava più sollievo. In quei periodi vivevo grazie al sussidio oppure a certi risparmi oppure risparmiando. Vivevo bene in quegli interstizi. Poi, però, trovavo un lavoro e tutto ricominciava. Il bisogno materiale tornava a chiedermi il prezzo dell’umiliazione. Teresa, con la quale, anche dopo la separazione, capitava di vedersi – soprattutto ero io a cercarla, per chiederle dei prestiti, per un conforto – mi supplicava di accontentarmi, di cedere alle lusinghe della quotidianità, così le chiamava lei. Mi diceva di non sentirmi obbligato a essere felice, ma soltanto ad essere appagato da quello che un salario decente mi poteva dare. Lei diceva che, nonostante tutto, ero fortunato, che ogni volta che me ne andavo da qualche posto non capitavo in un mattatoio, in una raccolta stagionale di pomodori o in altri luoghi osceni della civiltà. Ma io non pensavo di essere fortunato. I miei piccoli privilegi di lavoratore garantito, quando li avevo, mi procuravano quell’ansia che soltanto chi vive sull’orlo di un abisso – pur essendo ancora sulla terraferma – percepisce. Come potevo gioire della mia personale fortuna in mezzo alle disgrazie collettive? Tanto più che sapevo trattarsi di una fortuna così fragile. Levi, invece, godeva di un’altra attenzione: lui godeva dell’amore degli dèi. Per quella fortuna avrei ringraziato, non perché anche quel mese o quel semestre evitavo il banco alimentare con il mio contratto determinato in un benzinaio. Allora le dicevo che mi aveva morso il demone dell’infelicità e non potevo farci niente.

#6
Accanto a un cassonetto vedo degli ortaggi gettati via. Sono due zucchine, una melanzana sbudellata e due peperoni gialli. Le zucchine sono incrociate. È una geometria blasfema, che richiama l’attenzione con le fluorescenze del peperone. Il santuario del cibo buttato è meta di senzatetto, tossici o vecchietti che non mettono insieme il pranzo con la cena di pensione. Ci vuol poco per finire ai piedi del cassonetto, a servirsi di quell’insperato discount. È un intervallo quantico che ti separa da quel momento: probabile, infinito, eventuale. Se lo fissi troppo attentamente è già qualcosa di diverso. Non lascia traccia, svanisce con l’alba di qualcun altro; qualcuno più fortunato. Nei giorni successivi la direttrice del Club (che in realtà è un centro diurno per gente con disagio psichico, ma tutti ci tengono a chiamarlo «club») mi ripete molte volte che mi vendo meglio di quello che sono. Uno dei «soci» (perché in questo Club non ci sono pazienti, ma «soci») parla dell’unico parente più giovane di lui, un suo cuginetto. Dice: Non sopporto l’idea che non sarò l’ultimo della mia famiglia a morire.

#7
La recinzione, di siepi e di metallo, ha una forma circolare e chiude con un cancello di ferro battuto. Il cancello sembra tentenni nel vuoto, come una porta che cadrà al primo schianto di nocche, come in un film comico delle origini. Dicono che ci faranno un campo sportivo: uffici, campi di allenamento, palazzine, spogliatoi, palloni a temperatura controllata. Nel frattempo, nelle interzone incerte di poderi e demanio, corrono i cinghiali che si erano acquartierati nella macchia ormai eradicata, nei pressi del cimitero: ci sono volpi che corrono, al mattino, sporche e metallizzate, in senso contrario alla marcia delle auto incolonnate ai semafori. La diaspora delle bestie che hanno vissuto in questi territori per decenni. Oltre la strada, di là dal guardrail, spesso vado a pranzo al chiosco di lampredottari. Prendo un panino col condimento classico – sale pepe salsa verde – una lattina di Coca Cola. Mangio sulle panche, accanto a muratori, ai giardinieri, a qualche raro pensionato che vive in una casa in questa spoglia periferia. Qui la campagna preme anche sugl’ultimi avamposti di città: sobborghi di villette, un carrozziere incastrato tra due palazzine dalle architetture incongruenti. C’è una cappella, una costruzione dal baricentro basso, sembra un’installazione islamica. La campagna, qui, è battuta dal vento e dalle ferite astrali dei tir che passano a tutta velocità. Il paninaro ha un’uniforme bianca: mano a mano che avanza la giornata la parannanza si sporca di unto, di grasso, di sugo. Le mani callose schiacciano la fetta di pane superiore, precedentemente intinta nel brodo del lampredotto. Lui sta tutto il giorno tra i fornelli, in postazione rialzata. Parla con i suoi avventori, li conosce tutti per nome e quelli che non conosce li chiama «mago», «professore», «belloccio». Conosce anche me: una mattina alle 10, prima che arrivassero tutti, gli ho portato il curriculum.

#8
Da poco avevo trovato impiego presso il call center di Vladi, alla Deep Blu. Lavoravo in una zona periferica, per spostarmi usavo un autobus e la tramvia. Levi aveva la schiena contro il palo centrale fra due carrozze, non doveva aggrapparsi all’asta, si reggeva con la forza del suo equilibrio: il baricentro perfettamente individuato, la gravità che gli rispondeva, le ginocchia sollecitate e sorrette dai muscoli delle cosce. Parlammo, naturalmente: per me non erano che passati due giorni da quando l’avevo visto in ospedale a donare il sangue: nella mia vita le cose si erano susseguite mansuete e neutre: volta dopo volta avevo dato uno scossone perché la dinamo si rimettesse in funzione, ma la luce che emanava era sbiadita. Levi adesso insegnava: storia e filosofia in un liceo e aveva dei corsi all’università. Studiava, preparava lezioni per liceali e per laureandi. Mentre mi parlava dell’insegnamento capii che stava riprendendo un discorso interrotto due anni prima: educare i ragazzi era la sola forma di «possibilità» che si dava alla nostra generazione. La nostra occasione di lasciare un’impronta politica in questo mondo era fallita: eravamo stati sonnambuli, più o meno consapevoli, più o meno bruciati, ma pur sempre catatonici. Adesso, però, lui si era risvegliato e quello che doveva fare era insegnare il risveglio alle nuove generazioni. Per lui era una responsabilità dell’età. Capii che in due anni la neutralità ombelicale della mia esistenza, il bianco proseguire dei giorni, non era stato affatto docile come avevo immaginato: quella che avevo scambiato per pigrizia, in realtà, era stato un violento tirocinio al fallimento. Avevo appreso i fondamentali della sconfitta.

#9
Avevo iniziato a frequentare Lucia: ci eravamo conosciuti al mare e mi ero trasferito da lei. Passavo i giorni e le notti, indistinguibili, cercando di tenere sotto la cenere i miei desideri, i miei ricordi, la vergogna, lo schifo di esserci. Consumavo con Lucia la cena, silenziosamente, poi ritornavo in camera senza dare troppe spiegazioni. Arrivavo con le ciabatte e l’accappatoio e masticavo piano, ma senza pigrizia, solo con molta cautela. Cenavamo sotto il cerchio di neon pallido della cucina. Dopocena cercavamo qualche film fra i canali del digitale terrestre, ma la tregua serale finiva con l’ultimo boccone ingurgitato: il giorno dopo ci sarebbe stato soltanto il lavoro, per otto interminabili ore. Dragavo le emittenti locali per trovare qualche classico, per aggrapparmi alla solidità di una visione assoluta, a qualcosa che mi avrebbe fatto trascendere la paura quotidiana. Lucia era leggera, la pioggia delle sue ossa che lasciava attraversarsi dal pulviscolo dei problemi. Per lei il «fa niente» era reale, tattile. Per lei esisteva davvero la formula del «fa niente»: lei aveva davvero una pelle che poteva proteggerla. Sono le creature come Lucia che possono andare avanti nel mondo, mi dicevo. Le stavo accanto e valutavo le nostre differenze biologiche. C’era una postura nel suo sopportare ogni destino possibile che io ritenevo intollerabile. E così era sempre stato, per me. Ad ogni mietitura avevo sfoltito le mie possibilità: ogni volta pensavo che qualcosa di meglio dovesse pur nascondersi da qualche parte. Anche Teresa era come lei: ma ormai quello era un matrimonio di molti anni prima. Come Teresa, seppur silenziosamente, anche Lucia mi domandava una specie di obbligo alla felicità. L’accettazione di un salario e una vita media.

#10
Aveva una voce del Nord e diceva che a lui il calcio piaceva poco. Così l’uomo con la stampella, che gli sedeva davanti, mentre la carrozza sobbalzava sulla linea malferma, diceva che forse era il caso di sperare vincesse l’Inter. Ero salito sul treno a Empoli. Insieme a me erano salite le francofone sarabande dei ragazzi con i sacchi sulle spalle, i sandali, le magliette di squadre di calcio, delle schede SIM smerciate nelle stanze d’affitto. I due uomini sembravano conoscersi. Quello senza stampella aveva qualcosa sui capelli che avrei detto brillantina ed erano, nonostante l’età avanzata, foltissimi e tirati all’indietro. Neri di tintura. La temperatura condizionata dello scompartimento mi strizzava lo stomaco. Misi lo zainetto di tela sull’addome, per ripararmi. La truppa dei senza biglietto occupava tutti i sedili: abitavamo tutti in quei paesini ex rurali, nei villaggi usurpati dai condomini di sei piani per lo stesso motivo: perché non potevamo permetterci l’affitto di case in città più attrezzate. L’uomo con i capelli lucidi diceva che non gli piacevano neanche i cavalli: lo faceva solo per il gusto della scommessa. Il sole verdognolo attraversava la ragnatela di righe sul doppiovetro: mi scaldava il capo sino a farmi male. Aveva il ventre florido e una camicia pitonata allacciata fino al collo tozzo, incassato nelle spalle. Giocava le sue piccole cifre, non voleva passare il segno. L’altro lo provocava: Si direbbe che lei è un uomo giudizioso. Il giocatore aveva la risposta pronta: L’avidità è un peccato mortale. Il treno passava accanto a campi verdi, vigneti, altri treni, acquitrini. Erano il fondale sul quale proiettavo il mio tempo, tutto ciò che poteva esserne un residuo. Il treno aveva rallentato all’improvviso fino a procedere a passo d’uomo e infine fermarsi. Sa, io stuzzico la fortuna e basta. Se poi una cosa deve succedere succede, diceva lo scommettitore. I passeggeri avevano chiesto al capotreno cosa fosse successo e lui aveva risposto che un uomo era caduto sui binari. Caduto o buttato?, avevano chiesto, ma il capotreno non aveva risposto. L’uomo con la stampella si era affacciato al finestrino, ma non vedeva nessun corpo. C’erano solo fiori di zucca seminati tra i binari. Spero si sia buttato, disse il giocatore: Anche il suicidio è un peccato mortale.

#11
Levi non guarda le persone come le guardo io. Lui ne coglie il punto di desiderio, la capsula animale. Si siede accanto a me, al tavolino che occupo da solo. È ancora presto, io ho ancora una casa e Lucia che mi aspetta. Non ha bisogno di avviare una conversazione con un espediente: sono gli altri che hanno bisogno di confidarsi, che sembrano dirgli di aver atteso lui soltanto per tutto questo tempo. Nel mio spazio claustrale, assediato dal bicchiere, la bottiglia di birra, il posacenere, il volume della rumba che scuote i culi delle avventrici di mezza età lui si adagia con naturalezza. Siamo due quarantenni separati dal dismorfismo dei nostri corpi dentro al bar: nel mio caso non c’è incongruenza, nel caso di Levi sì. Si siede senza chiedermi il permesso, mi fa domande, chiede della mia vita, dice che sono fortunato ad avere una donna, che lui non ha nessuno, ma sta bene, ha sempre avuto un’anima solitaria. Insegna ancora, sempre diviso tra università e licei; sta scrivendo un romanzo, ma adesso ha dovuto interrompersi, non ha la concentrazione per finirlo. Altri pensieri, altre questioni. Rispetto agli anni passati sembra irrequieto, nonostante all’aspetto non dimostri più di trentacinque anni. Per me, invece, ogni intervallo trascorso tra una visita casuale e l’altra, ha inciso la sua impronta: noia e insensatezza e il corpo che è tracimato in una non-forma alla quale non si può voler bene. Tutti, eccetto Lucia, non vogliono bene al mio corpo: percepisco l’offesa che reca agli sguardi degli altri. L’adipe, che suda anche d’inverno dentro la costrizione della canottiera. I pochi capelli rimasti, senza un verso: non c’è più poesia in questo decadimento di mezza età. Levi mi ricorda che detesto gli specchi, i confronti, le fotografie. Vivo nell’angolo cieco e sordo di una vita che va avanti grazie all’amore di Lucia. L’obbligo della felicità: glielo devo. Non parliamo dei suoi successi, stranamente. Non che abbia mai chiesto di essere adulato, tutt’altro. Però stavolta m’incalza con le domande: come si chiama la mia compagna, dove abitiamo, in quale lavoro sono imbarcato adesso. Rispondo a tutto, con sollecitudine. Mi chiede di accompagnarlo fuori a fumare: in tanti anni non è mai riuscito a smettere. Adesso però fuma i sigari, ché recano meno danno ai polmoni. Fuma un sigaro, nella transumanza del pubblico da bar, che improvvisamente mi sembra molto malinconico, ma anche ingenuo, benevolo. Avere Levi al mio fianco inquadra in una nuova luce tutto il reale: la disperazione si mitiga, la tristezza s’addolcisce. Studio le striature perfettamente grigie sui suoi capelli che non hanno perso il colore castano. Le nuvole di fumo alla vaniglia si dissolvono lontano dal dehor. Poi, togliendosi un pezzo di tabacco dal labbro, mi dice che avrebbe bisogno di un aiuto. Domani deve partire e avrebbe bisogno di una persona fidata che lo accompagni, che gli stia accanto. Dice che ha pensato a me; in tutti questi anni ha sempre pensato che, qualora si fosse presentato il momento adatto, la sola persona della quale si sarebbe potuto fidare ero io. Dice che partirà domani, che ha bisogno di una risposta subito, che il viaggio che deve intraprendere è lungo. Devo salvare una vecchia compagnia di liceo, dice. Non so come fare per aiutarlo, le mie ferie sono concentrate perché possa assentarmi in agosto, prenotare al mare una stanza con Lucia, non pensare a niente per venti giorni, anche se poi dopo la prima settimana inizio sempre a pensare al ritorno. Se faccio questa cosa, dice Levi, dovrò fregarmene delle ferie, del mare: lui è sicuro che Lucia capirà, che non vorrebbe impedire a suo marito di dare un contributo ad una causa. Una giusta causa. Non mi dice chi è la ragazza che «deve salvare», né da cosa la debba salvare. Però è determinato: ad ogni boccata di sigaro il tempo passa, s’avvicina l’alba e se anche lo seguissi ora dovrei tornare subito a casa, mettere le cose apposto, parlare con Lucia e poi non potrei neanche dirle per quanto starei via, perché neanche Levi lo sa. Mi dice: Non ti sembra di essere stato fin troppo nell’ombra?

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