I fantasmi del futuro (Teatro Rossi Aperto)

di Paolo Godani

 

 

Il demanio, per me che vengo da un posto di mare, è la spiaggia ceduta in concessione a uno stabilimento balneare. Il dizionario mi spiega che in quella parola straniera non devo sentire riecheggiare il domaine delle vigne di Bourgogne, ma lo Stato e il bene comune. Mi si dice, con un misto di cinismo e buona coscienza, che il demanio è “il complesso dei beni appartenenti allo stato e destinati all’uso diretto o indiretto dei cittadini”. Naturalmente, a difesa di un complesso di beni, lo Stato ha istituito un’apposita Agenzia. Da qualche giorno questa saggia Agenzia del Demanio ha messo lucchetti nuovi al Teatro Rossi sito in Pisa, per proteggerlo però dal libero uso dei suddetti cittadini che per otto anni l’avevano autogestito. Il 27 settembre del 2012, un gruppo piuttosto vivace di studenti, intermittenti dello spettacolo, precari della scuola e dell’università, insieme a diversi abitanti del quartiere, avevano inteso solo “riaccendere i riflettori” su un luogo magnifico e perduto. Alcuni di loro venivano dalla lotta contro la riforma Gelmini, altri erano ispirati dall’occupazione del Teatro Valle, avvenuta nell’estate precedente, altri ancora volevano solo manifestare l’assurdità di tenere serrato un posto di cui forse si poteva fare buon uso senza attendere chissà quali interventi del Comune, della Regione o dello Stato. Con tutta evidenza (e c’era da aspettarselo), il Demanio non pensa, quando sostiene che chiudere il Teatro sia necessario per ripristinare la legalità: non è mai accaduto niente di illegale in quel posto. Né gli riesce di pensare quando dice di voler realizzare un restauro filologico da sei milioni di euro.

Indipendentemente dal fattore economico, solo un automa ottuso può immaginare che sia possibile e che abbia senso riportare il Teatro Rossi a com’era nel 1771, quando è stato costruito. Meglio allora farci un deposito di biciclette, come non ha esitato a fare il Comune per molti anni, o pensare di smembrarlo e di usare il retropalco per gli uffici e la mensa della Cassa di Risparmio. Se avessero pensato anche solo un istante, anche solo per errore, i funzionari dell’Agenzia del Demanio avrebbero visto che la soluzione al problema del Teatro Rossi era già sotto gli occhi di tutti. Sarebbe stato sufficiente non dico sostenere, ma almeno non ostacolare coloro che dal 2012 hanno riaperto il teatro. Al Teatro Rossi Aperto, in questi anni, è accaduto tutto ciò che di buono poteva accadere in uno spazio libero come quello. Ci sono state permanenze di artisti, concerti classici e moderni, spettacoli di prosa, set cinematografici, eventi poetici, mostre fotografiche, conferenze di letteratura e filosofia, assemblee di quartiere, feste domenicali. L’ingresso si è trasformato spesso in aula studio e la saletta accanto ha ospitato persino una radio. Ricordo un illustre professore che ha tenuto avvinghiato alle sedie scomode del foyer un centinaio di persone, leggendo e commentando gli idilli leopardiani. Io stesso, una sera, devo essermi affacciato da un palchetto per condividere con un pubblico avvolto in volenterose coperte rosse Al mondo di Zanzotto e La ragazza Carla di Pagliarani.

Bisognava confondere le acque, attraversare gli spazi che separano i saperi, alternare le pratiche, far cozzare l’aulico e il prosaico, pulire i corridoi recitando un Amleto di meno, custodire gli stucchi come fossero istallazioni postindustriali. Certo, i grandi spazi di un palco senza quinte, nonché i palchetti dei piani alti e la galleria sono sempre stati frequentati con una certa riluttanza. Erano disabitati e trascurati da troppi anni per non destare il rispetto e il timore di chi tornasse ad avvicinarli. Dovevano essere abitati da molti fantasmi. Ma una volta volati via gli uccelli che per decenni ne hanno misurato gli spazi aerei, accanto a quelli del passato si erano fatti vivi anche i fantasmi del futuro. Frequentavano il freddo di quel luogo, con gli strati di tempo che custodiva, immaginando che quel teatro non era ormai più soltanto la sua antica scena, ma doveva anche restare un deposito di biciclette, un passage tra le aule universitarie di Palazzo Ricci e i ritrovi in Piazza Dante, un’eco di Carovane e Cavalieri, un capannone in disuso riadattato a teatro moderno. Le immagini del suo futuro, proiettate per otto anni in quell’antro profondo di cui la città di Pisa aveva dimenticato persino l’esistenza, sono diventate la stagione presente e viva del Teatro Rossi Aperto. Le ritroverete al loro posto, a raccontare l’insuperabile stupidità dello Stato, ma anche la gioia con cui è ancora possibile costruire un luogo comune.

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1 commento

  1. L’ho visitato una mattina: era aperto ma deserto. Ho girato solo per la “platea” – senza arredi -, alzando lo sguardo ai palchetti. Il palcoscenico gigantesco sembrava pronto perché vi venisse officiato il rito. Grande commozione, ma anche stupore: un teatro bellissimo.

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Giorgiomaria Cornelio è nato a Macerata nel 1997. E’ poeta, regista, curatore del progetto “Edizioni volatili” e redattore di “Nazione indiana”. Ha co-diretto insieme a Lucamatteo Rossi la “Trilogia dei viandanti” (2016-2020), presentata in numerosi festival cinematografici e spazi espositivi. Suoi interventi sono apparsi su «L’indiscreto», «Doppiozero», «Antinomie», «Il Tascabile Treccani» e altri. Ha pubblicato "La consegna delle braci" (Luca Sossella editore, Premio Fondazione Primoli, Premio Bologna in Lettere) e "La specie storta" (Tlon edizioni, Premio Montano, Premio Gozzano Under 30). Ha preso parte al progetto “Civitonia” (NERO Editions). Per Argolibri, ha curato "La radice dell'inchiostro. Dialoghi sulla poesia". La traduzione di Moira Egan di alcune sue poesie scelte ha vinto la RaizissDe Palchi Fellowship della Academy of American Poets. È il direttore artistico della festa “I fumi della fornace”. È laureato al Trinity College di Dublino.
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