Colonna (sonora) 2021

di

Claudio Loi

Playlist 2020 (ai tempi del virus) ovvero 10 album per non dimenticare (o forse sì).

Le note vicende sanitarie del 2020 hanno condizionato in modo drammatico una realtà di solito più dinamica e vivace. I musicisti hanno perso la possibilità di esibirsi in pubblico, di rapportarsi con la realtà e hanno dovuto rinunciare all’unica fonte di reddito rimasta dopo la dissoluzione dell’industria discografica. Ma, da questo punto di vista non sono mancate le proposte interessanti anzi il lockdown è stato per molti artisti uno stimolo alla scrittura e alla composizione oppure a riprendere in mano progetti rimasti in sospeso e idee in divenire.

In questo volubile magma sensoriale è stato difficile riuscire a definire il campo e trovare le cose più interessati e quindi ve ne propongo una manciata che in qualche modo mi hanno emozionato. Non i dischi più belli (e chi può dirlo) ma semplicemente quelli che mi hanno lasciato qualche traccia e mi danno la spinta per continuare e, come si potrà notare, tutti segnati in qualche modo dalle vicende pandemiche e in rigoroso ordine alfabetico.

 

 

Massimo Barbiero. Foglie d’erba (MB)

10 nuove composizioni per Marimba, Vibrafono, Glockenspiel, Timpani, Gongs e Percussions. Recita così il bugiardino di Massimo Barbiero, irriducibile musicista che rinnova la sua voglia di ballare da solo dopo essersi messo a disposizione di altre utopie musicali, dagli Enten Eller a multiformi variabili cangianti formazioni di varia umanità (la sua discografia è sterminata e frastagliata in modo imbarazzante). Foglie d’erba richiama chiaramente l’epica narrativa di Walt Whitman ma forse solo come suggestione romantica o semplice metafora di una tenace resistenza umana e artistica. Massimo Barbiero chiarisce (sempre nel bugiardino) che questa non è una dimostrazione di tecnica o un’esposizione di curiosità timbriche. È qualcosa che va oltre la narrazione, il testo, la storia. È il primordiale richiamo del “rito”, il ritrovare bisogni primari e ancestrali nelle dinamiche del suono oppure semplicemente creare degli stati d’animo che trascendano la scienza e il sapere. Quindi metafisica, introspezione, sofferenza ma anche gioia di creare, di sentirsi utile ma non utilitario. Sono sensazioni difficili da razionalizzare e descrivere con gli strumenti che di solito usiamo per essere umani. Non bastano le parole, le scritture, i codici per capire cosa siamo: abbiamo bisogno di qualcosa che ci aiuti a fermarci e riflettere e forse ripartire con maggior consapevolezza. Queste musiche servono proprio a questo ma necessitano di impegno e devozione, vanno assunte pur sapendo che non è detto che andrà tutto bene. Sono i rischi del mestiere di vivere.

 

Matt Berninger. Serpentine Prison (Concord Records)

Nel bel mezzo del suo cammino terreno Matt Berninger pubblica il suo primo album solista dopo una vita spesa insieme ai National una delle più interessanti band che l’America ci ha regalato in questo secolo. Indie rock di estrema eleganza, malinconico e introspettivo con la voce profonda di Berninger a caratterizzare un suono ormai consolidato e riconoscibile. Dopo vent’anni arriva quindi il momento di esporsi da solo e spezzare una routine che in qualche modo limita e opprime. Senza strappi o diaspore ma con la semplice volontà di essere finalmente se stessi, di aprirsi al mondo senza protezioni con la semplice forza delle proprie idee. Il blocco sanitario ha certamente spinto in questa direzione e in questo tormentato autunno Berninger ci regala dieci canzoni scritte con arguta intelligenza, sincere, coese e suonate in modo divino grazie all’apporto di una compagnia di musicisti dal grande cuore (tra cui la splendida Gail Ann Dorsey). È un disco che cresce dopo ogni ascolto, commuove e stordisce, si sente quanto Berninger abbia creduto in queste canzoni e abbia dato tutto quello che poteva. Talvolta la vita è una prigione da cui è possibile evadere con facilità e per i National ci sarà il tempo di ritrovarsi.

 

Deftones. Ohms (Reprise)

Sono in pista dal 1988 e Ohms è il nono album della loro carriera uscito nell’autunno di quest’anno. I Deftones hanno sempre navigato in acque turbolente come uomini e come musicisti, messo in continua discussione la loro proposta musicale e cercato di trovare sempre nuove soluzioni al loro selvaggio metal dal carattere ossessivo e dilaniante. Questo lavoro appare meno urlato del solito e affiora tra i solchi malinconia e sofferenza e le vicende umane della band vengono allo scoperto in modo palese. È un disco che va assimilato con pazienza e che lentamente lascia trasparire la sua complessità. Dietro al muro di chitarre si nasconde sempre qualche particolare e ogni volta l’ascolto è una sorpresa. Se il metal è destinato a mutare ed evolversi trova nei Deftones la giusta sponda merito anche della consapevolezza accumulata in tanti anni. Ma non c’è stanchezza o resa semplicemente presa di coscienza, rabbia e anche tanta amarezza. Ma la realtà questo regala e i Deftones sono perfetti nel cercare di non nasconderla o edulcorarla. “Siamo circondati dai detriti del passato / Ed è troppo tardi per provocare un cambiamento nelle maree  / Così scivoliamo in un mare senza speranza di rimpianti mentre guardo / Attraverso il labirinto infestato nei tuoi occhi…”.

 

Fontaines D.C. A Hero’s Death (Partisan Records)

Sono il gruppo del momento e tutti (quasi tutti in verità) ne parlano bene e li trovate in quasi tutte le classifiche di questo mefitico 2020. Giovani e irlandesi e tanto presi dai suoni postpunknewwave da avere qualche dubbio sulla loro età e sul fatto che il disco sia uscito adesso. Al punto che qualcuno li marchia come derivativi o cloni dei propri padri o furbi manipolatori di emozioni d’epoca (persino la grafica di copertina a un che di retrò pre-digitale). Ma il disco è bellissimo e allora dove sta il problema? L’avessero inciso il secolo scorso sarebbe una pietra miliare e il fatto che sia uscito oggi nulla toglie al piacere dell’ascolto. Retromania? Certo! ma al di fuori del tempo e delle etichette e dall’obbligo di dover essere sempre in tiro e con lo sguardo rivolto al nulla.

 

Gorillaz. Gorillaz Present Song Machine / Season One (Parlophone)

La loro storia è nota: band virtuale creata dalla mente vulcanica di Damon Albarn e dalle matite di Jamie Hewlett oltre a uno stuolo di musicisti che variano in continuazione. Non esistono allo stato fisico ma appaiono sotto forma di fumetti creati appunto dalla magia di Hewlett e messi in scena dalla poliforme fantasia di Albarn. Zero concerti (anche se nel secondo lockdown è stato possibile assistere a uno spettacolo in streaming), nessuna apparizione fisica ma molta musica tanto che siamo arrivati all’ottavo album oltre a una miriade di remix, bsides, outtakes e altre diavolerie della civiltà digitale. Song Machine non aggiunge nulla al loro percorso ma è sempre affascinante percepire la pulsione nel creare qualcosa di inconcepibile e inaudito e che potrebbe anche essere il futuro della musica: un universo virtuale senza confini e senza materia. Fa un po’ paura è vero ma ci dobbiamo abituare. Per la cronaca nell’album troviamo la presenza di Beck, Sir Elton John (sic), Fatoumata Diawara, Georgia, Kano, Robert Smith (dopo la cura), St. Vincent e tanti altri in un variegato universo tanto umano quanto di indecifrabile collocazione.

 

Idles. Ultra Mono. Momentary Acceptance of the Self (Partisan Records)

Accettazione momentanea del sé come atto di resistenza all’omologazione e alla globale conformazione dell’essere. Un urlo primordiale violento, diretto, elettrico, punk, micidiale nella sua sfacciata sincerità. Esistono da pochi anni ma è come se fossero sempre stati tra di noi. È la voce della coscienza che si ribella al mondo e cerca spazio e legittimazione e lo fa cercando unità di intenti, collaborazione, complicità con chi aderisce al loro manifesto ideologico. Ultra Mono è il carburante del proprio io, della contingenza, della rabbia, della ferocia che sfocia in un suono organizzato ma non prevedibile, rabbioso fino all’estenuazione. Fiducia massima nei propri mezzi e nessuna maschera per nascondere i propri incubi come se il tempo stesse per scadere, come una realtà ai tempi supplementari. In questo loro straziante messaggio trovano spazio alcune prestigiose collaborazioni come Jehnny Beth, Warren Ellis, David Yow, Colin Webster e persino Jamie Cullum oltre a un sempre più crescente numero di fedelissimi alla linea.

 

Samora. Quasar (Rizosfera/NUKFM)

Siamo in territori ambient per un progetto fortemente voluto da Enrico Marani, veterano della scena elettronica nazionale da tempi lontani (la sua bio parte dai primi TAC e prosegue in modo indefesso fino ai giorni nostri) e l’aiuto di altri sperimentatori e visionari nazionali: Eraldo Bernocchi che fornisce il suo apporto con l’aiuto di chitarre destabilizzate e tanta esperienza e il pianoforte di Silvia Corda sospeso tra arte contemporanea e improvvisazione materica. Il risultato finale è stupefacente per la qualità dei suoni, hi-end ad altissima definizione, musica emotiva e stratificata e una continua esperienza sensoriale sempre nuova ad ogni ascolto. Quest’opera funziona anche per il riuscito assemblaggio di esperienze estetiche differenti, lontane nel tempo e nello spazio ma rese coerenti e omogenee dalla direzione di Marani. E se questo non vi basta ecco che il tutto è fornito in una confezione che comprende un booklet in formato long playing di 28 pagine stampato su carta di gran pregio e al cui interno troviamo le riflessioni filosofiche vergate da Davide Bertolini e i disegni di Stefano Ricci. Da non lasciarselo scappare.

 

Saffronkeira with Paolo Fresu. In Origine: The Field Of Repentance (Denovali)

Gli attori di questo progetto estemporaneo sono tre. Eugenio Caria (Saffronkeira) producer e sperimentatore elettronico con alle spalle un discreto numero di opere che lo stanno imponendo come uno dei più interessanti sperimentatori contemporanei. La Denovali Records, label tedesca specializzata nella ricerca elettronica con un catalogo impressionante e che ancora una volta ha creduto nelle potenzialità di Caria. E infine Paolo Fresu che ha accettato di buon grado di collaborare a queste tracce e che, col passare del tempo, è diventato più che un semplice ospite ma parte integrante di queste musiche. È come se due mondi trovandosi in rotta di collisione abbiano trovato la giusta combinazione per coesistere. È la ricerca elettronica sospesa tra ambient, techno e dream wave che si apre alla tromba di Paolo Fresu così mediterranea e allo stesso tempo universale ed ecumenica. Due universi che si completano, si assemblano con scioltezza e offrono uno scenario sonoro di grande respiro, ricco di minime mutazioni di colore, ma complesso e meditato. Sono profonde riflessioni sull’origine della natura umana e sullo stare al mondo, sulla possibilità di un dovuto pentimento e nelle press notes le parole di Nietzsche sono perfette per accompagnare questi stati d’animo.

È tempo che l’uomo si ponga un obiettivo. È tempo che l’uomo pianti il ​​seme della sua più alta speranza. Il suo terreno è ancora abbastanza ricco per farlo. Ma quel terreno un giorno sarà povero ed esausto, e non elevato l’albero non potrà più crescere su di esso. Ahimè. Verrà un tempo in cui l’uomo non lancerà più la freccia del suo desiderio al di là dell’uomo – e la corda del suo arco avrà disimparato a ronzare! deve ancora avere il caos in se stessi per far nascere una stella danzante. Io ti dico: hai ancora il caos in te stesso. Ahimè. Verrà un tempo in cui l’uomo non potrà più far nascere nessuna stella. Ahimè. tempo dell’uomo più spregevole, che non può più disprezzare se stesso“.

 

Travis. 10 Songs (BMG)

Provate a chiedere a Fran Healy come si scrive una canzone pop perfetta, elegante piena di fascino ma non banale e che ti rimanga attaccata addosso. Lui lo sa fare, lo fa da sempre ma difficilmente riuscirà a spiegarlo. Forse la ricetta non esiste, sono cose che vengono fuori se ce le hai dentro e quando questo succede sembra tutto così semplice e scontato. Prendiamo ad esempio questo nuovo album dei Travis: 10 canzoni nuove che sembrano uscite dal manuale del perfetto pop singer fresche e deliziose come se si trattasse un disco d’esordio e non l’ultimo di una lunga trafila artistica. È pura magia dopo decenni di onesto mestiere riuscire a mantenere un livello così alto. Sarà la Scozia che fornisce il giusto amalgama di malinconia, paesaggi bucolici e una tradizione da cui pescare a piene mani oppure avere nel sangue i geni dei Beatles? Potrebbe essere un qualcosa di innato che troviamo nelle melodie gioiose dei Belle and Sebastian o in tutte quelle canzoni che venivano fuori da quella fucina di talenti chiamata Creation Records? Chi lo sa? Chi lo può dire? Tutto questo ha a che fare con qualcosa di mistico e misterioso e difficilmente si potrà razionalizzarlo o farlo diventare una formula perfetta da replicare. Per fortuna ci sono i Travis a regalarci queste semplici, perfette, emozionanti melodie pop.

 

Lucinda Williams. Good Souls Better Angels (Highway 20 Records)

Confesso che ho iniziato ad ascoltare Lucinda Williams da pochi anni nonostante la sua sia una carriera che inizia nei lontani anni Settanta del secolo scorso. Una vita passata a convivere con la tradizione musicale americana, a rimestare suoni e colori provenienti dal folk, dal blues, dal rock e dalle mille derive umane degli States più oscuri e dimenticati. Ma si può sempre recuperare e comunque gli ultimi album sono di una bellezza che scuote nel profondo, che spezzano il cuore. La sua visione del mondo è cruda e disincantata, aspra e sofferente, totalmente al di fuori degli stereotipi del mainstream contemporaneo. Sono storie di vita vissuta, di delusioni, abbandoni e fallimenti e una sorta di religiosità laica che serve giusto a non sprofondare. La sua voce, che sembra cedere da un momento all’altro, ha il timbro di chi ha visto troppe cose, frutto di una profonda disillusione e allo stesso tempo così testarda nel trovare la forza di continuare con ostinata partecipazione. È la voce dell’America di Faulkner, di Steinbeck, dell’ineffabile John Fante, di quel mondo fatto di autostrade infinite, di motel di terza mano, di disperati in cerca di redenzione. “Ben oltre il fondo, cadendo più forte di una pietra / Non riesco a ricordare i bei momenti che ho conosciuto / Sto affondando sempre più in basso / Giù oltre il fondo dove il diavolo non andrà”. Se volete delle risposte ai vostri dubbi chiedete alla polvere o chiedete a Lucinda Williams.

 

 

 

 

 

 

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francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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