L’Anno del Fuoco Segreto: Tongofrip

La descrizione del progetto L’Anno del Fuoco Segreto, si può leggere QUI

di Luca Ricci

“Ci sono più cose in cielo e in terra,
Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia”.

Amleto, William Shakespeare

 

Luigi Menz, da giorni accampato nei paraggi di Frippane, venne raggiunto da un uomo.
– Di cosa è fatta la tua tenda?
– Gore-tex. Un tessuto antivento e impermeabile. E’ ultra leggero.
– Che diavoleria.
Menz sorrise. – Posso entrare nel villaggio?
– I vecchi si sono parlati, – disse l’uomo. – Per loro va bene.
– Domani? Per la Festa di Tongofrip?
L’uomo annuì.
– Qual è la strada migliore per arrivare?
– Devi seguire la via principale, la riconosci perché è fatta di sassi bianchi, taglia il vallone e sale lungo il versante ovest.
– A che ora?
– Parti la mattina presto, ci sono quarantacinque minuti di cammino, mezz’ora se sei svelto.
Si guardarono, poi l’uomo si allontanò e Menz si rificcò dentro la tenda. Era accampato già da qualche giorno, la negoziazione per il suo ingresso nel paese lo aveva impegnato più del previsto. Le scorte di cibo non lo preoccupavano, ma aveva sottovalutato il clima umbro di fine ottobre: di notte l’umidità diventava implacabile, gli bagnava i vestiti. Lì non c’era il tifo né il colera, ma restare intirizzito e al gelo per tutta la notte era molto peggio dei vaccini che venivano richiesti agli africanisti.
La Festa del Tongofrip era uno dei rompicapi più affascinanti dell’intera storia dell’antropologia, proprio per l’assenza totale di testimonianze sul campo, in presa diretta. A dirla tutta la maggior parte degli studiosi l’aveva declassata a leggenda priva di fondamento reale, una stramberia – molto simile a un pettegolezzo – che qualche accademico zelante si divertiva a spacciare come vera nei vari dopocena dei convegni, dopo qualche bicchiere di troppo. Nella Enciclopedia universale dei riti umani del Fropp non se ne faceva cenno. Eminenti antropologi quali Pierre Paul Broca, Lévi-Strauss, Bronisław Malinowski, Giuseppe Sèrgi, Vittorio Lanternari non ne sapevano niente. Era altrettanto vero – indubitabile – che l’antropologia, cioè la «scienza dell’umano», si era andata consolidando grazie a viaggi ritenuti esotici dalla cultura illuminista e occidentale, esploratori alla James Cook di fatto avevano circoscritto il campo degli studi alle colonie, e per un lungo periodo l’antropologia e il colonialismo erano andati a braccetto: normale quindi che nessuno avesse prestato attenzione a un caso, ancorché strabiliante, scoppiato proprio nel cuore della vecchia Europa. A quanto risultava a Menz, soltanto uno studioso aveva citato di sfuggita il caso spinoso di Tongofrip, ed era stato Arnold Weiden, l’americano radiato dalla comunità accademica per il suo sguardo poco incline al rigore scientifico. Quest’ultimo, nel suo Superstizione come evoluzione della scienza, diceva:

“Esiste un paese nel cuore dell’Umbria, cioè nell’entroterra più appartato d’Italia (c’è un’esatta equidistanza chilometrica del paese tra la costa tirrenica e la costa adriatica) che si è reso totalmente inavvicinabile dal resto del mondo: Frippane. Gli abitanti – ma forse sarebbe meglio definirli membri di una tribù – non riconoscono lo stato italiano né la sua costituzione o le sue leggi, non per una sorta di insubordinazione, ma semplicemente perché ne ignorano l’esistenza. Nel corso dei secoli questa minuscola comunità autarchica, svincolata dalle comuni leggi demografiche, non è aumentata né diminuita, attestandosi su una media di 500 persone residenti.  Aiutata nel compito dell’autosegregazione dalla posizione geografica (il paese è arroccato su un picco a strapiombo su un vallone, lontano sia dall’autostrada che dalle principali linee ferroviarie), ha continuato a sorreggersi su un rudimentale sistema economico basato sul baratto, cosa che non ha fatto altro che stringere le maglie della sua società (il baratto, infatti, è possibile soltanto quando i due contraenti si fidino ciecamente l’uno dell’altro; nelle società moderne questo approccio psicologico non avviene più neanche tra consanguinei). Pare che ogni primo novembre nel paese si tenga la Festa del Tongofrip, un rito ancora avvolto nel mistero, in un periodo dell’anno però che per motivi legati alla tradizione religiosa e contadina ama rendere grazie”.

L’indomani Menz si mise in cammino di buon’ora, e riuscì a salire fino all’imbocco del paese in trenta minuti scarsi. Venne accolto dall’uomo con cui aveva parlato il giorno prima, che lo aspettava a braccia conserte poggiato a un masso ricoperto di muschio.
– Non può fotografare, non può registrare, non può scrivere, – lo avvisò.
Menz mise via l’attrezzatura. – Solo osservare.
L’uomo annuì, prima di condurre lo studioso dentro un’abitazione del centro: le case erano in muratura, anche se avevano qualcosa di elementare, di ridotto ai minimi termini, che faceva pensare più a un villaggio che a un borgo.
– Ecco lo scienziato, – disse l’uomo, prima di accomiatarsi.
Menz fece una sorta di saluto ossequioso piegando la testa, ma la coppia di anziani coniugi a cui era rivolto non mosse un muscolo.
Una ragazzina, seduta su una seggiola di paglia, si adornava i capelli con dei fiori.
Il vecchio, intuendo la curiosità di Menz, disse: – E’ per la festa.
– Quando comincia?
– E’ cominciata.
Menz si adagiò su una sedia di paglia. Nella stanza non volava una mosca. Soltanto il contenuto di un paiolo sopra il fuoco ribolliva.
– Adesso è il momento delle sentinelle, – proseguì il vecchio.
Non fece in tempo a finire la frase che da fuori, in lontananza, si sentirono riecheggiare delle grida: “Tongofrip è arrivato”. Soltanto allora Menz capì che il nome della festa coincideva con quello di una creatura enigmatica, che probabilmente era stata divinizzata.
– Tongofrip è buono o cattivo? – gli venne spontaneo di domandare.
Il vecchio socchiuse gli occhi. – Tongofrip è Tongofrip.
Le grida continuavano, sia maschili che femminili, era gente del paese che interpretava una parte, quella di avvisare il resto degli abitanti che era arrivato qualcuno dall’altrove. Più che giubilo, esprimevano apprensione e spavento. Menz uscì, affascinato dalla teatralità del rito a cui stava assistendo, e sentì ancora meglio le urla partire dal ciglio del paese, e andar giù e disperdersi lungo il vallone: “Tongofrip è arrivato”.
Il pranzo fu consumato in silenzio. Una minestra scodellata dal paiolo e un piattino di frutta secca. Menz non capiva la natura di quella frugalità e di quel raccoglimento spaurito. Più che una festa sembrava una quaresima.
– Non mi sembra una festa, – osservò.
Il vecchio spaccò il guscio di una noce, e lasciò il contenuto sul tavolo.
– A noi non piace Tongofrip, – disse, stringendo la mano di sua moglie.
Menz annuì mentre un ragazzino rientrò a casa, chiedendo a gran voce qualcosa da mangiare.
– Sei una sentinella? – gli domandò Menz.
Il ragazzo sorrise. – Quest’anno sì. Ero troppo piccolo, prima.
Passarono un paio d’ore nelle quali a Menz fu consentito di girare per il paese. Non c’era traccia di una consapevolezza né di una rivendicazione per quella condizione di autonomia radicale, l’isolamento in quel luogo era sorto spontaneamente, e non rappresentava nient’altro che una condizione di normalità. Più che una utopia alla Moro o alla Campanella, Frippane era uno stallo della teoria evoluzionistica. D’altronde oggi la variabilità biologica dell’uomo era riconsiderata sulla base della variabilità individuale: nessun macro-gruppo etnico o religioso avrebbe potuto contrastare il genio o l’originalità di un insieme d’individui. Menz, anche per tentare di analizzare l’aspetto linguistico, attaccò bottone con alcune persone sedute fuori dagli usci.
– Chi è Tongofrip? – chiese a una donna col viso crepato dai numerosi inverni freddi.
La donna lo guardò a lungo, ammutolita, prima di rientrare in casa.
Menz ci riprovò con una bambina che disegnava sulla strada con dei sassi.
– Mi disegni Tongofrip? – le chiese.
La bambina gettò il sasso e si mise a ridere a crepapelle.
Intanto la luce era calata di colpo, dei nuvoloni compatti provenienti da nord avevano sollecitato la notte, e delle raffiche di vento scuotevano gli arbusti e gli alberacci di Frippane. Menz rientrò nella casa che gli era stata assegnata.
– Ora che succede? – domandò.
Il vecchio era nella stessa posizione di prima, appollaiato sulla sua sedia accanto alla moglie. Anche la ragazza era rimasta seduta, continuando a pettinarsi e adornarsi i capelli.
– Ora vengono i postini, – disse, con una certa solennità.
Menz prese posto sulla sua sedia e aspettò insieme agli altri. Il postino era un’altra figura del rituale, colui il quale avvisava personalmente ciascuna famiglia dell’arrivo di Tongofrip. Cominciarono a sentire bussare alle varie porte del paese. Si udirono anche degli schiamazzi. La messinscena doveva essere parecchio divertente, almeno per i più giovani. Alla fine bussarono alla porta della casa dove si trovava Menz. Quattro o cinque colpi decisi: “Tongofrip è qui”.
Il vecchio allora si alzò dalla sedia e andò al bagno a sciacquarsi il viso.
– Bisogna andare, – annunciò.
La moglie e la figlia si alzarono immediatamente, come se non aspettassero altro. Si alzò anche Menz, nonostante ignorasse, a differenza degli altri, che cosa prevedesse il copione della Festa. S’incamminarono tutti e quattro per una stradina irta, in cui entravano e uscivano folate di vento glaciali. La maggior parte degli abitanti stava già gremendo la chiesa, o meglio quel che ne restava: un piccolo troncone in stile romanico, lascito certo degli antichi insediamenti imperiali, che a Frippane chiamavano Tempio.
C’era un clima per nulla festoso, ma quasi cupo, carico di ostilità.
– Non mi sembra una festa, – osservò Menz.
Il vecchio lo fulminò. – La festa è dopo la morte di Tongofrip.
Menz si aspettava di vedere spuntare da un momento all’altro una figura vicaria del simbolo, una sorta di correlativo oggettivo, un fantoccio su cui la comunità avrebbe potuto compiere il suo rito. La Festa del Tongofrip non era la celebrazione di un Dio, quanto piuttosto un’esaltazione identitaria. Il paese accoglieva per respingere, in modo da ribadire la sua chiusura rispetto al diverso.
Menz stava imprecando per l’impossibilità di scattare qualche foto, o fare qualche registrazione, o almeno prendere qualche appunto, quando si sentì spingere verso l’altare. Si voltò e vide che a spingerlo era stato il vecchio, con una brutalità pari alla sua scorbutica reticenza. Lo continuò a spingere, ancora e ancora.
– Perché? – chiedeva Menz. – Che ho fatto?
Dalla sommità della chiesa vennero dei canti. Una delle coriste più ispirate era la figlia del vecchio, coi suoi lunghi capelli lisci perfettamente pettinati e adornati.
Poco prima di fargli raggiungere l’altare a spintoni, il vecchio gridò a Menz: – Tongofrip è lo straniero, Tongofrip sei tu.
Sull’altare ardeva sul fuoco un pentolone. Era un grande classico dei riti ancestrali, il buon selvaggio che finisce per cucinare l’occidentale ficcanaso. In effetti Menz fu calato dentro a piedi nudi, e sentì l’acqua tiepida bagnargli le caviglie, prima che l’intera scena non finisse con un applauso scrosciante, e una fastosa cena servita nel più comodo salone del resort. Menz riabbracciò così la propria epoca, con tutto lo sfarzo e il lusso del caso.
L’indomani mattina passò dalla reception per il check out. Oltrepassò un gruppo di poltrone e divani Frau, e raggiunse il bancone stondato in laminato rosso lucido.
– Pacchetto Avventura, giusto? – gli chiese un’addetta alla reception, sorridendogli.
– Sì, grazie.
– E’ andato tutto bene?
– Benissimo. Da ragazzo avrei voluto fare l’antropologo, sa? Ma mio padre aveva uno studio dentistico già avviato…
L’addetta sorrise ancora, con il medesimo fervore. – Capisco.
Menz allungò la sua carta di credito. – Posso tenere il libro Superstizione come evoluzione della scienza?
– Ma certo, fa parte del suo pacchetto. Un souvenir.
– Sì, è solo una specie di brochure, ma mi è stato utile e sarà un bel ricordo. Grazie.
L’addetta sembrò ricordarsi qualcosa. – Ha già restituito il kit tenda?
– E’ qui con me con me, insieme ai miei bagagli.
– Può lasciarlo qui, provvederemo noi a sistemarlo nel deposito.
Menz riprese la sua carta di credito e firmò lo scontrino del POS. – E’ stata un’intuizione davvero geniale comprare l’intero paese di Frippane.
– Merito di Mr Bornes.
– Ho letto recentemente una sua intervista, incredibile quanti soldi abbia fatto negli ultimi anni. Il business alberghiero sembra un innocuo passatempo per lui. Investirà ancora in Italia?
L’addetta passò a Menz la sua ricevuta, poi sorrise per l’ultima volta.
– Mr Bornes lo sta già facendo, – disse. – Sta comprando tutti i vecchi borghi dell’Umbria, per differenziare l’offerta dei suoi parchi tematici.

***

Immagine di Francesco D’Isa.

Luca Ricci è nato a Pisa nel 1974 e vive a Roma. Ha scritto L’amore e altre forme d’odio (2006, Premio Chiara, nuova edizione La nave di Teseo, 2020), La persecuzione del rigorista (2008), Come scrivere un best seller in 57 giorni (2009), Mabel dice sì (2012), Fantasmi dell’aldiquà (2014), I difetti fondamentali (2017). Per La nave di Teseo ha pubblicato Gli autunnali (2018, in corso di traduzione nei principali paesi europei), Trascurate Milano (2018) e Gli estivi (2020). Insegna scrittura per Scuola del Libro e Scuola Fenysia.

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francesca matteonihttp://orso-polare.blogspot.com
Sono nata nel 1975. Curo laboratori di tarocchi intuitivi e poesia e racconto fiabe. Fra i miei libri di poesia: Artico (Crocetti 2005), Tam Lin e altre poesie (Transeuropa 2010), Acquabuia (Aragno 2014). Ho pubblicato un romanzo, Tutti gli altri (Tunué, 2014). Come ricercatrice in storia ho pubblicato questi libri: Il famiglio della strega. Sangue e stregoneria nell’Inghilterra moderna (Aras 2014) e, con il professor Owen Davies, Executing Magic in the Modern Era: Criminal Bodies and the Gallows in Popular Medicine (Palgrave, 2017). I miei ultimi libri sono il saggio Dal Matto al Mondo. Viaggio poetico nei tarocchi (effequ, 2019), il testo di poesia Libro di Hor con immagini di Ginevra Ballati (Vydia, 2019), e un mio saggio nel libro La scommessa psichedelica (Quodlibet 2020) a cura di Federico di Vita. Il mio ripostiglio si trova qui: http://orso-polare.blogspot.com/
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